L'Iran sciita antiebraico e anti sunnita palestinese è il vero ostacolo alla pace

Quanto accaduto un anno fa ci ricorda il ruolo principale degli ayatollah nella destabilizzazione del Medio Oriente e nella guerra totale contro Israele. E l'attuale conflitto conferma la saldezza dell'asse tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi sunniti.
Eugenio Capozzi nella "Nuova Bussola" – 9 ottobre 2024
L'ayatollah Ali Khamenei nella commemorazione di Nasrallah
È passato un anno dallo spaventoso eccidio scatenato da Hamas contro i civili israeliani ai confini della striscia di Gaza: il peggiore atto di deliberato sterminio condotto contro gli ebrei dopo la shoah.
 
Quel massacro ha mostrato con brutale evidenza come l'odio antiebraico più profondo possa rimanere latente per periodi brevi o lunghi, ma è sempre pronto ad erompere di nuovo con violenza in superficie. E ha ribadito dati di fatto che chiunque ha occhi per vedere avrebbe dovuto continuare ad avere chiari da tempo.
In primo luogo, non soltanto la questione israelo-palestinese fu irrimediabilmente condizionata all'origine dall'ostinato e unilaterale rifiuto del mondo arabo di riconoscere la legittima esistenza dello Stato ebraico, ma almeno da mezzo secolo essa si è andata trasformando in una guerra di religione totale scatenata dall'islam integralista verso Israele ma anche verso gli ebrei in quanto tali, e più ampiamente verso l'Occidente e verso i cristiani in quanto tali.
 
In secondo luogo, nello stesso Occidente l'antisemitismo non è stato debellato con la fine del regime nazista, ma rimane come un fondo oscuro nel sentimento diffuso di larghe zone della società e della cultura politica, a destra come a sinistra, scatenandosi puntualmente ogni volta che si riaccende la tensione tra Israele e i suoi nemici, alimentato anche dalle tendenze alla radicalizzazione nelle numerose comunità di immigrati dai paesi islamici. Un sentimento riflesso ancora in tante reazioni irrimediabilmente sbilanciate contro Gerusalemme nelle fasi successive alla strage. Ed evidenziato per l'ennesima volta, da ultimo, anche in Italia dalla violenta manifestazione estremista tenutasi il 5 ottobre a Roma. 
 
La guerra totale degli integralisti a Israele è stata aizzata e tenuta costantemente viva soprattutto dal loro maggiore centro di potere: la dittatura degli ayatollah instaurata in Iran nel 1979, animata dall'esplicita intenzione di cancellare l'"entità sionista" dalla carta geografica e di scacciare dal Medio Oriente il "grande Satana" statunitense, per assoggettare il mondo islamico alla sua egemonia. Ed è stata combattuta in primo luogo dagli emissari e sicari di quella dittatura - Hamas nei territori palestinesi e Hezbollah in Libano – tenendo le popolazioni sotto il giogo delle loro organizzazioni militari e tenendo Israele sotto la costante, incessante, quotidiana minaccia  del terrore indiscriminato.
 
Dopo una lunga serie di speranze e delusioni, dopo periodi di apparente calma e di nuove tempeste, il massacro del 7 ottobre 2023 ha rappresentato la prova definitiva del fatto che nessuna convivenza pacifica stabile tra Israele e i suoi vicini arabi potrà mai essere costruita finché rimane in piedi la centrale terroristica incarnata dal regime islamista sciita iraniano, e finché rimangono in grado di operare i suoi proxy.
 
Ciò emerge con ancora maggiore nitidezza se si considera che il pogrom antiebraico è stato ideato e perpetrato innanzitutto per uno scopo ben preciso: quello di far fallire il percorso diplomatico degli "Accordi di Abramo", intrapreso sotto gli auspici della presidenza statunitense di Donald Trump, e sfociato nel 2020 nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Gerusalemme e vari stati arabi come Emirati, Marocco, Bahrein.
 
Gli Accordi erano stati una svolta decisiva nella strategia statunitense nell'area, con l'abbandono della fallimentare politica di appeasement nei confronti di Teheran portata avanti precedentemente dall'amministrazione Obama, e con l'obiettivo di favorire un'alleanza storica tra Israele e i paesi sunniti, isolando l'Iran destabilizzatore e ridimensionando le speranze dei suoi indiretti "padrini", ossia Cina e Russia, di guadagnare spazio in Medio Oriente ai danni degli Stati Uniti e dell'Occidente.
 
L'approdo naturale decisivo di quel cammino sarebbe stato un patto diretto tra israeliani e Arabia Saudita, atteso con favore dal principe ereditario Mohammed bin Salman, intenzionato a creare un'area di cooperazione economica pacifica e a fermare definitivamente le mire di potenza regionale coltivate dagli ayatollah. Ma la presidenza Biden, seguita a quella di Trump, ha nuovamente rovesciato la linea statunitense, e ha tentato ancora una volta, con risultati altrettanto fallimentari che quella di Obama, di recuperare i rapporti con Teheran, raffreddando per molti anni quelli con Riad.
 
Così, l'eccidio del 7 ottobre, favorito dalla fatale debolezza americana, è riuscito a lacerare violentemente la tela di quelle trattative, riportando il caos in tutto il Medio Oriente. Esso ha sospinto nuovamente Israele verso l'isolamento, costringendolo al drammatico dilemma tra una reazione militare di portata tale da scoraggiare ulteriori aggressioni, ma destinata ad alimentare ancora una volta l'odio dei suoi vicini, e la rassegnazione a continuare a vivere sotto la perenne spada di Damocle del terrorismo di Hamas, Jihad islamica, Hezbollah, assistendo impotente alla disgregazione di ogni solida prospettiva futura di pacificazione.
 
 
Il governo israeliano di Benjamin Nethanyau, pur dovendo fronteggiare violente opposizioni interne ed esterne, e nonostante i pesanti freni che l'amministrazione Biden ha tentato di imporre ad esso, ha scelto la prima strada, puntando decisamente alla distruzione delle capacità belliche sia di Hamas che di Hezbollah, mettendo nel mirino direttamente anche il loro protettore iraniano e mostrando di non temere uno showdown militare con quest'ultimo.
 
Oggi, a prezzo di gravi tensioni e di molte perdite anche civili, le capacità militari delle due organizzazioni estremiste sono state quasi azzerate. Gli iraniani sono stati costretti sulla difensiva, a dispetto delle loro minacce roboanti, e l'"asse della resistenza" da loro sbandierato ha mostrato clamorosamente la sua debolezza.
 
Ma soprattutto va notato che, nonostante la radicalizzazione dello scontro, i maggiori Stati arabi sunniti non si sono lasciati trascinare in esso, e nella sostanza hanno anzi addirittura mostrato di sostenere con discrezione l'opera israeliana di smantellamento delle centrali terroristiche. Alcuni, come Egitto e Giordania, hanno addirittura collaborato alla sua difesa contro le offensive missilistiche iraniane.
 
Non è possibile sapere in che condizioni avverrà il redde rationem tra Gerusalemme e Teheran. In ogni caso per ora il grave scacco subìto dall'asse integralista sta, di fatto, creando le premesse per un rinsaldamento dell'"asse della cooperazione" (soprattutto nel caso di una vittoria di Trump alle elezioni), a cui oltre Israele, sauditi e Stati Uniti potrebbe essere associata anche una potenza pacifica in grande ascesa come l'India.
Ma nelle classi dirigenti e politiche europee questi sviluppi non sembrano essere ancora chiari, e il torbido residuo dell'ostilità anti-israeliana continua a tornare troppo spesso alla luce. Generando interpretazioni ambigue ed equivoche del conflitto. E l'invocazione di soluzioni diplomatiche impossibili, almeno finché gli agenti effettivi della destabilizzazione non verranno definitivamente posti in condizione di non nuocere.
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