La fede non è un’idea, ma la vita

La fede non è un'idea, ma la vita
Benedetto XVI dal libro "Che cos'è il cristianesimo" da pagina 85 a pagina 95
 
Santità, la questione posta quest'anno nel quadro delle giornate di studio promosse dalla rettoria del
Gesù è quella della giustificazione per la fede. Nel quarto volume della sua «Opera Omnia»
dal titolo «Introduzione al cristianesimo» Lei mette in evidenza la sua affermazione risoluta: «La fede
cristiana non è un'idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Rm 3,28), Lei
ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti
comunicato at-
traverso la comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio». Potrebbe spiegare che cosa ha
inteso con quell'affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l'obiettivo di queste giornate
è chiarire la teologia pastorale e vivificare l'esperienza spirituale dei fedeli?
Si tratta della questione: cosa è la fede e come si arriva a credere. Per un verso la fede è un contatto
profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo
e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli,
amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà mas-
sima concessa al padre gesuita Daniele Libanori per un simposio sulla giustificazione per la fede (Roma, rettoria del Gesù, 8-10 ottobre 2015) il testomassimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell'essenza della fede
il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle.
L'incontro con Dio significa anche, al contempo, che io stesso vengo aperto, strappato dalla mia
chiusa solitudine e accolto nella vivente comunità della Chiesa. Essa è anche mediatrice del mio
incontro con Dio, che tuttavia arriva al mio cuore in modo del tutto personale.
La fede deriva dall'ascolto (e fides ex auditu»), ci insegna san Paolo.
L'ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e
neppure un cercare un'immersione nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere
presenti, ma esse restano insufficienti senza l'ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da
una storia da lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che
hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile.
Nel mio articolo sul battesimo ho parlato della doppia trascendenza della comunità, facendo così
emergere una volta ancora un importante elemento: la comunità di fede non si crea da sola. Essa
non è un'assemblea di uomini che hanno delle idee in comune e che decidono di operare per la
diffusione di tali idee. Allora tutto sarebbe basato su una propria decisione e in ultima analisi sul
principio di maggioranza, cioè alla fin fine sarebbe opinione umana.
Una Chiesa così costruita non può essere per me garante della vita eterna né esigere da me
decisioni che mi fanno soffrire e che sono in contrasto con i miei desideri. No, la Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da lui. Ciò trova la sua
espressione nei sacramenti, innanzi tutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con
un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una
comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di sé stessa.
La pastorale che intende formare l'esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi
dati fondamentali.
È necessario che essa abbandoni l'idea di una Chiesa che produce se stessa e faccia risaltare che la
Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all'incontro con
Gesù Cristo e alla sua presenza nel sacramento.
Quando Lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la
Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina
della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto
a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L'esperienza
religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo
all'uomo moderno, marcato piuttosto dall'assenza di Dio (si veda il suo articolo in «Communio»,
edizione tedesca, anno 2000, p. 430). Per l'uomo
moderno il problema non è tanto come assicurarsi la vita eterna, quanto piuttosto garantirsi, nelle
precarie condizioni del nostro mondo, un certo equilibrio di vita pienamente umana. La dottrina di
Paolo della giustificazione per la fede. in questo nuovo contesto, può raggiungere l'esperienza
«religiosa» o almeno l'esperienza «elementare» dei nostri contemporanei?
Innanzitutto, tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su «Communio» (2000) in
merito alla problematica della giustificazione. Per l'uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla
prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più
l'uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che
sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla
miseria dell'essere limano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da
lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura
diretto e forma tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi
avrebbe per così dire cancellato colpe di Dio. Anche se per ora la maggior parte degli errori umani
non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere
una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando [ohann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi
deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizee-empfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema
in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del
rapporto tra Dio e l'uomo, l'uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non
possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell'umanità. In questo senso la preoccupazione
per la salvezza tipica di un tempo è perlopiù scomparsa.
Tuttavia, a mio parere, continua a esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo
bisogno della grazia e del perdono. Per me è un «segno dei tempi» il fatto che l'idea della
misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante, a partire da suor Faustina, le cui
visioni in vario modo riflettono in profondità l'immagine di Dio propria dell'uomo di oggi e il suo
desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale
impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito.
Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente
prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai
primi anni di vita ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia
è l'unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c'è misericordia
finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con
questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente
della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci
spaventa al suo cospetto.
A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria
giustizia l'uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon
samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è
fortemente sottolineata la componente sociale dell'esistenza cristiana, né solo perché in essa il
samaritano, l'uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così
dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali
della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò pia-
ce all'uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante, tuttavia, che gli uomini nel loro
intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che si curvi, versi olio sulle loro
ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della
misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i
sentimenti non contano più niente, aumenta però l'attesa di un amore salvifico che venga donato
gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello
che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è
possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della
giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza.
Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l'offesa infinita che era stata
fatta a Dio e così restaurare l'ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile
dall'uomo moderno (cfr. «Gaudium et spes» n. 4). Esprimendosi in questo modo, si rischia di
proiettare su Dio un'immagine di un Dio di collera, dominato, dinanzi al peccato dell'uomo, da
sentimenti di violenza e di aggressività paragonabili a quello che noi stessi possiamo sperimentare.
Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai
assodata presso i fedeli, che il Dio dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Ef 2,4)?
Le categorie concettuali di sant'Anselmo son diventate oggi per noi di certo incomprensibili. È
nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi.
Per parte mia formulo tre punti di vista su questo punto.
1) La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che
ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia non è solo incomprensibile
oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa
sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola.
Quando il Figlio nell' orto degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli
debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l'umanità al di dentro
della volontà di Dio. Dovremo tornare ancora, in seguito, sul rapporto tra le due volontà del
Padre e del Figlio.
2) Ma allora perché mai la croce e l'espiazione? In qualche modo oggi, nei contorcimenti del
pensiero moderno di cui abbiamo parlato sopra, la risposta a tali domande è formulabile in modo
nuovo. Mettiamoci di fronte all'incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di
odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero. Questa massa di male non
può essere semplicemente dichiarata inesistente, neanche da parte di Dio.
Essa deve essere depurata, rielaborata e superata. L'antico Israele era convinto che il quotidiano
sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione (Yom Kippur) fossero
necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo e che solo mediante tale
riequilibrio il mondo poteva, per così dire, rimanere sopportabile. Una volta scomparsi i sacrifici nel
tempio, ci si dovette chiedere cosa potesse essere contrapposto alle superiori potenze del male, come
trovare in qualche modo un contrappeso. I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato
sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e
incommensurabile era stato creato un contrappeso all'incommensurabile presenza del male. Anzi essi
sapevano che le offerte presentate finora potevano essere concepite solo come gesto di desiderio di
un reale contrappeso. Essi sapevano anche che di fronte alla strapotenza del male solo un amore
infinito poteva bastare, solo un'espiazione infinita. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è
un potere che può contrastare quello del male e così salvare il mondo. E su queste basi poterono
anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell'amore sofferente di Cristo e come
parte della potenza redentrice di tale amore. Sopra citavo quel teologo per il quale Dio ha dovutosoffrire per le sue colpe nei confronti del mondo; ora, dato questo capovolgimento della prospettiva,
emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com'è la massa del male che deriva
dalla libertà che lui stesso ha concesso per l'uomo creato a sua immagine che è amore e senza il libero arbitrio non c'è amore. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può
redimere il mondo.
3) Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull'argomento
un passo tratto dal libro di de Lubac su Origene che mi sembra apportare molta chiarezza: «Il
Salvatore è disceso sulla terra per pietà verso il genere umano. Egli ha subito le nostre passioni prima
di soffrire la croce, prima ancora che si fosse degnato di prendere la nostra carne: ché se non le avesse
subite dapprima, non sarebbe venuto a partecipare alla nostra vita umana. Qual è questa passione, che
dall'inizio egli ha subito per noi? È la passione dell'amore. Ma il Padre stesso, Dio dell'universo, lui
che è pieno di longanimità, di misericordia e di pietà, non soffre, forse, in qualche modo?
O forse tu ignori che, quando si occupa delle cose umane, egli soffre una passione umana? (Omelie
su Ezechiele 6,6).
Perché il Signore Dio ha preso su di sé i tuoi modi di vivere come colui che prende su di sé il suo
bambino. Dio prende, dunque, su di sé i nostri modi di vivere come il Figlio di Dio prende le nostre
passioni. Il Padre stesso non è impassibile! Se lo si invoca egli ha pietà e compassione. Egli
soffre una passione d'amore ... ».
In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che si soffermava su die Not
Gottes (indigenza di Dio»). Qui si presenta davanti ai miei occhi un'impressionante immagine che
rappresenta il Padre sofferente, che, come Padre, condivide interiormente le sofferenze del Figlio.
E anche l'immagine del «trono di grazia» fa parte di questa devozione: il Padre sostiene la croce e il
crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d'altra parte è per così dire insieme con lui sulla croce.
Così in modo grandioso e puro è colto qui il significato della misericordia di Dio e della partecipazione di Dio alla sofferenza dell'uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del
fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del
male che in ultima analisi si può realizzare solo nella sofferenza dell'amore.
Negli «Esercizi spirituali», Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di
vendetta, al contrario di Paolo (cfr. 2 Ts 1,5-9); ciò non di meno egli invita a contemplare come
gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all'inferno» ((Esercizi spirituali» n. 102;
Denzinger-Schbnmetzer, TV, 376, nn. 633 e 1037) e a considerare l'esempio degli «innumerevoli
altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io»
((Esercizi spirituali» n. 52). È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria
attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione
eterna quanti più «infedeli» possibile. L'insegnamento, formalizzato nel Concilio di Trento, nella
sentenza riguardo al giudizio sui buoni e
sui cattivi, in seguito radicalizzato dai giansenisti, è stato ripreso in modo molto più contenuto
nel «Catechismo della Chiesa Cattolica» (cfr. §5 633, 1037). Si può dire che su questo punto,
negli ultimi decenni, c'è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve
assolutamente tenere conto?
Non c'è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i
padri e i teologi del Medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere
umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del
nuovo mondo all'inizio dell'era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella
seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può
lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale
per essi non rappresenta una reale risposta alla questione per sempre perduto perduto e ciò spiega il
loro impegno missionario -, nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata
definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di
convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa?
Ma pure per i cristiani ne derivò una conseguenza. Diventò, infatti, incerta e problematica
L'obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c'è chi si può salvare anche in altre maniere, non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e
alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa
immotivata. 
Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità
universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due:
innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l'atto-base
essenziale dell'esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura
trascendentale della nostra coscienza consiste nell'apertura al tutt'altro, all'unione con Dio. La fede
cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell'uomo in quanto tale. Per-
ciò quando l'uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l'essenziale dell'essere cristiano
pur senza conoscerlo concettualmente. Il cristiano coincide dunque con l'umano e in questo senso,
anche senza saperlo, è cristiano ogni uomo che accetta sé stesso. È vero che questa teoria è
affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che è in sé
l'essere umano e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel
cristianesimo.
Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le
quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti
devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall'Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica,
più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non
è proporzionata alla grandezza della questione.
Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologi che hanno fatto
forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la pro esistenza di Cristo sarebbe espressione della
figura fondamentale dell'esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problemanon è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l'intuizione essenziale che così
tocca l'esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti, e i cristiani, che nella
grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale
«essere per». Cristiani, per così dire, non si è per séstessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non
significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, ma la vocazione a
costruire l'insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è
l'intima apertura nei confronti di Dio, l'intima aspettativa e adesione a lui, e ciò viceversa significa
che noi insieme con il Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render
loro visibile l'avvento di Dio in Cristo.
È possibile spiegare questo «essere per» anche in modo un po' più astratto. È importante per
L'umanità che in essa ci sia verità, che questa sia creduta e praticata. Che si soffra per essa. Che la si
ami. Queste realtà penetrano con la loro luce all'interno del mondo in quanto tale e lo sostengono.
lo penso che nella presente situazione diventi per noi sempre più chiaro e comprensibile quello che il
Signore dice ad Abramo, che cioè dieci giusti sarebbero stati sufficienti a far sopravvivere una città,
ma che essa distrugge sé stessa se tale piccolo numero non viene raggiunto. È chiaro che dobbiamo
ulteriormente riflettere sull'intera questione.
Agli occhi di molti «laici», segnati dall'ateismo del XIX e XX secolo, Lei ha fatto notare, è piuttosto
Dio - se esiste -che non l'uomo che dovrebbe rispondere delle ingiustizie, della sofferenza degli
innocenti, del cinismo del potere al quale si assiste, impotenti, nel mondo e nella storia universale
(cfr. «Spe salvi», n. 42) ... Nel suo libro «Gesù di Nazarei», Lei fa eco a ciò che per essi - e per noi -
è uno scandalo: «La realtà dell'ingiustizia, del male, non
può essere semplicemente ignorata, semplicemente messa da parte. Essa deve assolutamente essere
superata e vinta. Solamente così c'è veramente misericordia», Il sacramento della confessione è, e
in quale senso, uno dei luoghi nei quali può avvenire una «riparazione» del male commesso?
Ho già cercato di esporre nel loro complesso i punti fondamentali relativi a questo problema
rispondendo alla terza domanda. Il contrappeso al dominio del male può consistere in primo luogo
solo nell'amore divino-umano di Gesù Cristo che è sempre più grande di ogni possibile potenza
del male. Ma è necessario che noi ci inseriamo in questa risposta che Dio ci dà mediante Gesù Cristo.Anche se il singolo è responsabile per un frammento di male, e quindi è complice del suo potere,
insieme a Cristo egli può tuttavia «completare ciò che ancora manca alle sue sofferenze»
(cfr. Col 1,24).
Il sacramento della penitenza ha di certo in questo campo un ruolo importante. Esso significa che noi
ci lasciamo sempre plasmare e trasformare da Cristo e che passiamo continuamente dalla parte di chi distrugge a quella che salva.
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