La coscienza
Oggi si assiste ad una diffusa mistificazione del concetto modernistadi coscienza e del suo indebito ricorso ad essa
Caritas in Veritate Il ruolo della coscienza – don Enrico Finotti – settembre, 27,2024
Noi dobbiamo proporre al popolo la verità e la legge nella loro integrità. Fa parte di un elementare dovere della catechesi che è rivolta a tutti e che non può costituire offesa a nessuno. Proporre la dottrina che viene da Dio non è offesa alla libertà e alla coscienza. A ciò si oppongono speciose obiezioni. Val la pena di vagliarle: ad esempio, «la regola suprema è la coscienza». Nella mente di molti, questa massima suona in realtà così: «le leggi le fà la mia coscienza». Niente di più falso. La norma ha la stessa sorgente dell'essere; se ci fossimo creati da noi (è ridicolo solo il dirlo), potremmo anche farci legge a noi stessi. Ma non ci siamo creati da noi e, pertanto, la legge viene di là della coscienza (eteronomia), in ultima analisi dalla stessa fonte dalla quale abbiamo avuto l'essere. La coscienza è solo l'applicazione al caso nostro concreto (mediante l'operazione dell'intelletto) della legge venuta dal di fuori, per giudicarlo alla sua luce. Niente di più. Naturalmente, nel giudicare la conformità o differenza della nostra azione in concreto, la coscienza è l'ultima istanza, poiché nella nostra interiorità non ne funziona ordinariamente alcun'altra. Ma, si badi, la coscienza può svolgere con sicurezza il suo compito solo quando è formata ed informata a dovere; il che esclude il giudizio dato dalla precipitazione, dalla passione e dall'ignoranza[1].
Occorre riaffermare che la coscienza è un giudizio pratico e non un 'organo creativo' della verità, in quanto non spetta ad essa elaborare i principi del vero e del bene. Il papa Giovanni Paolo II nell'Enciclica Veritatis splendor scrive:
Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. E' un giudizio che applica a una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica appartiene alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile dell'anima, brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella concretezza della situazione il bene[2].
Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e accoglie i comandamenti: «La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è iscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano»[3].
La coscienza 'dice' in una precisa situazione contingente, qui ed ora, quello che la persona deve fare o evitare.
Che cos'è la coscienza morale? La coscienza morale, presente nell'intimo della persona, è un giudizio della ragione, che, al momento opportuno, ingiunge all'uomo di compiere il bene e di evitare il male. Grazie ad essa, la persona umana percepisce la qualità morale di un atto da compiere o già compiuto, permettendole di assumerne la responsabilità. Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo prudente può sentire la voce di Dio che gli parla[4].
Essa tuttavia 'parla' in base alle informazioni che ha ricevuto. Senza di esse non è in grado di pronunziarsi e, con eventuali informazioni erronee, il suo giudizio risulta falso (coscienza erronea).
La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore. «Succede non di rado – scrive il Concilio – che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato». Con queste brevi parole il concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea. […] Essa non è un giudice infallibile: può errare. Nondimeno l'errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da cui non può uscire da solo[5].
La coscienza morale può emettere giudizi erronei? La persona deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza, ma può emettere anche giudizi erronei, per cause non sempre esenti da colpevolezza personale. Non è però imputabile alla persona il male compiuto per ignoranza involontaria, anche se esso resta oggettivamente un male. E' quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori[6].
La coscienza, quindi, può agire correttamente se vi sono due passaggi previ e indeclinabili:
1. La conoscenza della verità mediante l'intelligenza
Il bene e il male, il vero e il falso, sono conosciuti con un processo intellettivo che precede il ricorso alla coscienza morale e che assolve al dovere imprescindibile di cercare la verità secondo il proprio stato di vita e secondo le responsabilità educative e sociali di cui si è investiti.
Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il card. J.H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri»[7].
Già il Concilio Vaticano II ricorda il dovere di ogni uomo in ordine alla ricerca della verità e del bene:
A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono per la loro stessa natura spinti e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire la verità conosciuta e ad orientare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità[8].
Il dovere della formazione della coscienza ha nel cristiano il necessario riferimento alla divina Rivelazione, che illumina l'intelligenza consentendo di cogliere la Verità facilmente, con assoluta certezza e senza errore [9], ed offrendo i mezzi soprannaturali a cui dovrà ricorrere con umile sottomissione.
Come si forma la coscienza morale perché sia retta e veritiera? La coscienza morale retta e veritiera si forma con l'educazione, con l'assimilazione della Parola di Dio e dell'insegnamento della Chiesa. E'sorretta dai doni dello Spirito Santo e aiutata dai consigli di persone sagge. Inoltre giovano molto alla formazione morale la preghiera e l'esame di coscienza[10].
Il papa Benedetto XVI, con la sua nota chiarezza espositiva, ebbe a dire:
E' necessario l'appello alla coscienza e, in particolare, alla coscienza cristiana. «La coscienza, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa, l'uomo ha il dovere di seguire ciò che sa essere giusto e retto» (CCC, n. 1778). Da questa definizione emerge che la coscienza morale, per essere in grado di guidare rettamente la condotta umana, deve anzitutto basarsi sul solido fondamento della verità, deve cioè essere illuminata per riconoscere il vero valore delle azioni e la consistenza dei criteri di valutazione, così da sapere distinguere il bene dal male, anche laddove l'ambiente sociale, il pluralismo culturale e gli interessi sovrapposti non aiutino a ciò. La formazione di una coscienza vera, perché fondata sulla verità, e retta, perché determinata a seguirne i dettami, senza contraddizioni, senza tradimenti e senza compromessi, è oggi un'impresa difficile e delicata, ma imprescindibile. Ed è un'impresa ostacolata, purtroppo, da diversi fattori. Anzitutto, nell'attuale fase della secolarizzazione chiamata post-moderna e segnata da discutibili forme di tolleranza, non solo cresce il rifiuto della tradizione cristiana, ma si diffida anche della capacità della ragione di percepire la verità ci si allontana dal gusto della riflessione. Addirittura, secondo alcuni, la coscienza individuale, per essere libera, dovrebbe disfarsi sia dei riferimenti alle tradizioni, sia di quelli basati sulla ragione. Così la coscienza, che è atto della ragione mirante alla verità delle cose, cessa di essere luce e diventa un semplice sfondo su cui la società dei media getta le immagini e gli impulsi più contraddittori[11].
Se la coscienza non riceve i criteri e i dati della verità dall'intelletto, non possiede gli elementi sui quali poter pronunziare un giudizio di comportamento pratico in un caso concreto. Un giudice non può giudicare senza un sufficiente quadro di informazioni sul caso.
2. La pulizia morale
Le rettitudine morale garantisce il più possibile la retta intenzione in ordine alla ricerca e alla conoscenza del vero e del bene. Il Concilio Vaticano II ammonisce a tal proposito:
Succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato[12].
Il cristiano sa che questa pulizia morale non è solo introspezione psicologica realizzata dalla buona volontà, ma anche intervento soprannaturale della Grazia, che opera soprattutto nella preghiera e nei Sacramenti.
Senza tale pulizia si rischia di ritenere 'voce della coscienza' gli impulsi della fantasia e del proprio tornaconto. Senza retta intenzione e volontà sincera del bene, alimentata da una continua vigilanza spirituale, la voce della coscienza può confondersi con i reconditi desideri del piccolo mondo delle banalità.
Ci si interroga se il facile ricorso alla coscienza, così vivo e diffuso nella nostra cultura, tenga sufficientemente presente la necessità previa dei due passi sopra descritti. Se ciò non avviene il ricorso alla coscienza sarebbe sterile e improprio.
Nel caso specifico della vita umana, la coscienza individuale e sociale (nel senso di opinione diffusa e condivisa) non è competente in prima istanza nello stabilire la verità oggettiva sulle complesse questioni relative alla vita nascente. Tale competenza e capacità è propria della ragione, che è chiamata ad indagare su tutto il ventaglio del sapere: scientifico, filosofico, religioso. La ricerca scientifica, il sapere filosofico (filosofia perenne) e, per il cristiano, i dati della divina Rivelazione, considerati nel loro insieme, danno la conoscenza, la misura e il criterio di verità in ordine allo specifico problema. La coscienza quindi, formata su questi dati, che riceve e non crea da sé, sarà in grado di indicare, in una situazione contingente, il comportamento giusto, che sarà tanto più vero e conforme al bene quanto più saranno tali le indicazioni ricevute dall'intelligenza.
E' quindi ingiusto chiedere a persone largamente impreparate un giudizio di valore su questioni tanto fondamentali per il bene comune come quelle sulla vita. La loro coscienza non ha la capacità e la necessaria informazione per un giudizio corrispondente alla verità.
Così è anche vero che oggi il facile ricorso alla coscienza è spesso in realtà l'espressione della dittatura del capriccio individuale, che erige a criterio di valutazione gli umori momentanei in un fondamentale quadro di interessi immediati e unilaterali, che possono pure godere di un consenso sociale capillare ed esteso.
In tal senso è indispensabile e urgente il richiamo a quella previa pulizia morale, che verifica continuamente la retta intenzione in ordine al vero e al bene.
Occorre infine osservare che la problematica della coscienza, come oggi è intesa, è minata dal relativismo intellettuale ed etico in base al quale l'uomo non crede più che l'intelletto umano sia capace di conoscere - sebbene in modo inadeguato e perfettibile, tuttavia vero - la verità oggettiva che può essere da tutti conosciuta e partecipata.
Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da diventare in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di 'fine della metafisica': si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del saper umano o sulle sue strutture[13].
Si nota una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva[14].
Il Concilio Vaticano I ha insegnato l'attitudine della ragione a conoscere la realtà sensibile e spirituale, a dimostrare l'esistenza di Dio, a dimostrare ciò che è proprio della sua natura. Esso ha dimostrato che l'intelletto umano può raggiungere una qualche intelligenza dei misteri. L'avversario di fondo, che il Concilio Vaticano I aveva di fronte era il kantismo. Strana cosa questa: che l'avversario grande non stesse sul terreno strettamente teologico! Ma il Concilio Vaticano I aveva visto chiaro: l'errore per lo più non comincia dall'insidiare direttamente e apertamente l'ordine divino; esso più facilmente si manifesta come diminuzione dell'ordine umano. Per distruggere ed avere via libera a farlo, attacca prima la teologia naturale. Ora quella scelta fondamentale del Vaticano I è assolutamente attuale [...] Chi ha fatto le spese di tutto ciò sono la metafisica e la teologia naturale. Se si nega la capacità dell'intelletto di conoscere il mondo e si affida, more kantiano, questa conoscenza alla volontà, diventa estremamente facile raggiungere la tesi di una inconoscibilità naturale di Dio. E' la fine della teologia naturale! [...] Anche se non sempre appare, oggi la lotta all'interno della ortodossia cristiana ha per centro la teologia naturale nonché tutte le questioni filosofiche, che qualifichiamo come preambula fidei […] occorre comprendere meglio e tempestivamente la radicalità dell'insidia che è fatta alla vera fede e, per questo, alla vita, all'equilibrio, alla civiltà dell'uomo. Quale potrebbe essere la sorte di un uomo che non credo più alle sue capacità intellettive?[15].
Né crede alla capacità del linguaggio di potersi esprimere oggettivamente in modo univoco, sostanzialmente valido per tutti.
Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali[16].
Conseguenza poi del relativismo è il soggettivismo. Dal momento che la ragione è dichiarata incapace di cogliere la verità oggettiva valida per tutti, sempre e dovunque, sarà ciascun soggetto individuale o il consenso sociale a stabilire, volta a volta, il vero e il falso, il bene e il male.
Il problema più grave ed acuto davanti a cui ci troviamo oggi è esattamente la cecità della ragione per l'intera dimensione non-materiale della realtà […]
Contrariamente alle affermazioni di molte correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato[17].
Ognuno dichiara autonomamente la propria verità (vedi la diffusa espressione secondo me), oppure si accetta che essa sia stabilita dal consenso sociale in base all'opinione e al costume dominante, espresso eventualmente dal voto parlamentare o referendario (democraticismo). Dice, infatti la Scrittura: «Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia» (Es 23, 2).
Presso non pochi pensatori sembra oggi dominare una concezione positivista del diritto. Secondo costoro, l'umanità, o la società, o di fatto la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile[18].
Spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull'uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale. Viene così di fatto ad imporsi una concezione del diritto e della politica, in cui il consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme internazionali. I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale sono purtroppo evidenti: si pensi, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti dell'uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita, oppure al disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o il disprezzo del diritto umanitario e ad una difesa selettiva dei diritti umani[19].
La democrazia dà una giuridica prevalenza alla maggioranza sulla minoranza, e questo, almeno a parole, è accettato da tutti. Resta però saldo il principio che la legittimità politica non si confonde con la legittimità morale: la maggioranza non prevale onestamente quando sancisce qualcosa contrario alla legge di Dio; la democrazia non cambia la verità, come non cambia il corso del sole, il ciclo dei venti e delle piogge[20].
Ora la verità precede il soggetto e la società. Essa è iscritta da Dio nella natura oggettiva delle cose e la nostra ragione la può conoscere, ma non creare. Verità significa adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva ed esterna a noi, non creazione soggettiva ed interiore di essa. Dio solo, infatti, è il Bene supremo sussistente, sovrano e trascendente alla creazione, e ciò che si oppone a Lui è il male intrinsecamente effimero in quanto privo di consistenza ontologica. Come si può vedere è sempre ricorrente la tentazione originale diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male (Gn 3, 5) ed è necessario richiamare anche all'uomo d'oggi il monito divino: dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché certamente moriresti moriresti (Gn 2, 17)
Leggiamo nel libro della Genesi: Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti (Gn 2, 16-17). Con questa immagine, la rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere e accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso di una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare di tutti gli alberi del giardino. Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'albero della conoscenza del bene e del male, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti. La legge di Dio, dunque, non attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze culturali odierne sono all'origine di non pochi orientamenti etici che pongono al centro del loro pensiero un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male: la libertà umana potrebbe 'creare i valori' e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente significherebbe la sua sovranità assoluta[21].
E' evidente che con un simile presupposto la coscienza si riduce a un radar impazzito e le sue indicazioni, prive del riferimento a principi oggettivi validi sempre e dovunque, diventa il segno di una civiltà babelica, destinata all'autodistruzione, alla solitudine dell'individuo incapace di comunicare con una realtà vera fuori di se stesso. Si aprirebbe così la strada alla barbarie, ossia la morte dello stato di diritto e l'impero della legge del più forte
La vita sociale, nell'impossibilità di fondarsi su qualsiasi riferimento oggettivo comune, dovrebbe concepirsi come esito di un compromesso di interessi al fine di garantire il massimo di libertà possibile a ciascuno. Ma in realtà, laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, laddove il diritto all'espressione della propria libertà può prevalere sul diritto di una minoranza che non ha voce, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto.
[…] l'accredito della maggioranza come unica fonte del diritto minaccia la dignità dell'uomo e tendenzialmente inclina a risolversi nel totalitarismo[22].
In conclusione è opportuno considerare un illuminante passo dell'Enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor (n. 32) che, mettendo in evidenza tre termini fondamentali: libertà coscienza e verità, ne descrive il loro giusto rapporto, delineando il limite e il ruolo complementare di ciascuno. La retta comprensione di queste tre realtà potrà ridare al pensiero e al comportamento dell'uomo d'oggi il giusto equilibrio:
* In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti a esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee.
* Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di 'accordo con se stessi', tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.
* Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.
[1] SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di Renovatio e note al clero, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.74-75.
[2] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 59. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2682.
[3] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 60, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2684.
[4] CCC, COMPENDIO, Domanda 372.
[5] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 62, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, nn. 2687 e 2689..
[6] CCC, COMPENDIO, Domanda 376.
[7] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 34 in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2626.
[8] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 1003..
[9] CONCILIO ECUMENICO VATICANO I, Costituzione dogmatica sulla fede cattolica, Cap II, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 806.
[10] CCC, COMPENDIO, Domanda 374.
[11] BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all'Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita, del 24 febbraio 2007.
[12] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 16, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 1078.
[13] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et ratio, n. 55, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1289.
[14] Idem, n. 56. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1294.
[15] SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di 'Renovatio' e note al clero, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.13-15.
[16] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et ratio, n. 55. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1293.
[17] JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, L'elogio della coscienza – La verità interroga il cuore, ed. Cantagalli, 2009, p.68 e 97.
[18] BENEDETTO XVI, Discorso ai membri della commissione teologica internazionale, in L'Osservatore Romano, 6 ottobre 2007, p. 5.
[19] BENEDETTO XVI, Discorso alle organizzazioni internazionali non governative cattoliche, in Osservatore Romano, 2 dicembre 2007, p. 6.
[20] SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di 'Renovatio' e note al clero, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.75-76.
[21] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 35. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, nn. 2629-2631.
[22] JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, L'elogio della coscienza – La verità interroga il cuore, ed. Cantagalli, 2009, p. 40 e 70.
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