Racconto o Consacrazione

Racconto o Consacrazione?

Don Enrico Finotti dalla rivista LITURGIA CULMEN ET FONS n. 2 -2024


Il cuore del Canone Romano: Qui pridie

Don Enrico Finotti
Nel cuore del Canone Romano vi è l'embolismo Qui pridie, che si eleva sovrano su un complesso
di dodici embolismi, rispettivamente antecedenti e susseguenti ad esso, in modo da costituire un
vertice ineffabile, che come un turgido ricettacolo contiene l'adorabile mistero della Presenza reale
e del Sacrificio redentore, che si compie in modo incruento sui nostri altari.
Qui, pridie quam pateretur, accepit panem in sanctas ac venerabiles manus suas, et elevatis oculis
in caelum ad te Deum Patrem suum omnipotentem, tibi gratias agens benedixit, fregit, deditque

discipulis suis, dicens:

ACCIPITE, ET MANDUCATE EX HOC OMNES:
HOC EST ENIM CORPUS MEUM, QUOD PRO VOBIS TRADETUR.
Simili modo, postquam caenatum est, accipiens et hunc praeclarum calicem in sanctas ac
venerabiles manus suas, item tibi gratias agens benedixit, deditque discipulis suis, dicens:

ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES:

HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: QUI PRO
VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.

HOC FACITE IN MEAM COMMEMORATIONEM.

 
Mysterium fidei.

Anche i Canoni di nuova composizione riservano al Racconto dell'Istituzione il ruolo centrale
secondo l'antica e costante tradizione liturgica. E' infatti con questo necessario embolismo che il
mistero si realizza in modo sacramentale e il Sacrificio della croce è offerto al Padre per la salvezza
nostra e di tutto il mondo. Le nuove composizioni tuttavia non raggiungono quella gravità e
solennità che sono proprie del grande Canone, unica regula sacrificalis della Chiesa di Roma.
I Narrazione o consacrazione?
L'embolismo Qui pridie viene denominato nella tradizione liturgica con due termini ricorrenti:
Racconto (dell'Istituzione) e Consacrazione. Il primo termine è privilegiato nel novus Ordo Missae,
il secondo nel vetus Ordo Missae. I due termini sono legittimi e complementari. Ad un'attenta
analisi l'embolismo Qui pridie presenta effettivamente un duplice carattere: narrativo e
performativo. Si tratta innanzitutto di una narrazione dell'evento storico dell'istituzione
dell'Eucaristia nel contesto dell'Ultima Cena. Col ricorso a cinque verbi fondamentali il Qui pridie
romano descrive in modo completo e geniale tutte le azioni essenziali compiute dal Signore
nell'istituzione del Sacramento: accepit, benedixit, fregit, deditque, dicens. Al contempo si
pronunziano le medesime Parole che il Signore stesso pronunziò sul pane e sul calice. Tali gesti e
parole costituiscono il fondamento imprescindibile del rito eucaristico che la Chiesa celebra e
trasmette nei secoli. In tal senso possiamo certamente riconoscere nel termine Racconto l'identità
del Qui pridie. La Chiesa tuttavia ha coscienza che l'evento narrato e le parole pronunziate non si
riducono ad una mera narrazione storica di ciò che allora avvenne nel Cenacolo, ma il tutto si

realizza qui ed ora in forma sacramentale (sub specie sacramenti) in modo che, ogni volta che si
celebra sull'altare il Sacrificio incruento, risuona l'Hodie (oggi) dell'evento eucaristico. Non a caso
il Qui pridie si conclude col Mysterium fidei, che attesta la realizzazione di un mistero invisibile
percepito nella visibilità dei gesti e nell'udibilità delle Parole che il sacerdote compie e pronunzia in
persona Christi capitis. I termini teologici di transustanziazione e di sacrificio incruento sono
termini necessari di riferimento per esprimere adeguatamente e conservare fedelmente il depositum
fidei relativo al grande mistero. Infatti nel sacramento si rende presente il Signore stesso in modo
vero, reale e sostanziale (cfr. Concilio Tridentino) nell'atto di offrire al Padre in modo incruento
quel medesimo sacrificio che consumò in modo cruento una volte per sempre (semel) sul Calvario.
Si comprende allora quanto sia adeguato anche il termine Consacrazione: l'azione congiunta ed
indissolubile del Logos (Cristo) e dello Spirito Santo realizzano la mirabile conversione delle oblate
nel Corpo offerto e nel Sangue versato del Figlio di Dio per la nostra redenzione. Le stesse Parole
del Signore sono pervase intrinsecamente dalla virtus divina dello Spirito Santo al punto che per se
stesse producono l'evento senza necessità di un'ulteriore epiclesi. Per questo tali Parole sono
opportunamente designate come parole consacratorie e l'intera azione liturgica contemplata nel
Qui pridie è giustamente detta Consacrazione. Il Racconto perciò si intreccia alla Consacrazione al
punto da non poter essere separato, in quanto quelle Parole che vengono pronunziate realizzano in
mysterio ciò che significano. La Chiesa di fronte a questo ineffabile ed unico fatto soprannaturale
sente la necessità di tradurre in espressioni rituali, visibili ed inequivocabili quell'evento sacro che
altrimenti resta nascosto ai fedeli, ma anche potrebbe non essere sufficientemente cosciente nei
sacerdoti stessi che celebrano il Sacrificio divino. Si passa allora dal linguaggio narrativo a quello
performativo. Il delicato passaggio avviene all'interno dell'embolismo stesso allorché si
pronunziano le Parole del Signore in modo chiaramente consacratorio. L'insieme dei gesti che si
fanno e le precise Parole eucaristiche che si pronunziano nel Qui pridie devono manifestare la
volontà di realizzare ciò che ora si fa e si dice in persona Christi. In altri termini: cessa la
narrazione dell'evento e si compie l'azione del sacramento (Canon actionis). La questione richiede
una specifica argomentazione in quanto non si tratta semplicemente di impostare una corretta ars
celebrandi in ordine alla liceità e fruttuosità della celebrazione eucaristica, quanto piuttosto di
assicurare la validità stessa del Sacramento.
II Istruzione o orazione?
Occorre innanzitutto definire la natura della Prece eucaristica e in particolare del suo embolismo più
importante che ne costituisce il cuore pulsante: il Qui pridie. Ad un primo impatto sembrerebbe che
la sua forma narrativa dell'evento eucaristico, alquanto dettagliata nel Canone Romano, sia
orientata alla catechesi. Soprattutto quando il Canone è pronunziato nelle lingue volgari induce ad
una narrazione esibita davanti all'assemblea liturgica Non pochi sacerdoti, soprattutto con
l'adozione dell'altare verso il popolo, hanno creduto che tale modalità fosse consona. Ed ecco che
non solo il testo del Canone, ma soprattutto questo suo embolismo centrale viene pronunziato verso
il popolo con una particolare cura, affinché sia ben compreso e attenzionato. Non raramente poi
anche alcuni gesti, talvolta eccentrici, inducono quasi a mimare la consegna dei santi doni ai
circumstantes. In realtà non si comprende la natura vera della Prece eucaristica, che ha un carattere
latreutico e non un intento catechistico. Non si tratta perciò di narrazione catechistica, bensì di
orazione impetratoria e propiziatoria elevata ad Patrem per Filium in Spiritu Sancto. In altri
termini, il sacerdote, in persona Christi presenta al Padre la memoria fedele di ciò che fece il suo
divin Figlio nella notte in cui fu tradito, affinché si realizzi, qui ed ora sull'altare, quel suo sacrificio
incruento e sacramentale in piena conformità alle modalità istitutive da Lui comandate e così
divenga pienamente accetto alla Maestà divina. La fedeltà ai gesti e alle parole del Signore descritti
nel Racconto eucaristico ed esibito davanti al Padre, dà garanzia al sacerdote e al popolo santo di
celebrare in modo valido e legittimo ciò che il Signore aveva comandato: Hoc facite in meam
commemorationem. Si tratta allora di una solenne prece elevata con gravità sacra al Padre per dare
alla divina Trinità una gloria infinita e ricevere come frutto la pienezza di ogni grazia e benedizione

del cielo. Si comprende allora perché la Chiesa nei secoli abbia pronunziato il Canone eucaristico,
conversi ad Deum, rivolti ad Orientem. Tale orientamento non può venir meno neppure nel vigente
modo di celebrare versus populum, che in verità non favorisce, ma può compromettere tale
dimensione. In questa prospettiva cadono quei modi di porre l'azione rituale che tendono a
trasformare il Racconto eucaristico in una sacra rappresentazione di natura teatrale, dove il fine non
è quello latreutico e ascendente, ma quello catechistico e orizzontale. Si intende tuttavia che un rito
ben celebrato è, nel suo genere, un'eccellente catechesi al popolo. L'antica mistagogia, infatti,
conduce le menti e i cuori nei recessi del mistero, proprio in quanto non tende all'istruzione diretta,
bensì alla illustrazione dei santi misteri mediante il singolare linguaggio del simbolo. Si comprende
così come il Qui pridie non sia un racconto catechistico rivolto a presenti, ma un'orazione latreutica
rivolta al Padre.
III Le Parole consacratorie
Le Parole eucaristiche del Signore hanno un rilievo particolare e nel Messale vengono evidenziate
con lettere più grandi e nobili. I messali fin dalle prime stampe rendono visibile questa loro
peculiarità. Ora, se le parole del Signore fossero destinate ad una semplice narrazione, sarebbero
uniformi nei caratteri a quelle che nel Racconto descrivono i gesti del Signore. In realtà queste
Parole sono singolari ed hanno una precisa finalità performativa, ossia producono ciò che
significano: sono parole consacratorie. La fede della Chiesa riconosce in esse la forma del
Sacramento. Mediante le stesse Parole dette dal Signore si compie qui ed ora il mistero della
transustanziazione: il pane muta la sua sostanza in quella del Corpo di Cristo e il vino in quella del
Sangue di Cristo. Tutto ciò deve essere percepibile nel modo di pronunziarle e nei gesti connessi a
tale pronunzia. Infatti, le rubriche prescrivono precise modalità rituali: la breve sospensione che
stacca il racconto immediatamente precedente alle Parole in modo che tutti comprendano che si
passa dalla narrazione alla realizzazione del medesimo evento; l'inchino del capo sopra le oblate nel
mentre vengono pronunziate le Parole consacratorie; il tono della voce distinto e grave che nella
pronunzia attesta di voler realizzare ciò che si dice. Se venisse meno il carattere consacratorio nel
pronunziare le Parole di Cristo non solo i fedeli potrebbero essere indotti a ritenere che il sacerdote
stia semplicemente ricordando un fatto passato, ma potrebbe essere compromessa la validità stessa
del Sacramento che esige di fare quello che fa la Chiesa: la Chiesa infatti intende porre un rito
inequivocabile che manifesti esteriormente e pubblicamente l'intenzione di produrre la
transustanziazione e non di narrare l'evento o semplicemente di riprodurlo in modo drammatico e
teatrale. Al di là della stessa fede del sacerdote, il rito deve manifestare, in modo oggettivo e
constatabile, una pronunzia delle Parole con un chiaro intento performativo, ossia produttivo del
mistero che le Parole annunziano. La rubrica che precede il Qui pridie afferma: "Nelle formule
seguenti le parole del Signore si pronunzino con voce chiara e distinta, come è richiesto dalla loro
natura". Questa precisione rituale non è uno sterile formalismo, come taluni vanno dicendo, bensì la
condizione imprescindibile per la realizzazione del mistero sub specie sacramenti. L'intenzione
necessaria da parte del sacerdote di fare ciò che fa la Chiesa si manifesta essenzialmente nel
carattere consacratorio che deve rivestire la pronunzia delle sublimi Parole eucaristiche. Si
comprende allora quanto sia delicata la questione, soprattutto lì dove, scientemente o
inconsapevolmente, la narrazione prendesse il posto della consacrazione. In conclusione sono certo
legittime le espressioni linguistiche: Parole del Signore e Racconto dell'istituzione, impiegate nel
novus Ordo Missae, ma è altrettanto necessario che si possa dire con identica legittimità: Parole
consacratorie e rito della Consacrazione. Sono due aspetti ugualmente veri e compresenti nel Qui
pridie, nel modo che i primi descrivono l'evento e i secondi attestano il Sacramento. Infatti non a
caso l'Ordinamento Generale del Messale Romano unisce le due locuzioni: "Il racconto
dell'istituzione e la consacrazione: mediante le parole e i gesti di Cristo si compie il sacrificio che
Cristo stesso istituì nell'ultima Cena …" (cfr. OGMR, 79/d).
IV I gesti consacratori

I gesti eucaristici del Signore sono necessari quanto le sue Parole, infatti la parte sacrificale della
Messa è impostata sui tre gesti del Signore, che, almeno nella loro sostanza, sono richiesti per
realizzare il Sacrificio incruento dell'altare: la diponibilità delle oblate (pane e vino) nell'Offertorio
fornisce la materia del Sacrificio; le parole consacratorie nel cuore del Canone sono la sua forma; la
Comunione sacramentale integra il Sacrificio secondo il comando del Signore. Diverso tuttavia è il
ruolo dei molteplici gesti comandati dalle rubriche liturgiche all'interno del Qui pridie. Tali gesti
sono intrecciati alla Parole del Signore e insieme le potenziano e le circondano di profonda
venerazione. Possiamo subito dire che non si tratta di gesti imitativi, bensì di gesti consacratori.
Quando il sacerdote si accinge a pronunziare l'embolismo Qui pridie non imita propriamente la
gestualità del Signore, ma compie gesti specifici in ordine alla consacrazione delle Oblate, in modo
che davanti a se stesso e al popolo risulti chiaro il carattere performativo delle Parole del Signore. A
buon diritto possiamo perciò affermare che in questo ineffabile momento non si compie
un'imitazione quanto piuttosto una consacrazione. Nella divina Liturgia bizantina, ad esempio, si
esprime chiaramente l'intento consacratorio col capo chino e la mano stesa sui doni mistici. Se ben
si osserva nessuno dei gesti previsti nel rito consacratorio della liturgia romana mira propriamente
ad imitare il Signore, bensì a circondare di adorabile circospezione ciò che veramente si compie nel
mistero del Sacramento. Lo stesso gesto di prendere nelle mani prima l'Ostia e poi il Calice ha la
funzione primaria di far proprie da parte del sacerdote le oblate tenendole in mano e fissandole con
lo sguardo in vista di quella mirabile conversione, che le Parole del Signore produrranno appena
saranno pronunziate. Quando il sacerdote eleva gli occhi al cielo come fece il Signore (et elevatis
oculis in caelum) non si riduce alla sola imitazione, ma si configura nel quadro di un chiaro intento
performativo. Non si tratta quindi di gesti meramente imitativi di ciò che fece il Signore
nell'istituzione dell'Eucaristia, quanto piuttosto di dichiarare la volontà di consacrare i santi doni.
Anche il capo chino, che adombra le oblate nell'atto della pronunzia delle sante Parole, intende
attestare una profonda adorazione che il sacerdote deve manifestare in quanto, se da un lato agisce
in persona Christi, dall'altro non è il Cristo, ma il suo ministro. Se nell'atto consacratorio vi è
un'innegabile simbiosi mistica tra il sacerdote e il Signore, si produce al contempo una distanza
adorante proprio nell'istante di maggior vicinanza col mistero. Il capo reclinato sulle oblate inoltre
mette in luce il carattere epicletico della consacrazione romana, richiamando quell'adombramento
dello Spirito Santo che avvenne su Maria santissima nell'istante dell'Incarnazione. Le genuflessioni
e le elevazioni portano a compimento il carattere di evento, che sarebbe del tutto oscurato qualora si
optasse per una semplice narrazione. Da ciò si evince quanto sia importante un'esecuzione
competente, conscia e nobile delle rubriche che ordinano il rito della Consacrazione. Ed ecco che
dovrebbe essere superata quella mentalità che vorrebbe portare nella stessa Consacrazione una
completa drammatizzazione dei gesti eucaristici del Signore, quasi che qui dovessero avere una
nuova edizione in miniatura, quando già essi sono celebrati in modo ritualmente esteso nelle parti
della Messa sopra accennate. In questa luce si capisce come nel rito consacratorio non deve aver
luogo la fractio panis, come taluni tendono a fare, che, se ciò fosse legittimo, la logica imporrebbe
di procedere pure all'amministrazione del Sacramento ancor prima della sua consacrazione. In
conclusione: è necessario che il sacerdote non ometta questi gesti perché la loro cancellazione
porterebbe gradualmente ad un'inevitabile estinzione del carattere performativo di un rito che,
finalizzato alla transustanziazione, verrebbe ridotto ad una comune narrazione. Dobbiamo vigilare
su questo aspetto, perché se si eclissa il carattere trascendente e sacrificale dell'Eucaristia ci si
riduce ad una scaramuccia conviviale.
V L'Elevazione eucaristica
Il rito dell'Elevazione delle sacre Specie porta a compimento il complesso dei gesti previsti
all'interno del Qui pridie, conferendo ad essi la loro massima estensione ed efficacia simbolica. In
un indebito contesto narrativo, l'Elevazione eucaristica non avrebbe alcun senso, anzi sarebbe un
ostacolo al fluire ordinato del racconto eucaristico. Con un ricorso all'antichità qualcuno tende ad
omettere l'Elevazione e a dichiararla intrusiva nello sviluppo liturgico successivo. In realtà, la

maturità dottrinale sempre più profonda nella celebrazione del Sacrificio eucaristico, ha portato la
Chiesa a creare il rito delle duplice elevazione per interporre il necessario stacco nello scorrere della
Prece eucaristica e per contemplare e fissare, nell'eloquenza del rito, l'evento soprannaturale,
compitosi puntualmente e pienamente con le Parole consacratorie. Senza questo indugio rituale e
questa sosta mistica la percezione dell'ineffabile Mistero rischia di venir travolta dal flusso della
recitazione della prece sacramentale, senza alcuna rilievo e sospensione estatica. Ed ecco che il
sacerdote, consacrata l'Ostia, genuflette, la eleva in alto fin sopra il capo con le due mani, sosta in
adorazione silente, la depone con venerazione sul corporale e genuflette sostando alcuni istanti in
adorazione. Parimenti, dopo la consacrazione del vino, eleva allo stesso modo il calice, ripetendo i
medesimi gesti compiuti nella prima elevazione. Mentre nel vetus ordo Missae si compiono due
genuflessioni, prima e dopo l'elevazione, nel novus ordo se ne fa una sola al termine di ciascuna
elevazione. E' necessario altresì ribadire il significato completo dell'Elevazione, che raccoglie tutti
e tre gli aspetti intrinseci del dogma eucaristico. Si eleva il Sacramento per manifestare in modo
incisivo e ritualmente rilevante: l'adorabile presenza reale del Signore nelle oblate transustanziate;
il moto sacrificale ad Patrem che pervade interiormente il cuore eucaristico del Signore in atto di
offerta; l'unione spirituale e mistica con colui che poco dopo sarà assunto nella comunione
sacramentale. Ora, per ottenere con frutto, nel sacerdote celebrate e nei fedeli presenti, questi tre
indissolubili effetti spirituali è necessario che il rito dell'Elevazione sia celebrato con la dovuta
calma e con la posizione nobile e grave dei gesti stabiliti. Senza un'accurata ars celebrandi tutto
scade in un ritualismo freddo ed incolore, che rattrappisce sul nascere ogni autentico senso sacro,
profanando il mistero. Si assiste oggi ad una preoccupante eclissi dell'Elevazione: le sacre Specie
sono mostrate velocemente al popolo, alzandole con una sola mano ad altezze insignificanti; si
riduce la duplice e distinta elevazione ad un'unica e breve ostensione di ambedue le Specie, siglata
con un'unica genuflessione terminale; non raramente sono omesse le genuflessioni e ci si limita ad
un debole inchino. Quando poi si giunge a fondere la duplice consacrazione in un unico atto
cumulativo, senza il necessario stacco rituale mediante la duplice elevazione, si contrasta con
l'istituzione del Signore, che distingue e distanzia i due atti consacratori, significando quella
separazione del Corpo e del Sangue, che ne attesta il Sacrificio incruento. La celebrazione corretta
dell'Elevazione eucaristica, quindi, stabilisce il grado di fedeltà al dogma della fede ed assicura che
la posizione del rito sia veramente conforme a ciò che fa la Chiesa: la Chiesa infatti non racconta un
fatto passato, ma produce quel medesimo evento, vivo e presente nella realtà del sacramento. Il rito
dell'Elevazione, come si vede, distoglie radicalmente dallo stile narrativo di un racconto e con la
sua enfasi rituale dichiara davanti a tutti che nel cuore della Prece eucaristica si compie un evento
soprannaturale, davanti al quale tutti si arrestano per contemplare l'ineffabile mistero, che rende
attuale l'opera della nostra redenzione. Anche altri simboli supplementari concorrono a far risaltare
la verità dell'Immolazione sacramentale: l'incenso e i molteplici ceri circondano l'altare e il suono
della campana solennizza il momento e lo annunzia ai lontani e a tutto il creato. Il Qui pridie, come
si vede, produce un'azione solenne e complessa che attualizza, qui ed ora, nella forma sacramentale,
il Sacrificio della croce. Veramente in questo embolismo centrale si coglie più che mai come il
Canone, soprattutto quello romano, sia effettivamente un Canon actionis, una regola di azione:
quell'azione sacra che salva il mondo.

Conclusione
Nel modo di celebrare e nell'esposizione catechistica del mistero eucaristico si afferma giustamente
che la forma essenziale per la validità del Sacramento sia la pronunzia integrale delle Parole del

Signore, che hanno nelle locuzioni centrali Questo è il mio Corpo e Questo è il mio Sangue il loro
fulcro agente: il sermo operatorius, come afferma sant'Ambrogio. Tuttavia tale esposizione, come
si è sopra argomentato, deve essere integrata dalla specificazione riguardo al modo con cui tali
Parole devono essere pronunziate e dai gesti che ne evidenziano la loro natura performativa o
consacratoria. Infatti la sante Parole possono essere semplicemente narrate in modo espositivo e
catechistico o anche in modo drammatico e teatrale. Ciò può avvenire in una sacra rappresentazione
o nell'istruzione impartita nella catechesi, ma non nella celebrazione liturgica. Questa, infatti, si
propone di rendere presente ed operante il mistero che le Parole del Signore significano e ciò deve
essere oggettivamente ed esternamente manifestato senza equivoci mediante la posizione precisa di
atti che ne attestano l'intenzione di fare quello che fa la Chiesa, ossia produrre la transustanziazione
e l'offerta del Sacrificio espiatorio del Calvario in modo incruento. L'intenzione del sacerdote non
può essere solo interiore ed invisibile, ma si richiede che sia esteriore e manifesta nella pronunzia
adeguata delle sante Parole e nella posizione specifica degli atti stabiliti dalle rubriche liturgiche.
Ciò non è un formalismo sterile, ma la dichiarazione oggettiva e pubblica dell'intenzione di fare ciò
che fa la Chiesa. La Chiesa, come ben si sa non giudica in foro interno, ma presume tale intenzione
qualora possa constatare in foro esterno che tali modalità siano poste in essere in modo da tutti
verificabile. Alla luce di questi principi si comprende quanto sia determinante il carattere
consacratorio impresso sia alle Parole che ai gesti connessi. Da esso infatti dipende la validità stessa
del Sacramento, che in tal modo si configura inequivocabilmente non come una narrazione
dell'evento, ma come la sua sacramentale attuazione. Purtroppo una superficiale mentalità di
presunta ars celebrandi tende a sottovalutare la precisa osservanza delle rubriche in merito e a
drammatizzare con una libera creatività soggettiva il racconto dell'Istituzione, insidiando, talvolta
inconsapevolmente, il rigore richiesto per l'attuazione reale ed oggettiva del Mistero. Ed ecco che la
fedeltà al rito nel sacrario del Qui pridie non riguarda soltanto una questione di dignità e liceità,
bensì condiziona non meno la stessa validità.
Fiat lux et lux fuit esordisce il racconto biblico della creazione. Hoc est Corpus meum / calix
Sanguinis mei dichiara il Logos eterno e nostro Sommo Sacerdote nell'istituzione dell'Eucaristia
all'esordio della nuova creazione. Ogni sacerdote che sale all'altare è l'eco del medesimo Mistero
che si realizza nell'Oggi (Hodie) del nostro tempo.

Domande del lettore

1. Le Parole consacratorie
Nel disporre il Messale sull'altare, nel mio servizio di sacrista, mi ha sempre colpito il
carattere più grande delle parole con cui il sacerdote consacra il pane e il vino. Immagino che
questa disposizione sia un messaggio per il sacerdote che proclama la Preghiera eucaristica.
Tuttavia i sacerdoti in genere sembra non tengano più conto di questo e la pronunzia di
queste parole scompare nella recitazione uniforme con le altre parti del Canone. Insomma
non si percepisce più quella volontà di consacrare che i preti anziani ancora manifestavano.
Questa scelta di fatto è corretta?
Chiunque consulta un Messale d'altare potrà notare che da sempre, sia nel vetus che nel novus Ordo
Missae, la Parole consacratorie, nel cuore della Prece eucaristica, sono evidenziate in modo spiccato
con caratteri più grandi rispetto al testo del Canone. In particolare, mentre nel novus Ordo tali
parole sono precedute dai due punti, mantenendo in tal senso la continuità col Racconto
dell'Istituzione, nel vetus Ordo la narrazione veniva bruscamente interrotta col punto fermo per poi
passare ad una pronunzia grave delle sante Parole in modo da palesare con chiarezza che queste
esulano dalla narrazione e intendono realizzare qui ed ora il Sacramento. Si passa cioè dal
linguaggio narrativo a quello performativo, che produce ciò che esprime, secondo la classica
locuzione latina di sant'Ambrogio: Conficere sacramentum.
La scelta non è marginale e richiede di essere adeguatamente compresa. Mentre il testo della Prece
eucaristica ha un carattere narrativo in quanto espone davanti alla Maestà divina, con ordine e senso
di venerazione, le opere mirabili della storia della salvezza rendendo grazie alla bontà
misericordiosa del nostro Dio, non appena si giunge alla soglia delle grandi Parole consacratorie il
sacerdote s'arresta e prende coscienza che un Altro interviene direttamente nella sua azione
pronunziandole, qui ed ora, con la medesima efficacia di allora quando nel Cenacolo istituì il
mirabile Sacramento. Si tratta dell'azione in persona Christi che si attua unicamente e strettamente
quando il sacerdote pronunzia quella che è chiamata la forma del Sacramento, in quanto lo produce
veramente, realmente e sostanzialmente.
Questo singolare intervento sacramentale e adorabile si verifica soltanto nel Sacrificio e nei sette
Sacramenti. Il sacerdote ne deve aver lucida percezione per non profanare con tono di sufficienza e
superficialità un atto di simile portata soprannaturale. Non è consentito al sacerdote liquidare tali
Parole snervandole nel flusso narrativo dell'Anafora senza quella necessaria esaltazione che esse
esigono per la loro natura consacratoria o performativa. I fedeli stessi hanno il diritto di poter
osservare una celebrazione che rispetti queste intime e imprescindibili condizioni per l'attuazione
rituale esterna del mistero invisibile che si compie sub specie sacramenti.
Se venisse meno il necessario passaggio dal linguaggio narrativo a quello performativo (o
consacratorio) non si realizzerebbe in modo esplicito l'intenzione di fare quella che fa la Chiesa,
ma si comunicherebbe semplicemente un'esposizione narrativa di ciò che allora avvenne, ma che
oggi si raggiungerebbe soltanto con un ricordo psicologico e per ciò stesso lontano nel passato
senza alcuna efficacia reale nell'oggi della nostra salvezza.
Ora, nella Consacrazione eucaristica è presente ed operante il medesimo Sacerdote e la medesima
Vittima che fu immolata in modo cruento sul Calvario e in modo incruento nel Cenacolo. Ciò deve
chiaramente apparire dalla pronunzia grave e colma di adorazione delle Parole del Signore, che non
può che suscitare nel sacerdote che le pronunzia e nei fedeli che le ascoltano un grande senso di
pietà e intima partecipazione interiore.
Che il mistero si realizzi in modo puntuale ed istantaneo con la pronunzia delle Parole consacratorie
è ormai definito dalla Chiesa cattolica e nessun dubbio nel merito deve incrinare la mente del
sacerdote. Perciò sarà necessario superare con determinazione quella convinzione residua che

attribuisce all'insieme della Prece eucaristica il carattere consacratorio, pur essendo necessaria per
l'integrità del Sacrificio sacramentale. Del resto si sa bene che in casi di estrema necessità il
sacerdote può realizzare il divin Sacrificio con le sole Parole stabilite per operare la
transustanziazione.

2. I Gesti consacratori
Il numero ridotto dei sacerdoti ci mette nelle condizioni di avere con frequenza sacerdoti
diversi per la celebrazione della Messa e questo talvolta non dispiace. Se non che ogni
sacerdote ha modi troppo diversificati di celebrare, soprattutto riguardo alla Consacrazione
eucaristica. Non tutti fanno in modo integro e completo i riti stabiliti: genuflessioni,
elevazioni, inchini, ecc. ma ciascuno celebra secondo sensibilità diverse e qualche volta
discutibili. Molti di noi siamo confusi e ci poniamo qualche domanda. E' possibile avere
chiarezza su questo argomento?
Il rito della Consacrazione eucaristica non consiste nella sola pronunzia integrale e grave delle
Parole del Signore, ma implica pure la posizione di alcuni gesti che si intrecciano alle Parole per
realizzare una celebrazione integra secondo il modello istituito da Cristo. Tali gesti hanno un
diverso valore. Vi sono gesti imitativi di ciò che fece il Signore (prese il pane/il calice nelle sue
mani sante e venerabili); vi sono gesti performativi stabiliti dalla Chiesa per dichiarare che intende
consacrare le Oblate e non semplicemente narrare un evento passato (il sacerdote si china sopra le
Oblate con intento epicletico); vi sono gesti devozionali per manifestare l'adorazione al Mistero (il
sacerdote genuflette davanti al Corpo e al Sangue di Cristo). Tutti questi gesti hanno importanza e
realizzano un complesso rituale nobile sotto ogni aspetto.
In particolare bisogna insistere nel dire che senza i gesti consacratori, soprattutto quelli performativi
che dichiarano la volontà del sacerdote di voler consacrare ossia di produrre la transustanziazione,
la celebrazione eucaristica riceve notevoli danni, rischiando non solo l'illegittimità, bensì anche
l'invalidità. Infatti la Chiesa ha stabilito alcuni gesti che mirano a manifestare esternamente in
modo certo l'intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, senza della quale non si realizza il Mistero.
Dalla posizione integra di questi gesti si riconosce la volontà espressa di celebrare il Sacramento e
non di narrare un'evento.
I sacerdoti devono perciò capire quanto sia rilevante la posizione completa ed integra dei gesti
consacratori e così i fedeli comprendono immediatamente che attraverso di essi si attua un mistero e
non semplicemente un racconto di un evento passato e sepolto nei secoli.
Ed ecco che il sacerdote pone un breve ma incisivo stacco tra la narrazione e la pronunzia delle
Parole consacratorie; prende con le due mani il pane e poi il calice; si inchina su di essi con intento
epicletico; pronunzia con tono grave le sante Parole; eleva con solennità le sacre Specie e sosta in
alto con un'esposizione adorante; genuflette in adorazione. Tutto questo complesso non è da
ritenere marginale, né facoltativo, quasi fosse un canovaccio orientativo alla mercé della creatività
alternativa dei sacerdoti, come non raramente succede. I gesti eucaristici stabiliti dalla Chiesa,
infatti, non sono un modello di sacra rappresentazione per rendere più esteso e gradevole il rito
consacratorio, bensì sono indispensabili per attestare il carattere consacratorio delle Parole del
Signore che, senza tali gesti, scadrebbero in una narrazione discorsiva col rischio di essere
sacramentalmente inefficace.
Sarà necessario allora valutare i modi di consacrare più comuni e diffusi e verificare se i gesti
eucaristici stabiliti vengano posti in modo completo e degno. Nessun sacerdote ha la facoltà di
inventare una gestualità alternativa ispirata a sensibilità soggettive e non raramente ideologiche. Si

deve rilevare che purtroppo la trascuratezza del modo di consacrare rivela non soltanto il dubbio
personale sull'adesione integra al dogma della fede che implica, nello specifico, l'accettazione del
mistero della transustanziazione e del carattere sacrificale della Messa, ma insinua anche il dubbio
sull'esistenza sufficiente ed adeguatamente espressa, dell'intenzione di fare almeno ciò che fa la
Chiesa e non altro da questa. I gesti eucaristici e l'intenzione sono intrinsecamente correlati, in
quanto l'intenzione non può essere solo interiore, ma manifesta con gesti pubblici e constatabili da
tutti, perché la Chiesa giudica solo in foro esterno.
Il sacerdote che celebra fedelmente la Messa secondo le norme liturgiche e la comunità che a queste si conforma
dimostrano, in un modo silenzioso ma eloquente, il loro amore per la Chiesa […] A nessuno è concesso di
sottovalutare il mistero affidato alle nostre mani: esso è troppo grande perché qualcuno possa permettersi di trattarlo
con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale 1 .
3. La duplice Consacrazione e la duplice Elevazione
Come è possibile che alcuni sacerdoti non facciano più le due elevazioni distinte, dell'Ostia
prima e del Calice dopo? Si può fare un'unica elevazione conclusiva alzando le due Specie
insieme? Come vi sono due consacrazioni non dovrebbero esserci anche due elevazioni?
Anche all'offertorio si presentano le offerte (pane e vino) con un gesto unico. Questo fatto fa
scadere la bellezza dei riti e disturba la pietà dei fedeli.
La Consacrazione che avveniva senza una particolare rilevanza nel segreto secolare del Canone
Romano riceve nel secondo millennio una singolare visibilità rituale dal rito dell'Elevazione prima
del Corpo e poi del Sangue del Signore. Il fatto costituisce certamente un notevole apporto liturgico
per dare la giusta rilevanza all'atto centrale ed essenziale che realizza sull'altare il Sacrificio
sacramentale. Infatti, se l'atto consacratorio fosse compiuto ancora in totale segretezza nel flusso
ordinario della Prece eucaristica, nessuno, forse anche lo stesso sacerdote, non ne avrebbe
sufficiente percezione e la Consacrazione stessa sarebbe ritualmente insignificante.
Ed ecco che la Chiesa dopo ciascuna Consacrazione sosta adorante ed eleva i mistici Doni in modo
da consentire che tutti contemplino ed adorino il grande Sacramento. Da quel momento
l'Elevazione eucaristica diventa l'elemento più caratteristico del rito della Messa romana e l'oggetto
che più attrae l'attenzione degli artisti che proprio in quell'atto vi vedono la genialità del rito e la
più alta espressione della spiritualità sacerdotale e della testimonianza dei Santi. L'intero popolo nel
regime della cristianità accorreva in quel momento per guardare l'Ostia e ottenere conforto e
misericordia. Questo glorioso sviluppo liturgico non può essere negletto e abbandonato come un
retaggio del passato non più recuperabile secondo una presunta visione modernista della riforma
liturgica aliena dal sacro e dalla trascendenza. Infatti non pochi stanno riducendo l'Elevazione
spogliandola della sua forma solenne per mostrare le sacre Specie in modo frettoloso e rachitico. La
celebrazione della Messa verso il popolo purtroppo ha facilitato questa deriva in nome di una
elevazione non necessaria, si dice, per un'assemblea che segue in modo diretto gli atti consacratori
del sacerdote. Ed è così che l'Elevazione, pur ancora prescritta, viene tollerata in attesa di una sua
archiviazione de facto.
In questo quadro dissolutorio si verificano diversi abusi che riducono la duplice elevazione ad
un'unica elevazione cumulativa ed omettono le genuflessioni stabilite. La distinzione delle due
Consacrazioni (del pane e del vino) viene elisa in un unico atto che non rispecchia più l'istituzione
del Signore che volle consacrare il pane e il vino in due momenti distinti come richiamo ai due
eventi pasquali antichi che avvennero in tempi distanziati quali la cena pasquale in Egitto e
1 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003, in Enchiridion Vaticanum, EDB,
2006, vol. 22°, n. 303.

l'aspersione col sangue dell'Alleanza sul Sinai cinquanta giorni dopo. Ed anche il mirabile segno
sacramentale della separazione del Corpo dal Sangue diventa meno evidente incrinando così il
simbolo visibile ed efficace della morte incruenta del Signore. L'elisione gratuita delle distinte
genuflessioni poi toglie ogni sintomo di adorazione privando il sacerdote e i fedeli dei segni
necessari per una devota contemplazione dei mistero e per dare la dovuta espressione simbolica
all'offerta sacrificale del Signore che dovrebbe raccogliere anche il sacrificio di tutti i
circumstantes.
Purtroppo le rubriche nel novus Ordo Missae sono più deboli e meno dettagliate e la forma
completa del rito dell'Elevazione la si deve attingere da quelle del vetus Ordo più chiare e
determinate. E' evidente che il semplice inchino, segno tipico della liturgia orientale, non può
sostituire la genuflessione, tipica della liturgia romana, per non confondere l'identità dei diversi Riti
ammessi dalla Chiesa e consacrati dalla secolare tradizione liturgica.
Alla luce di queste motivazioni, purtroppo da molti ormai sconosciute, sarà necessario riprendere
integralmente e cordialmente la ricchezza espressiva dell'Elevazione romana per salvare, mediante
un rito inequivocabile, il dogma eucaristico nel suo duplice aspetto di Presenza reale e di Sacrificio
propiziatorio. L'eloquenza del simbolo possiede una capacità espressiva molto superiore alla parola
e se ben posta l'Elevazione eucaristica è in grado di attestare con sicura efficacia il mistero che le
Parole del Signore realizzano nell'atto consacratorio.
Possiamo veramente concludere che la Consacrazione senza l'Elevazione sarebbe come mettere
sotto il moggio il grande mistero, che, invece, l'Elevazione ha il compito secolare di porre sul
candelabro per l'edificazione del popolo di Dio, che accorre a celebrare il Mysterium fidei.

4. L'apparato solenne dell'Elevazione
Sono un giovane che si dedica alla cura dei ministranti. Già è difficile tenere insieme il
gruppo, ma diventa impossibile organizzare una messa solenne con l'uso dell'incenso,
soprattutto al momento della consacrazione. A seconda del celebrante non si riesce neppure
ad incensare perché omette l'elevazione oppure ne fa una soltanto o comunque la compie
talmente veloce che il povero chierichetto non riesce neppure ad alzare il turibolo che tutto è
già terminato. Perché i sacerdoti non consacrano come si deve? Se manca loro la devozione
come possono pretenderla dai fedeli?
L'Elevazione eucaristica nella sua storia secolare ha raggiunto tratti di perfezione e forme solenni
del tutto singolari e mirabili, che non possono essere considerate eccessive per la grandezza dei
Misteri che si compiono sui nostri altari. Infatti il papa Giovanni Paolo II ebbe a scrivere:
Come la donna dell'unzione di Betania, la Chiesa non ha temuto di «sprecare», investendo il meglio delle sue risorse
per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell'Eucaristia […] Non c'é pericolo di
esagerare nella cura di questo mistero, perché «in questo sacramento si riassume tutto il mistero della nostra
salvezza» 2 .
Più che nelle rubriche del Messale tali elementi sono desunti dalla tradizione celebrativa della
Messa solenne, quando il Canone viene pronunziato in un clima di grande intensità spirituale e
circondato dai segni della più alta venerazione. La presenza dei ceri accesi portati dagli accoliti e
l'uso del turibolo fumigante creano un clima sacro senza pari che richiama le grandi teofanie

2 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003, in Enchiridion Vaticanum, EDB,
2006, vol. 22°, nn. 294. 322.

bibliche dell'Antica alleanza, il culto solenne del Tempio e soprattutto sono una timida immagine
delle visioni celesti dell'Apocalisse dove il Kyrios presiede quel culto eccelso che la Chiesa realizza
sulla terra nell'umile regime della fede. Il suono della campana maggiore ed anche quello eventuale
dei campanelli annunzia ad intra nella chiesa e ad extra al mondo e al creato il momento grande e
tremendo dell'atto redentore attualizzato puntualmente sui nostri altari. Tutto questo non può essere
perduto in nome di una presunta modernizzazione del rito o di una maggior adeguatezza, si dice,
allo spirito del novus Ordo Missae, nel quale si dovrebbe privilegiare il carattere conviviale. Si deve
ricordare che se manca la Presenza reale e non sale al Padre il sacrificio sacramentale, la Messa si
riduce ad una convivio umanitario dove le oblare restano nella loro povertà creaturale che non porta
alcun beneficio soprannaturale.
Sarà allora necessario far ricorso con novello slancio ai segni della solennità e non temere di
offendere in tal modo una presunta riforma liturgica che non potrà mai contraddire verità eterne,
definite dai Concili e mai riducibili in nome di nuove interpretazioni che imboccano la strada infida
di ipotesi effimere e visioni parziali e distorte del dogma cattolico.
Certo si dovrà curare che tali apporti abbiano la dignità sacra di simboli e riti conformi alla nobile
semplicità romana che aborre ogni finzione e non ammette se non vesti, oggetti e riti risplendenti di
autentica arte e vera religiosità.
In realtà la Chiesa ha sempre voluto mezzi espressivi di alta qualità e nobiltà di forme per non
incorrere nella grettezza di Giuda, il traditore, che rimproverava l'omaggio devoto della Maddalena,
la quale non temette di versare il nardo assai prezioso per onorare con larghezza d'animo e cuore
generoso il Figlio di Dio.

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