IL RUOLO DELLA COSCIENZA MORALE

Il ruolo della coscienza morale
Don Enrico Finotti
Oggi si assiste ad una diffusa mistificazione del concetto di coscienza e del suo indebito ricorso ad
essa.
Noi dobbiamo proporre al popolo la verità e la legge nella loro integrità. Fa parte di un elementare dovere della
catechesi che è rivolta a tutti e che non può costituire offesa a nessuno. Proporre la dottrina che viene da Dio non è
offesa alla libertà e alla coscienza. A ciò si oppongono speciose obiezioni. Val la pena di vagliarle: ad esempio, «la
regola suprema è la coscienza». Nella mente di molti, questa massima suona in realtà così: «le leggi le fà la mia
coscienza». Niente di più falso. La norma ha la stessa sorgente dell'essere; se ci fossimo creati da noi (è ridicolo
solo il dirlo), potremmo anche farci legge a noi stessi. Ma non ci siamo creati da noi e, pertanto, la legge viene di là
della coscienza (eteronomia), in ultima analisi dalla stessa fonte dalla quale abbiamo avuto l'essere. La coscienza è
solo l'applicazione al caso nostro concreto (mediante l'operazione dell'intelletto) della legge venuta dal di fuori, per
giudicarlo alla sua luce. Niente di più. Naturalmente, nel giudicare la conformità o differenza della nostra azione in
concreto, la coscienza è l'ultima istanza, poiché nella nostra interiorità non ne funziona ordinariamente alcun'altra.
Ma, si badi, la coscienza può svolgere con sicurezza il suo compito solo quando è formata ed informata a dovere; il
che esclude il giudizio dato dalla precipitazione, dalla passione e dall'ignoranza 1 .
Occorre riaffermare che la coscienza è un giudizio pratico e non un 'organo creativo' della verità, in
quanto non spetta ad essa elaborare i principi del vero e del bene. Il papa Giovanni Paolo II
nell'Enciclica Veritatis splendor scrive:
Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare,
oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. E' un giudizio che applica a una situazione concreta la convinzione
razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica appartiene
alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul
male, riflesso della sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile dell'anima, brilla nel cuore di
ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la
coscienza è l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per l'uomo un interiore dettame, una
chiamata a compiere nella concretezza della situazione il bene 2 .
Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione pratica in
riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e accoglie i comandamenti: «La coscienza
non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è iscritto
profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la
corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano» 3 .
La coscienza 'dice' in una precisa situazione contingente, qui ed ora, quello che la persona deve
fare o evitare.
Che cos'è la coscienza morale? La coscienza morale, presente nell'intimo della persona, è un giudizio della
ragione, che, al momento opportuno, ingiunge all'uomo di compiere il bene e di evitare il male. Grazie ad essa, la
persona umana percepisce la qualità morale di un atto da compiere o già compiuto, permettendole di assumerne la
responsabilità. Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo prudente può sentire la voce di Dio che gli parla 4 .
Essa tuttavia 'parla' in base alle informazioni che ha ricevuto. Senza di esse non è in grado di
pronunziarsi e, con eventuali informazioni erronee, il suo giudizio risulta falso (coscienza erronea).
La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore. «Succede non di rado – scrive il
Concilio – che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma
ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi
1 SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di Renovatio e note al clero,
Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.74-75.
2 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 59. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2682.
3 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 60, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2684.
4 CCC, COMPENDIO, Domanda 372.
 
cieca in seguito all'abitudine del peccato». Con queste brevi parole il concilio offre una sintesi della dottrina che la
Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea. […] Essa non è un giudice infallibile: può errare.
Nondimeno l'errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il
soggetto non è consapevole e da cui non può uscire da solo 5 .
La coscienza morale può emettere giudizi erronei? La persona deve sempre obbedire al giudizio certo della propria
coscienza, ma può emettere anche giudizi erronei, per cause non sempre esenti da colpevolezza personale. Non è
però imputabile alla persona il male compiuto per ignoranza involontaria, anche se esso resta oggettivamente un
male. E' quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori 6 .
La coscienza, quindi, può agire correttamente se vi sono due passaggi previ e indeclinabili:
1. La conoscenza della verità mediante l'intelligenza
Il bene e il male, il vero e il falso, sono conosciuti con un processo intellettivo che precede il ricorso
alla coscienza morale e che assolve al dovere imprescindibile di cercare la verità secondo il proprio
stato di vita e secondo le responsabilità educative e sociali di cui si è investiti.
Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale
grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il card. J.H. Newman, eminente
assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri» 7 .
Già il Concilio Vaticano II ricorda il dovere di ogni uomo in ordine alla ricerca della verità e del
bene:
A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e
perciò investiti di personale responsabilità, sono per la loro stessa natura spinti e per obbligo morale tenuti a cercare
la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire la verità conosciuta e ad
orientare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità 8 .
Il dovere della formazione della coscienza ha nel cristiano il necessario riferimento alla divina
Rivelazione, che illumina l'intelligenza consentendo di cogliere la Verità facilmente, con assoluta
certezza e senza errore 9 , ed offrendo i mezzi soprannaturali a cui dovrà ricorrere con umile
sottomissione.
Come si forma la coscienza morale perché sia retta e veritiera? La coscienza morale retta e veritiera si forma con
l'educazione, con l'assimilazione della Parola di Dio e dell'insegnamento della Chiesa. E' sorretta dai doni dello
Spirito Santo e aiutata dai consigli di persone sagge. Inoltre giovano molto alla formazione morale la preghiera e
l'esame di coscienza 10 .
Il papa Benedetto XVI, con la sua nota chiarezza espositiva, ebbe a dire:
E' necessario l'appello alla coscienza e, in particolare, alla coscienza cristiana. «La coscienza, come dice il
Catechismo della Chiesa Cattolica, è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la
qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa,
l'uomo ha il dovere di seguire ciò che sa essere giusto e retto» (CCC, n. 1778). Da questa definizione emerge che la
 
5 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 62, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, nn. 2687 e
2689..
6 CCC, COMPENDIO, Domanda 376.
7 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 34 in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, n. 2626.
8 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2, in Conciliorum
Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 1003..
9 CONCILIO ECUMENICO VATICANO I, Costituzione dogmatica sulla fede cattolica, Cap II, in Conciliorum
Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 806.
10 CCC, COMPENDIO, Domanda 374.
 
coscienza morale, per essere in grado di guidare rettamente la condotta umana, deve anzitutto basarsi sul solido
fondamento della verità, deve cioè essere illuminata per riconoscere il vero valore delle azioni e la consistenza dei
criteri di valutazione, così da sapere distinguere il bene dal male, anche laddove l'ambiente sociale, il pluralismo
culturale e gli interessi sovrapposti non aiutino a ciò. La formazione di una coscienza vera, perché fondata sulla
verità, e retta, perché determinata a seguirne i dettami, senza contraddizioni, senza tradimenti e senza compromessi,
è oggi un'impresa difficile e delicata, ma imprescindibile. Ed è un'impresa ostacolata, purtroppo, da diversi fattori.
Anzitutto, nell'attuale fase della secolarizzazione chiamata post-moderna e segnata da discutibili forme di
tolleranza, non solo cresce il rifiuto della tradizione cristiana, ma si diffida anche della capacità della ragione di
percepire la verità ci si allontana dal gusto della riflessione. Addirittura, secondo alcuni, la coscienza individuale,
per essere libera, dovrebbe disfarsi sia dei riferimenti alle tradizioni, sia di quelli basati sulla ragione. Così la
coscienza, che è atto della ragione mirante alla verità delle cose, cessa di essere luce e diventa un semplice sfondo su
cui la società dei media getta le immagini e gli impulsi più contraddittori 11 .
Se la coscienza non riceve i criteri e i dati della verità dall'intelletto, non possiede gli elementi sui
quali poter pronunziare un giudizio di comportamento pratico in un caso concreto. Un giudice non
può giudicare senza un sufficiente quadro di informazioni sul caso.
2. La pulizia morale
Le rettitudine morale garantisce il più possibile la retta intenzione in ordine alla ricerca e alla
conoscenza del vero e del bene. Il Concilio Vaticano II ammonisce a tal proposito:
Succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua
dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza
diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato 12 .
Il cristiano sa che questa pulizia morale non è solo introspezione psicologica realizzata dalla buona
volontà, ma anche intervento soprannaturale della Grazia, che opera soprattutto nella preghiera e nei
Sacramenti.
Senza tale pulizia si rischia di ritenere 'voce della coscienza' gli impulsi della fantasia e del proprio
tornaconto. Senza retta intenzione e volontà sincera del bene, alimentata da una continua vigilanza
spirituale, la voce della coscienza può confondersi con i reconditi desideri del piccolo mondo delle
banalità.
Ci si interroga se il facile ricorso alla coscienza, così vivo e diffuso nella nostra cultura, tenga
sufficientemente presente la necessità previa dei due passi sopra descritti. Se ciò non avviene il
ricorso alla coscienza sarebbe sterile e improprio.
Nel caso specifico della vita umana, la coscienza individuale e sociale (nel senso di opinione diffusa
e condivisa) non è competente in prima istanza nello stabilire la verità oggettiva sulle complesse
questioni relative alla vita nascente. Tale competenza e capacità è propria della ragione, che è
chiamata ad indagare su tutto il ventaglio del sapere: scientifico, filosofico, religioso. La ricerca
scientifica, il sapere filosofico (filosofia perenne) e, per il cristiano, i dati della divina Rivelazione,
considerati nel loro insieme, danno la conoscenza, la misura e il criterio di verità in ordine allo
specifico problema. La coscienza quindi, formata su questi dati, che riceve e non crea da sé, sarà in
grado di indicare, in una situazione contingente, il comportamento giusto, che sarà tanto più vero e
conforme al bene quanto più saranno tali le indicazioni ricevute dall'intelligenza.
 
11 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all'Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita, del 24
febbraio 2007.
12 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 16, in
Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, 1991, p. 1078.
 
E' quindi ingiusto chiedere a persone largamente impreparate un giudizio di valore su questioni
tanto fondamentali per il bene comune come quelle sulla vita. La loro coscienza non ha la capacità e
la necessaria informazione per un giudizio corrispondente alla verità.
Così è anche vero che oggi il facile ricorso alla coscienza è spesso in realtà l'espressione della
dittatura del capriccio individuale, che erige a criterio di valutazione gli umori momentanei in un
fondamentale quadro di interessi immediati e unilaterali, che possono pure godere di un consenso
sociale capillare ed esteso.
In tal senso è indispensabile e urgente il richiamo a quella previa pulizia morale, che verifica
continuamente la retta intenzione in ordine al vero e al bene.
Occorre infine osservare che la problematica della coscienza, come oggi è intesa, è minata dal
relativismo intellettuale ed etico in base al quale l'uomo non crede più che l'intelletto umano sia
capace di conoscere - sebbene in modo inadeguato e perfettibile, tuttavia vero - la verità oggettiva
che può essere da tutti conosciuta e partecipata.
Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità
nuove. Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse
nell'ambiente al punto da diventare in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia
nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo
riguardo, di 'fine della metafisica': si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti, quali la sola
interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del saper umano o sulle sue strutture 13 .
Si nota una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il
risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva 14 .
Il Concilio Vaticano I ha insegnato l'attitudine della ragione a conoscere la realtà sensibile e spirituale, a dimostrare
l'esistenza di Dio, a dimostrare ciò che è proprio della sua natura. Esso ha dimostrato che l'intelletto umano può
raggiungere una qualche intelligenza dei misteri. L'avversario di fondo, che il Concilio Vaticano I aveva di fronte
era il kantismo. Strana cosa questa: che l'avversario grande non stesse sul terreno strettamente teologico! Ma il
Concilio Vaticano I aveva visto chiaro: l'errore per lo più non comincia dall'insidiare direttamente e apertamente
l'ordine divino; esso più facilmente si manifesta come diminuzione dell'ordine umano. Per distruggere ed avere via
libera a farlo, attacca prima la teologia naturale. Ora quella scelta fondamentale del Vaticano I è assolutamente
attuale [...] Chi ha fatto le spese di tutto ciò sono la metafisica e la teologia naturale. Se si nega la capacità
dell'intelletto di conoscere il mondo e si affida, more kantiano, questa conoscenza alla volontà, diventa
estremamente facile raggiungere la tesi di una inconoscibilità naturale di Dio. E' la fine della teologia naturale! [...]
Anche se non sempre appare, oggi la lotta all'interno della ortodossia cristiana ha per centro la teologia naturale
nonché tutte le questioni filosofiche, che qualifichiamo come preambula fidei […] occorre comprendere meglio e
tempestivamente la radicalità dell'insidia che è fatta alla vera fede e, per questo, alla vita, all'equilibrio, alla civiltà
dell'uomo. Quale potrebbe essere la sorte di un uomo che non credo più alle sue capacità intellettive? 15 .
Né crede alla capacità del linguaggio di potersi esprimere oggettivamente in modo univoco,
sostanzialmente valido per tutti.
Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia
speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le
stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in
guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali 16 .
 
13 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et ratio, n. 55, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1289.
14 Idem, n. 56. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1294.
15 SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di 'Renovatio' e note al
clero, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.13-15.
16 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et ratio, n. 55. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 2000, vol. 17, n. 1293.
 
Conseguenza poi del relativismo è il soggettivismo. Dal momento che la ragione è dichiarata
incapace di cogliere la verità oggettiva valida per tutti, sempre e dovunque, sarà ciascun soggetto
individuale o il consenso sociale a stabilire, volta a volta, il vero e il falso, il bene e il male.
Il problema più grave ed acuto davanti a cui ci troviamo oggi è esattamente la cecità della ragione per l'intera
dimensione non-materiale della realtà […]
Contrariamente alle affermazioni di molte correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che
trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione umana di raggiungere la verità, così
come la sua capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato 17 .
Ognuno dichiara autonomamente la propria verità (vedi la diffusa espressione secondo me), oppure
si accetta che essa sia stabilita dal consenso sociale in base all'opinione e al costume dominante,
espresso eventualmente dal voto parlamentare o referendario (democraticismo). Dice, infatti la
Scrittura: «Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso
la maggioranza, per falsare la giustizia» (Es 23, 2).
 
Presso non pochi pensatori sembra oggi dominare una concezione positivista del diritto. Secondo costoro, l'umanità,
o la società, o di fatto la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile 18 .
Spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di
una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull'uomo e sulla sua dignità nonché alla
possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale. Viene così di fatto ad imporsi
una concezione del diritto e della politica, in cui il consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di
corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme
internazionali. I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale sono purtroppo evidenti: si pensi, ad
esempio, al tentativo di considerare come diritti dell'uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita, oppure al
disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o il disprezzo del diritto umanitario e ad una
difesa selettiva dei diritti umani 19 .
La democrazia dà una giuridica prevalenza alla maggioranza sulla minoranza, e questo, almeno a parole, è accettato
da tutti. Resta però saldo il principio che la legittimità politica non si confonde con la legittimità morale: la
maggioranza non prevale onestamente quando sancisce qualcosa contrario alla legge di Dio; la democrazia non
cambia la verità, come non cambia il corso del sole, il ciclo dei venti e delle piogge 20 .
Ora la verità precede il soggetto e la società. Essa è iscritta da Dio nella natura oggettiva delle cose
e la nostra ragione la può conoscere, ma non creare. Verità significa adeguamento dell'intelletto alla
realtà oggettiva ed esterna a noi, non creazione soggettiva ed interiore di essa. Dio solo, infatti, è il
Bene supremo sussistente, sovrano e trascendente alla creazione, e ciò che si oppone a Lui è il male
intrinsecamente effimero in quanto privo di consistenza ontologica. Come si può vedere è sempre
ricorrente la tentazione originale diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male (Gn 3, 5) ed è
necessario richiamare anche all'uomo d'oggi il monito divino: dell'albero della conoscenza del
bene e del male non devi mangiare, perché certamente moriresti moriresti (Gn 2, 17)
Leggiamo nel libro della Genesi: Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli
alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti (Gn 2, 16-17). Con questa immagine, la rivelazione insegna che il potere di
decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo è certamente libero, dal momento che
17 JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, L'elogio della coscienza – La verità interroga il cuore, ed. Cantagalli,
2009, p.68 e 97.
18 BENEDETTO XVI, Discorso ai membri della commissione teologica internazionale, in L'Osservatore Romano, 6
ottobre 2007, p. 5.
19 BENEDETTO XVI, Discorso alle organizzazioni internazionali non governative cattoliche, in Osservatore Romano,
2 dicembre 2007, p. 6.
20 SIRI, G., Opere del cardinale Giuseppe Siri, vol. XIII, Il dovere dell'ortodossia, Editoriali di 'Renovatio' e note al
clero, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1987, p.75-76.
 
può comprendere e accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso di una libertà quanto mai ampia, perché può
mangiare di tutti gli alberi del giardino. Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'albero della
conoscenza del bene e del male, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà,
proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono,
conosce perfettamente ciò che è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei
comandamenti. La legge di Dio, dunque, non attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la
garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze culturali odierne sono all'origine di non pochi
orientamenti etici che pongono al centro del loro pensiero un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le
dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male: la libertà
umana potrebbe 'creare i valori' e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe
considerata una creazione della libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una tale autonomia morale che
praticamente significherebbe la sua sovranità assoluta 21 .
E' evidente che con un simile presupposto la coscienza si riduce a un radar impazzito e le sue
indicazioni, prive del riferimento a principi oggettivi validi sempre e dovunque, diventa il segno di
una civiltà babelica, destinata all'autodistruzione, alla solitudine dell'individuo incapace di
comunicare con una realtà vera fuori di se stesso. Si aprirebbe così la strada alla barbarie, ossia la
morte dello stato di diritto e l'impero della legge del più forte
La vita sociale, nell'impossibilità di fondarsi su qualsiasi riferimento oggettivo comune, dovrebbe concepirsi come
esito di un compromesso di interessi al fine di garantire il massimo di libertà possibile a ciascuno. Ma in realtà,
laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, laddove il diritto
all'espressione della propria libertà può prevalere sul diritto di una minoranza che non ha voce, lì è la forza che è
divenuta il criterio del diritto.
[…] l'accredito della maggioranza come unica fonte del diritto minaccia la dignità dell'uomo e tendenzialmente
inclina a risolversi nel totalitarismo 22 .
In conclusione è opportuno considerare un illuminante passo dell'Enciclica di Giovanni Paolo II
Veritatis splendor (n. 32) che, mettendo in evidenza tre termini fondamentali: libertà coscienza e
verità, ne descrive il loro giusto rapporto, delineando il limite e il ruolo complementare di ciascuno.
La retta comprensione di queste tre realtà potrà ridare al pensiero e al comportamento dell'uomo
d'oggi il giusto equilibrio:
* In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti a esaltare la libertà al punto da
farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono
le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente
atee.
* Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema
del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male.
All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente
aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene
dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in
favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di 'accordo con se stessi', tanto che si
è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.
* Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la
crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile
21 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, n. 35. in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1995, vol. 13, nn. 2629-
2631.
22 JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, L'elogio della coscienza – La verità interroga il cuore, ed. Cantagalli,
2009, p. 40 e 70.
 
dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza:
questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza
della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una
determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da
scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il
privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di
conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale
ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri.
Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea
stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che
sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.
 
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