Il beato Ildefonso Schuster, un benedettino esemplare, attuale
Ricorrono oggi i 70 anni dalla morte del beato cardinale Schuster, a lungo arcivescovo di Milano. Benedettino, incarnò il programma Ora, labora et noli contristari, lasciando un testamento quantomai attuale per la Chiesa.
Ermes Dovico nella "Nuova Bussola" – 30 agosto 2024
«Il popolo, vedendolo pregare, sentiva di trovarsi di fronte ad un santo». Così, il 13 maggio 1996, all'indomani della beatificazione, Giovanni Paolo II parlava del beato Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954), cardinale e arcivescovo di Milano, di cui oggi, 30 agosto, ricorre il 70° anniversario della morte. Una morte avvenuta a Venegono Inferiore, in una stanza del Seminario della diocesi ambrosiana, edificato proprio sulla collina del comune in provincia di Varese che lo stesso Schuster aveva indicato come sede adeguata alla formazione dei futuri sacerdoti.
Alfredo Ludovico Luigi, questi i nomi che gli furono imposti il giorno del Battesimo, era nato a Roma il 18 gennaio 1880 dal bavarese Johann Schuster, un sarto al servizio della Santa Sede, e dalla tirolese Maria Anna Tutzer, di trent'anni più giovane del marito. Fin dalla fanciullezza, Alfredo manifestò un singolare talento negli studi e una profonda pietà cristiana. Si fece monaco benedettino, assumendo il nome religioso di Ildefonso. E a 24 anni, per la solennità di San Giuseppe, venne ordinato sacerdote. Ricevette numerosi incarichi dentro e fuori l'Ordine di San Benedetto, ma quel che qui ci interessa più sottolineare è come lui fu un vero figlio del santo monaco da Norcia, capace di unire vita contemplativa e attiva, insieme alla gioia cristiana tipica dei giusti che pregustano in terra quanto godranno pienamente in cielo.
È ciò che sottolineava icasticamente lo stesso san Giovanni Paolo II nel discorso, accennato all'inizio, ai pellegrini giunti a Roma per la beatificazione del cardinale Schuster. Nell'occasione, papa Wojtyła spiegava che il beato «fu uomo "austero e libero" insieme, grazie alla profonda e solida spiritualità maturata alla scuola di san Benedetto, del quale assunse il programma: "Ora, labora et noli contristari"», cioè: "Prega, lavora e non lasciarti vincere dalla tristezza". Il santo pontefice polacco offriva quindi una panoramica di come Schuster – formatosi sotto la guida del beato Placido Riccardi (1844-1915) – visse ognuno dei tre punti programmatici della spiritualità benedettina.
Il primo: la dimensione dell'ora: «Col passare degli anni la preghiera divenne sempre più importante per lui, consentendogli di immergersi in quel Dio che solo poteva colmare la sua sete di amore. Quando era davanti al tabernacolo, il suo sguardo era come rapito. Da questa unione con il Signore egli traeva forza per sostenere la fatica da cui era scandita la sua giornata e dare il meglio di sé in ogni momento. Ebbe a scrivere: "Non vi è altra cosa su questa terra che attendere all'unione con Dio. Tutto il resto è nulla" (Schuster, Lettere dell'amicizia, 83)».
Il secondo: la dedizione al lavoro, sia come studioso di storia e liturgia sacra, sia nella serie di impegni e iniziative come religioso, sacerdote e poi vescovo di una diocesi di spicco come Milano. Sulla cattedra di Ambrogio, il beato Schuster sedette per un quarto di secolo, proponendosi di imitare per quanto possibile un altro suo illustre predecessore, san Carlo Borromeo (1538-1584). Sull'esempio di san Carlo, nei suoi 25 anni di episcopato svolse un gran numero di visite pastorali, facendo per cinque volte il giro delle parrocchie della sua diocesi. A ciò unì l'organizzazione di congressi eucaristici, mariani, catechistici e liturgici, la costruzione di nuove chiese, la promozione di attività caritative (una sua lettera pastorale, scritta durante la Seconda guerra mondiale, ispirò quella che divenne la Carità dell'Arcivescovo), la consolazione degli afflitti, l'impegno per la pace.
Questa armonia tra contemplazione e azione era resa possibile dal fatto che il beato Schuster, da vero benedettino, «riconobbe il primato di Cristo, al cui amore – secondo la massima della Regola – nulla si deve anteporre (cf. 4,21; 72,11)», come ricordava ancora Giovanni Paolo II. Il quale sottolineava quindi, come in una logica conseguenza, il terzo elemento della spiritualità di Schuster, ossia «il "noli contristari": la gioia, la fiducia, la speranza, furono le componenti di un atteggiamento spirituale in lui così evidente da "contagiare" anche chi gli si avvicinava».
La suddetta armonia era nutrita dalla lettura costante della Bibbia e dalla cura per la liturgia, che lui definiva «una preghiera speciale che è per eccellenza la preghiera della Chiesa», sottolineandone il suo legame inscindibile con la fede, non solo come espressione della fede stessa ma anche per la sua trasmissione e il suo incremento: «La Sacra Liturgia – insegnava infatti il beato – non solo rappresenta ed esprime l'ineffabile e il divino, ma per mezzo dei sacramenti e delle sue formule eucologiche lo produce, a dir così, e lo compie nelle anime dei fedeli».
Schuster metteva profeticamente in guardia da una fede sentimentalista, slegata cioè dai «suoi preamboli razionali», perché aveva la consapevolezza che senza un autentico insegnamento della dottrina si produce uno «svuotamento della Religione», il cui senso – nonostante le manifestazioni di pietà popolare che all'epoca erano ancora massicce – finisce progressivamente per perdersi. Un processo involutivo, questo, ancora in corso nella Chiesa odierna, spesso senza neanche più l'apparenza illusoria delle «folle oceaniche» che c'erano ai tempi di Schuster.
In un'epoca e una società come la nostra che ha bisogno di essere ri-evangelizzata, tra gli insegnamenti di Schuster uno è particolarmente prezioso perché sintesi di tutti gli altri. È quello che consegnò, poco tempo prima di morire, ai suoi seminaristi: «Voi desiderate – disse – un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. Ricordate le folle intorno alla bara di don Orione? Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi: ha paura, invece, della nostra santità».
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