Articolo. Le traduzioni liturgiche di con Enrico Finotti

Articolo. Le traduzioni liturgiche di don Enrico Finotti

Rivista Liturgia culmen et  fons  - 2024, n. 1  (cfr. Radio Maria del 8 gennaio  2024)

La decisione assunta dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II di tradurre alcune parti della liturgia nelle lingue parlate (volgari) fu recepita in un primo tempo con entusiasmo in una prospettiva ottimistica, quasi a credere che in tal modo la partecipazione fruttuosa del popolo cristiano fosse sostanzialmente assecondata. Il testo della Costituzione Sacrosanctum Concilium, infatti, recita:

 

- 1. L' uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini. - 2. Dato però che, sia nella messa sia nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua volgare può riuscire assai utile per il popolo, si possa concedere ad essa una parte più ampia, e specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme che vengono fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti. - 3. In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all' art. 22 p. 2, consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua, decidere circa l' uso e l' estensione della lingua volgare. Tali deiscioni devono essere approvate ossia confermate dalla sede apostolica. - 4. La traduzione del testo latino in lingua volgare da usarsi nella liturgia, deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra (SC 36).

 

E' necessario innanzitutto precisare che non fu propriamente nell'intenzione del Concilio l'eliminazione totale della lingua latina e la traduzione nelle lingue parlate doveva essere contenuta in alcune parti dei riti, quelle più ad indole didascalica, come le lezioni e la preghiera universale. 

Il successivo processo applicativo della riforma liturgica a cura delle diverse Conferenze Episcopali, tuttavia, ha portato de facto ad una traduzione plenaria dell'intero complesso liturgico nelle rispettive lingue.

Se da un lato la Santa Sede si è trovata a dover concedere sempre più alla totale volgarizzazione della liturgia, dall'altro lato ha prodotto alcuni interventi per contenere tale processo e far sì che almeno alcune parti restassero in lingua latina. In tal senso vanno comprese alcune rubriche del Messale  e soprattutto accorati testi disciplinari voluti dai Sommi Pontefici a questo scopo. Si pensi in particolare al volumetto Iubilate Deo col quale Paolo VI indica alcuni testi latini che avrebbero dovuto venir conservati e praticati nella tradizione liturgica del popolo cristiano: il Credo e il Pater, in particolare, insieme ai canti dell'ordinario della Messa avrebbero dovuto attestare nella lingua latina e nella melodia gregoriana l'universalità del culto liturgico, mentre quelli del Proprio potevano recepire gradualmente il genio dei vari popoli.

 

Nei decenni successivi al Concilio, tuttavia, le traduzioni liturgiche hanno rivelato con sempre maggior chiarezza quanto tali traduzioni fossero complesse e come non raramente alcune locuzioni in lingua volgare non rispettassero in pieno il senso dell'originale latino. Il papa Benedetto XVI seppe individuare con lucidità tale problematica, distinguendo tra traduzione letterale e traduzione interpretativa, che nella prima edizione dei libri liturgici in volgare sembrava più opportuna sia in ordine alla trasmissione dei concetti, sia riguardo alla forma letteraria più scorrevole. Con l'Istruzione Liturgiam authenticam si volle richiamare a traduzioni più fedeli alla lettera dell'Editio typica latina in modo da non stravolgere o depotenziare i ricchi contenuti delle preci latine.

 

Che il problema delle traduzioni della Sacra Scrittura e dei testi liturgici sia della massima importanza è attestato dalle note parole del Signore:

 

In verità vi dico: Finché non siano passati il cielo e la terra non passerà neppure un iota o un apice della legge senza che tutto sia compiuto (Mt 5, 18). 

 

Il Signore, da queste sue parole, sembra alquanto esigente sul valore di ogni anche minima espressione della sua Parola codificata nella Legge e nei Profeti. Se neppure un trascurabile iota o apice del testo ispirato sarà dimenticato, ma tutto avrà compimento, vuol dire che non è consentito alla sua Chiesa e a noi suoi discepoli di derogare con superficialità a nessun contenuto rivelato e inoltre incombe il dovere costante di interpretare il testo sacro col massimo rigore di fedeltà al senso autentico delle parole da Lui pronunziate con divina e sovrana autorità.

 

Ecco perché la complessa questione delle traduzioni liturgiche è importante ed urgente.

 

1.        L'aggiornamento del linguaggio nel discorso programmatico di Giovanni XXIII all'esordio del Concilio EcumenicoVaticano II: Gaudet Mater Ecclesia

 

 

«Il Concilio Ecumenico […] vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti, che lungo venti secoli, nonostante difficoltà e contrasti, è divenuta patrimonio comune degli uomini. Patrimonio non da tutti accolto, ma pur sempre ricchezza aperta agli uomini di buona volontà. […]

È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti  il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale».

 

Il Concilio Vaticano II, nell'intento di Giovanni XXIII, doveva avere unicamente un intento di aggiornamento pastorale del linguaggio col quale la Chiesa annunzia la dottrina perenne.

 

Evidentemente si deve includere ogni espressione del linguaggio: non si tratta soltanto dei termini linguistici, ma anche dei simboli liturgici e delle strutture pastorali con le quali la Chiesa edifica se stessa e comunica col mondo contemporaneo.

 

Si capisce perciò il motivo per il quale l'aggiornamento coinvolse non solo la teologia (il modo di pensare ed esprimere la fede), ma anche la disciplina canonica riguardante ogni settore del popolo di Dio: la liturgia, la catechesi, la disciplina morale; il clero, gli ordini religiosi, i laici; l'educazione, le missioni, l'ecumenismo e il dialogo con la cultura moderna.

 

Anche se il bastione della dottrina cattolica nella sua perennità non doveva essere in alcun modo intaccato, tuttavia l'intento dell'aggiornamento ha de facto coinvolto l'intero assetto dell'istituzione ecclesiale con una rielaborazione a tutto campo della disciplina secolare del popolo cristiano. Ne sono testimoni i sedici Documenti conciliari e gli innumerevoli Decreti di riforma postconciliare.

 

 

2.        Il linguaggio dogmatico e quello pastorale

 

E' necessario comprendere la natura propria di due tipi di linguaggio in uso da sempre nella Chiesa: il linguaggio dogmatico e quello pastorale.

 

- i termini dogmatici sono formulati per esprimere con la maggior adeguatezza possibile un concetto del pensiero; tali termini tendono ad essere brevi, lapidari e concisi (linguaggio giuridico)

- i termini pastorali mirano a comunicare un concetto all'ascoltatore nel modo più efficace possibile; tali termini tendono ad diventare circonlocuzioni complesse (linguaggio discorsivo)

 

Nella formulazione di un documento dogmatico l'attenzione primaria verte sulle verità che devono essere adeguatamente descritte senza equivoci mediante termini il più possibile adeguati al pensiero sotteso. 

Nell'estensione di un documento pastorale, invece, l'attenzione prevalente si rivolge al soggetto a cui si vuole comunicare e si preoccupa che tale comunicazione sia efficace e venga compresa dall'ascoltatore. 

E' evidente perciò che nel documento dogmatico prevalga la preoccupazione della verità enunciata, mentre nel documento pastorale prevale l'efficacia comunicativa. Nel primo caso è messo a fuoco il concetto veritativo, nel secondo caso è attenzionato il soggetto ricevente. Ed è per questo che, senza un attento discernimento, è possibile che nella pastorale, in nome dell'efficacia comunicativa, venga meno in qualche modo la precisione dottrinale. 

Nell'arco del secolare Magistero della Chiesa si dovrà saper distinguere i decreti dogmatici dai decreti disciplinari, come emergono soprattutto nei Concili ecumenici. Si dovrà al contempo saper individuare le proprietà del linguaggio giuridico e quelle tipiche del linguaggio catechistico.

 

Possiamo fare qualche esempio dei due tipi di linguaggio:

 

Linguaggio dogmatico: cfr. Decreto Tridentino sul SS. Sacramento dell'Eucaristia,   can.1°: il linguaggio dogmatico raggiunge con la nota espressione vere, realiter et substantialiter la sua più definita configurazione.

Linguaggio pastorale: cfr. Sacrosanctum Concilium n.7: il linguaggio dogmatico avrebbe esigito che l'espressione vaga [Cristo è presente nella sua Chiesa] maxime sub speciebus eucharisticis (soprattutto sotto le specie eucaristiche) fosse stata determinata con l'aggiunta del termine substantialiter o ad modum substantiae nel modo stesso che poco dopo si definisce la presenza di Cristo nei Sacramenti col termine specifico virtute sua (Praesens adest virtute sua in sacramentis). E' necessario dire che il termine maxime (soprattutto) afferma certamente la presenza di Cristo nel suo grado più eccellente, ma non specifica che qui non si tratta solo di grado, bensì di essenza: una presenza essenzialmente diversa dalle altre.

 

In questo quadro si inserisce pure i linguaggio liturgico, che possiede proprietà specifiche che lo configurano nella sua tipicità. Si tratta di un linguaggio orante, che contiene e comunica pienamente il dogma, senza assumere il carattere giuridico di una definizione dogmatica e al contempo è rivestito di quella nobile forma cultuale che, diversa dal semplice linguaggio catechistico e discorsivo, eleva gli oranti alla dimensione sacra della liturgia. Una certa tendenza odierna porta a ridurre il nobile e classico linguaggio liturgico al comune eloquio corrente con traduzioni successive sempre più riduttive sia della precisione dottrinale, sia dell'espressione sacra propria della liturgia.

 

3.        Il rapporto intrinseco tra linguaggio e filosofia (sistema di pensiero)

 

La lingua (con i suoi specifici termini e locuzioni) è intrinsecamente connessa con la cultura di cui è espressione viva e in fin dei conti è il riflesso del pensiero filosofico che costituisce la trama del sistema di pensiero proprio di ciascuna cultura.

Il linguaggio perciò si struttura in funzione dei concetti o delle sensibilità proprie di una specifica filosofia o comunque di un insieme di percezioni e comportamenti che caratterizzano un popolo.

Il tipo di filosofia quindi genera e richiede il tipo di linguaggio che maggiormente la asseconda, la interpreta e la comunica.

Possiamo subito distinguere i due tipi di linguaggio, che ineriscono ai due fondamentali modelli filosofici:

 

- il linguaggio univoco è relativo alla filosofia perennis oggettiva

- il linguaggio equivoco è relativo alle filosofie effimere soggettive 

 

La philosophia perennis è un'irreversibile conquista del genio greco e consiste nel dimostrare che la ragione (ratio) umana è capace (capax) di cogliere la verità oggettiva degli enti visibili mediante l'astrazione e il concetto e di raggiungere la realtà trascendente, mediante l'analogia. L'oggetto, conosciuto con certezza nella sua oggettività reale, è pure una verità condivisibile da ogni essere razionale e comunicabile con un linguaggio preciso e adeguato all'essere colto con certezza dalla ragione. Come certa è la conoscenza della ratio che elabora il concetto (idea), così è sostanzialmente adeguato il linguaggio che lo definisce e lo comunica. Alla precisione del concetto consegue la univocità dei termini linguistici adatti a descriverlo, pur nella continua ricerca di termini sempre più adeguati alla complessità del reale. Quindi concetto e linguaggio sono correlati e la possibilità del primo assicura quella del secondo: se è possibile raggiungere razionalmente il reale oggettivo, sarà possibile poterlo esprimere con termini il più possibile adeguati e univoci.

Paolo VI chiarisce il tema:

 

«Occorre ricordare che al di là del dato osservabile, scientificamente verificato, l'intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è), e non soltanto l'espressione soggettiva delle strutture e dell'evoluzione della coscienza; e che d'altra parte, il compito dell'interpretazione –dell'ermeneutica – è di cercare di comprendere e di enucleare, nel rispetto della parola pronunciata, il significato di cui un testo è espressione, e non di ricreare in qualche modo questo stesso significato secondo l'estro di ipotesi arbitrarie».

 

Le 'filosofie' moderne (da Lutero, Cartesio e Rousseau in avanti) sono incentrate sul soggetto (soggettivismo) e non garantiscono nessuna conoscenza oggettiva del reale. Da ciò il linguaggio soggettivo che non pretende di definire la realtà, ma solo di esprimerla con idee vaghe e mutevoli secondo la percezione soggettiva di ognuno.

 

Volendo assumere il linguaggio dell'uomo moderno si deve fare i conti con la 'filosofia' odierna, che presenta l'assenza della metafisica come ponte verso il trascendente e offre unicamente una visione immanente e un linguaggio perlopiù tecnico. Si comprende allora quanto sia pericolosa l'adozione di un tale linguaggio e come esso implichi una modifica sempre più inerente alla stessa dottrina, che dalla conoscenza certa del reale passa ad un'interpretazione soggettiva ed effimera del medesimo. Il linguaggio tecnico non può assolvere le esigenze del linguaggio teologico, che inerisce ad un ambito di pensiero trascendente secondo le regole della metafisica perenne.

 

Si capisce allora lo sconquasso dottrinale conseguito al legittimo intento pastorale e alla connessa questione del linguaggio come sua precipua preoccupazione.

 

 

4.        Il rapporto intrinseco tra philosophia  perennis e teologia cristiana 

 

E' necessario fermare l'attenzione sul fatto che l'intera Bibbia (del Nuovo e dell'Antico Testamento) viene consegnata alla Chiesa, fin dal suo esordio, in lingua greca. Infatti, l'Antico Testamento è totalmente tradotto in greco già dai Settanta, accettato dall'autorità del Tempio di Gerusalemme, e come tale è conosciuto in tutto l'Impero Romano (nella Koiné) ancor prima della venuta di Cristo (II sec. a.c.). Per di più l'edizione greca della Bibbia dei Settanta è citata nella predicazione degli Apostoli e nei loro scritti ispirati. Inoltre gli agiografi scrivono pure l'intero canone del Nuovo Testamento in greco. Possiamo allora dire che lo Spirito Santo, autore principale di tutta la Scrittura, parla in greco. Tutte le genti devono passare necessariamente dal greco per accedere all'intera Rivelazione: la Bibbia dei Settanta è infatti considerata canonica sia dagli Ebrei al tempo di Cristo sia dalla Chiesa che come tale la riceve dagli Apostoli e la accosta da subito ai libri canonici scritti in lingua greca dell'intero Nuovo Testamento.

 

L'uso della lingua greca porta ad acquisire necessariamente il pensiero della cultura soggiacente all'idioma: con la lingua greca entra nella Rivelazione, sotto la supervisione soprannaturale dello Spirito Santo, anche la Philosophia perennis, genio dei greci, con i suoi concetti logici e il suo metodo gnoseologico di approccio alla realtà oggettiva, conoscibile dalla ratio umana e comunicabile da un linguaggio sempre più adeguato ad esprimere il reale (filosofia dell'essere o realismo filosofico).

 

Benedetto XVI ebbe ad esprimersi sulla questione del rapporto tra filosofia greca e teologia cristiana nel famoso discorso di Ratisbona, forse il più elevato intervento del magistero di Benedetto XVI. Egli scrive:

 

«Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la Settanta -, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede. Manuele II poteva dire: Non agire «con il logos» è contrario alla natura di Dio».

 

In senso ostile a questo processo di «vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco […] si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica» (modernismo). Se non si considera l'ellenizzazione del cristianesimo come un processo intrinseco alla Rivelazione biblica nel suo stesso costituirsi, ma la si vuole ritenere soltanto come una prima inculturazione della Rivelazione, ed esterna ad essa, è evidente che l'ellenizzazione stessa appare uno schermo alla recezione pura della Rivelazione biblica ed una remora che deve essere rimossa per favorire l'autenticità di ogni altra successiva inculturazione nei popoli da evangelizzare. Un certo concetto odierno (modernista) di inculturazione, infatti, porta effettivamente verso un processo indebito di deellenizzazione biblica e teologica. Benedetto XVI si esprime sulla questione in modo chiaro:

 

«In considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura».

 

Evidentemente le cosiddette 'filosofie' moderne, soggettivistiche e fluide, non sopportano, per la loro intrinseca natura, i postulati perenni della filosofia greca dell'essere, per cui voler configurare sui postulati effimeri di tali 'filosofie' il pensiero cristiano e ancor più volerlo esprimere con il loro linguaggio non può che produrre un'assoluta inadeguatezza, che porta inevitabilmente alla mutazione dei contenuti veritativi del pensiero (il logos), ossia della dottrina. Si può in tal modo osservare questo tragico processo: il passaggio dal pensiero logico (perenne) al pensiero ideologico (effimero) e di conseguenza: dalla mutazione del linguaggio in senso liberale e modernista alla mutazione del dogma cattolico.

 

Si rende necessario perciò il ritorno alla filosofia classica cristiana e soprattutto a San Tommaso d'Acquino, che ne costituisce il vertice insuperato, secondo il noto monito conciliare: 

 

Per illustrare quanto più possibile integralmente i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso per mezzo della speculazione, avendo S. Tommaso per maestro.

 

5.        Alcuni termini teologici necessari ed irrinunciabili 

           per conservare il Depositum fidei

 

La secolare elaborazione teologica sul dato rivelato (orientale ed occidentale) ha fornito alla Chiesa un patrimonio notevole di termini e locuzioni che risultano ormai indispensabili per l'espressione e la trasmissione corretta dei dogmi della nostra fede. Il Depositum fidei conserva con cura questi termini pregnanti e queste locuzioni sintetiche in quanto sono il frutto di secolari diatribe teologiche e rappresentano la tessera dell'ortodossia della fede. Tali termini sono frutto di un processo di tornitura meticolosa ed hanno subito il travaglio del fuoco attraverso molteplici eresie, contingenze storiche e avversità di ogni tipo. Per la loro densità di contenuto e precisione di significati assurgono ad essere il sigillo stesso di un dogma così come la Chiesa lo crede e lo propone a credere in forma definitiva. 

 

 1. Concilio di Nicea (325)

 

Genitum non factum: Il Figlio unigenito è generato eternamente dal Padre e, in quanto tale, increato, senza principio e senza fine. 

 

Ogni creatura invece è fatta dal nulla (creata ex nihilo).

            

Cumsubstantialem Patri (omoousios to Patri): di sostanza divina come il Padre.

 

Nel termine omoousios (uguale) si ha un esempio sia della delicatezza del termine in ordine alla verità che esprime, sia della lotta acerrima che lo ha consacrato definitivamente (arianesimo). Un semplice iota (omoiousios = simile) bastava per mutare l'ortodossia in eresia e provocare scismi e divisioni nella cristianità.

 

Incarnatus est: nella pienezza del tempo il Figlio coeterno al Padre diventa veramente ed integralmente anche vero uomo: della stessa sostanza del Padre e della stessa sostanza della Vergine Madre, Maria.

 

Il termine Incarnazione difende il dogma da ogni riduzione della natura umana di Cristo, come potrebbe essere umanizzazione o inculturazione o termini analoghi.

    

2. Concilio di Costantinopoli I (381)

 

Ex Patre procedit: lo Spirito Santo procede dal Padre, ma non è generato, altrimenti sarebbe un secondo Figlio del Padre.

 

3. Concilio di Efeso I (431)

 

Theotokos: Maria è veramente la Madre di Dio, non semplicemente la Madre di Cristo o la Madre di Gesù. 

 

4. Concilio di Calcedonia (451)

 

Una sola Persona (upostasis) divina – due Nature (fisis): divina e umana. 

 

Questo Concilio porta a compimento la dottrina cristologica definendo i termini precisi di persona e di natura, per cui il Signore nostro Gesù Cristo è un'unica persona divina con due nature integre e distinte.

 

5. Il «Filioque»

 

Il Filioque è stato legittimamente inserito nel Credo da Carlo Magno e si volle in tal modo assicurare ogni difesa dall'eresia ariana. Filioque significa che il Figlio è col Padre quell'unico principio da cui procede (spira) lo Spirito Santo. La locuzione assicura la divinità del Figlio e dello Spirito Santo e così si afferma l'uguaglianza delle tre divine Persone, ossia il mistero della Santissima Trinità. 

 

6. La «Transustanziazione»

 

Questo termine (Ousia – sostanza) è l'emblema di come i termini teologici siano formulati in modo da aderire quasi morfologicamente al contenuto che devono trasmettere.

 

Cum-substantialis             omoousios               crediamo il Mistero nel Credo

Trans-substantiatio           metousios                lo adoriamo nel Canone

Super-substantialis           epiousios                  lo invochiamo nel Pater

 

In particolare il termine epiousios (super-substantialis) è, secondo Origene un apaxlegomenon (un termine unico formulato ad hoc) e non ricorre in nessun altra parte della Bibbia greca se non nei vangeli greci di Matteo e Luca nella loro edizione originale in greco. 

 

7. Il «Sacrificio incruento: latreutico, eucaristico, propiziatorio e impetratorio»

 

Tutti i termini qui impiegati sono necessari per esprimere con sicurezza il dogma relativo all'Eucaristia come Sacrificio: sacrificio – incruento – latreutico – eucaristico – propiziatorio – impetratorio.

In particolare nel contesto odierno vi sono notevoli difficoltà nella recezione del concetto di sacrificio espiatorio relativo al mistero eucaristico, che in realtà costituisce il perno portante del dogma eucaristico contro l'eresia protestante.

 

8. «Praeservata» (1854)

 

Riguardo del dogma dell'Immacolata Concezione si deve usare questo termine (Praeservata) perché altri termini, come ad esempio liberata dal peccato, implicano che almeno nel primo istante ne sia stata già intaccata.

 

9. «Assumpta» (1950)

 

Si deve accuratamente distinguere il termine Ascensione da Assunzione: il primo indica l'Ascensione del Signore, che per la propria potenza divina da se stesso sale alle altezze dei cieli e siede alla destra del Padre, mentre il secondo indica che la Madonna è una creatura e come tale è assunta in cielo per l'intervento divino del suo divin Figlio. Infatti una tale glorificazione nell'anima e nel corpo è opera esclusiva di Dio e non prodotto della creatura per quanto sia eccelsa in santità.

 

10. «Corredentrice e Mediatrice» (dogma in attesa di definizione solenne)

 

La Corredenzione implica la piena collaborazione all'opera della salvezza nel suo svolgersi storico accanto al Redentore in perfetta simbiosi con la sua opera redentrice; la Mediazione invece riguarda il ruolo di mediazione, prima storica e poi celeste, della Vergine accanto e in perfetta obbedienza al Mediatore divino, il Signore nostro Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini.

 

11. «Ex sese» (Concilio Vaticano I - Pastor aeternus - 1870)

 

La brevissima locuzione risolse con precisione dogmatica la retta esposizione del dogma sull'Infallibilità pontificia definito nel Concilio Vaticano I. Le definizioni ex cathedra del Romano Pontefice hanno valore per se stesse (Ex sese) e non per il consenso della Chiesa che ne è sempre connesso in quanto ubi Petrus ibi Ecclesia.

 

12. «Munus - potestas» (Concilio Vaticano II – Lumen gentium – Nota praevia – 1965)

 

I due termini vengono assunti nella Nota explicativa praevia annessa alla Costituzione dogmatica Lumen gentium per esprimere con precisione dogmatica la distinzione tra il dono sacramentale (Munus docendi et regendi) della giurisdizione episcopale dal suo concreto e valido esercizio giuridico su mandato del Sommo Pontefice (Potestas expedita ad actum).

 

13. A titolo di esempio vogliamo ricordare la sventata crisi nella traduzione degli inni dell'Ufficio divino da parte degli umanisti (sec. XV), quando si voleva adeguare il latino ecclesiastico al latino dell'antichità classica. In questo tentativo si vede con chiarezza come il linguaggio impiegato rischiava di alterare profondamente i concetti teologici cristiani sotto una veste lessicale a chiare tinte pagane, come ben riferisce il Righetti: «Per gli umanisti pregare per i defunti dicevasi Superos Manesque placare; le vergini, Vestali; i Cardinali, Patres conscripti; i Santi, Dei; la Madonna, Maxima Dearum; la Trinità, Triforme numen Olympi; Dio, il gran Giove; e così via».

 

6.        Criteri per le traduzioni dei testi sacri e soprattutto per l'uso liturgico 

 

I criteri che devono presiedere alle traduzioni liturgiche dall'Editio typica latina alle lingue volgari sono dettati da importanti documenti emanati dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Si tratta dell'Istruzione Varietates legittimae (1994) e dell'Istruzione Liturgiam authenticam (2001).

Ed ecco alcuni criteri riassuntivi:

 

1. Letterale o integrale 

 

La traduzione è letterale quando vi si riscontrano i termini corrispondenti. Se tali termini devono essere sostituiti con altri analoghi, ma vi resta il contenuto nella sua integrità e definizione si parla di traduzione integrale.

 

Trad. letterale: Non ci indurre in tentazione  

Trad. integrale: Non ci mettere alla prova

 

2. Nobile 

 

I testi della sacra Scrittura e della Liturgia devono rivestire uno stile letterario nobile, avere cioè un lessico, una proprietà e una composizione stilistica consone con l'alta dignità del loro contenuto. Si pensi allo stile protocollare dei prefazi e delle orazioni romane classiche (colletta, superoblata, postcommunio). Soprattutto si pensi allo stile ieratico del Canone Romano.

 

Nelle recenti traduzioni si nota invece un intento opposto: l'uso del linguaggio ordinario dei rapporti secolari e quotidiani, la lingua della strada per - si dice - essere maggiormente compresi dalla gente. 

 

3. Sacra

 

La traduzione è sacra in quanto è pervasa del senso del sacro, ossia vi si respira la presenza e l'azione soprannaturale di Dio. Ciò implica l'uso di determinati termini tipici del sacro e di locuzioni specifiche riservate all'ambito sacro. Lo stile dell'Apocalisse e dei testi profetici con la descrizione delle grandi ierofanie bibliche e il ritmo solenne dei simboli e dei cantici ne sono esempio insigne.

 

4. Tradizionale 

 

Nelle traduzioni si deve tener presente la secolare tradizione della Chiesa, che ha consacrato talune espressioni letterarie e ha sempre espresso una determinata interpretazione riguardo a locuzioni difficili o passibili di differenti interpretazioni.  La dottrina dei Padri, dei Santi e dei grandi Teologi espressa soprattutto nel Magistero e nell'uso liturgico della Chiesa danno fondamento alla fede condivisa pure dal comune intendimento del popolo cristiano nell'arco dei secoli. in un certo modo alcune espressioni e sono conformi sia all'interpretazione dei Padri e dei grandi. 

 

La traduzione (nell'esordio dell'Inno angelico) del termine greco Eudokias, che letteralmente può essere reso sia con benvoluti come benevolenti, viene risolta da sedici secoli di incontestata traduzione: bone voluntatis (cfr. Vulgata latina – IV sec.).  Mutare la traduzione significa sconfessare interi trattati patristici e commentari teologici in tal senso orientati.

 

5. Liturgica (o lirica)

 

Lo stile cultuale-liturgico esige l'osservanza di alcune regole basilari che ineriscono ai testi destinati al culto. In particolare si dovrà curare il ritmo e la cadenza che consentono la memorizazione, la ripetizione orante, la cantillatio e la melodia. Infatti i testi liturgici sono prevalentemente destinati al canto o comunque devono facilitare una recitazione corale. Si pensi in particolare al Salterio e ai Prefazi romani.

 

            *   *   *

 

Se già la parola del Signore, che afferma che anche un iota o un apice della legge avrà il suo compimento (Mt 5,18), induce al massimo rispetto del testo sacro, ancor più le parole ispirate dell'Apocalisse impegnano la Chiesa ad una interpretazione autentica e ad una osservanza integrale di ogni parola rivelata. Infatti un severo giudizio incombe sui mistificatori della Parola di Dio:

 

Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; a chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 22, 19-19).

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