QUANDO DIO SI INGINOCCHIA DAVANTI A NOI
Benedetto XVI in "per Amore" pp.79-85
Gv 13,1-15
Il messaggio della lavanda dei piedi non inizia solo col Cenacolo. Attraversa tutta intera la vita di Gesù. Una prima volta si manifesta chiaramente, nella vita di Gesù, durante un banchetto nel quale egli osserva con quale mancanza di riguardo e di tatto gli invitati sgomitano per occupare i primi posti (Lc 14,7-11). Il Signore dice ai suoi che non devono fare così. Devono tranquillamente andarsi a mettere agli ultimi posti lasciando che sia il padrone a pregarli di venire avanti. Quando dice questo, suggerisce tutt'altro che una modestia un po' inibita. Certo, c'è anche un po' di sarcastica lezione di educazione a fronte della mancanza di tatto che trova. In fondo il tatto, la cortesia è un segno di umanità, a volte l'ultimo bastione di essa.
Ma che ci sia molto altro diviene chiaro quando Luca dice che questo atteggiamento di Gesù era una parabola (Lc 14,7). In questa lotta per i primi posti, il Signore vede un'immagine della storia del mondo, in cui gli uomini lottano per il potere e per gli averi, in cui tutti vogliono stare davanti, vogliono esercitare violenza e sgomitano per possedere, perché credono così di divenire liberi in certo modo come Dio. In realtà rovinano se stessi e il mondo perché saccheggiano la terra consumandosi in una spirale di violenza.
Quando Gesù venne nel mondo, non fece così. Egli ha scelto l'ultimo posto. È nato in una stalla. Ha vissuto da lavoratore fra i poveri di Israele. Ha insegnato tra i pubblicani, i peccatori, i disprezzati. Ha raccolto intorno a sé pescatori. Ed è morto fuori dalle porte della città fra due malfattori. Proprio in questo mostra la vera immagine di Dio. Perché il vero Dio non è un tiranno che esercita violenza come gli pare e piace, che sta chiuso in sé stesso per affermarsi. Il vero Dio è amore che si dona, amore trinitario.
La stessa dinamica della ricerca dei primi posti osservata ne pranzo del fariseo la troviamo nella Cena del Signore. Gli Evangelisti ci raccontano che in essa i discepoli disputarono in piccolo, per così dire, ancora una volta tra di loro, il dramma della storia del mondo. Anche nella Chiesa c'è il mondo, vuole dirci con ciò il Vangelo. Non dobbiamo stupirci quando l'immagine della storia del mondo penetra anche in essa e può spingersi fino al Santissimo, all'Eucarestia. A questo però l Signore contrappone la trasmutazione dei valori, che egli stesso è. Egli ha già deciso qual è il suo posto anche nell'Ultima cena. Il suo posto non è il posto del Signore, il posto del potente, il posto più prossimo al piatto di portata ricolmo o quello più comodo. Egli nemmeno occupa un posto a tavola., ma gira per la sala come servitore che distribuisce, che distribuisce sé stesso.
Questo vuol dire il racconto della lavanda dei piedi di san Giovanni. Il Signore lava via dai piedi il sudore e la sporcizia della vita quotidiana, per renderli capaci di accedere al convito. Più ancora degli altri evangelisti, Giovanni evidenzia che qui non si tratta di un singolo atto morale. Il Signore stesso lungo tutta la ua vita è l'atto della lavanda dei piedi a noi. La sua essenza è chinarsi, il suo essere è umiltà. Infatti che egli, il Figlio di Dio, ci sia come uomo, si basa sul fatto che ha deposto la veste della sua gloria, che si è cinto col grezzo lino della natura umana. E ora si inginocchia davanti a noi, le sue creature. Con il suo proprio corpo egli ci ha lavato nella sua sofferenza, ci ha purificato dal puzzo della nostra superbia e dalla sporcizia del nostro egoismo, rendendoci capaci di accedere al covito dell'amore di Dio.
"Vi ho dato un sempio, infatti, perché anche voi facciate come il ho fatto a voi" (Gv 13, 15). Questa frase è più di una esortazione morale a compiere azioni morali. È la fondazione dello stesso essere cristiani, introduzione nella comunione con Gesù Cristo. È l'umiltà del chinarsi. Posiamo trovare l'identificazione con Lui solo se entriamo in questo dinamismo, solo se noi stessi diventiamo umili. Senza umiltà non è possibile credere. Dire "sì" al Mistero in mezzo al mondo che non lo riconosce, dire "sì" ai limiti della nostra ragione, all'insondabilità di un Dio che si inginocchia davanti a noi, questo senza umiltà non è possibile. E come non c'è fede senza umiltà, così senza umiltà non c'è amore. Lo sanno tutti: dell'amore fa parte saper sopportare, saper tacere, saper accettare umiliazioni. L'amore può sussistere solo in una grande umiltà. E siccome senza fede e senza amore l'uomo non ha nulla da sperare, e siccome l'una e l'altra non possono sussistere dove non c'è umiltà, così l'umiltà è anche il presupposto della nostra speranza. In questo modo il Vangelo del Giovedì Santo lega l'umiltà all'essenza stessa del cristianesimo. Essa è il vero e proprio terreno senza cui non è possibile essere cristiani.
Eppure oggi a stento osiamo dirlo. Insieme a castità e obbedienza, umiltà è per eccellenza la parola più eretica e vietata. Coglie nel segno lo scherno di Nietzsche, che rappresenta i cristiani, con la loro umiltà, come uomini deformi, inibiti, che non osano stare in piedi, senza coraggio e grandezza. All'ideale cristiano Nietzsche contrappone quello del superuomo che sta e può stare a schiena dritta. Egualmente coglie nel segno la critica di Karl Marx, che vede nell'umiltà un mezzo dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, un mezzo per il mantenimento del potere, un mezzo per impedire che ognuno conosca e pretenda i propri diritti.
È chiaro che c'è una malintesa umiltà, se con essa s'intende quella modestia inibita e falsa che non si crede capace di nulla di grande, che non osa riconoscere ciò che abbiamo di grande e che dunque affonda nella pusillanimità dell'invidia e dell'insincerità. Ma non è questo ciò che intendeva il Signore.
Che cosa significhi cristianamente umiltà, l'ha definito in modo pregnante san Benedetto nella sua Regola, quando dice: umiltà significa superare la dimenticanza. Umiltà significa contrapporre a quella dimenticanza che vorrebbe farci dimenticare che siamo creature che possono vivere solo del dono e che solo nel servire possono esistere e mantenere il mondo sopportabile. Sogna eludendo la realtà chi concepisce l'uomo soltanto come l'essere dell'autonomia, che è legge a se stesso. La legge del Figlio dice: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22,42). Sogna eludendo la realtà, animato da una falsa superbia, chi vuole portare l'uomo a un'emancipazione che ritiene di non dovere niente a nessuno e poggi tutta sul proprio diritto e sul proprio volere.
La prima verità sull'uomo è che è creato. Il meglio di sé non lo può creare da sé, ma solo riceverlo. Egli vive del dono reciproco e della grazia reciproca. Perché è così, all'umiltà appartiene anche il coraggio di riconoscere grati quel che si ha di buono e la propria grandezza, sapendo che proprio questo non è fatto da noi, ma che lo abbiamo ricevuto in dono. Chi sa riconoscere questo, sa anche riconoscere senza invidia il bene che c'è nell'altro, perché sa anche che è dono della stessa mano, dono per tutti, dono di Dio che vuole farci grandi e ricchi. All'umiltà appartiene anche il coraggio di stare dalla parte della verità, il coraggio di non piegarsi all'apparenza dell'opinione, di non assumere come criterio l'immagine, ma di restare fedeli alla verità. Il Vangelo di san Giovanni ci dice che l'autentico motivo del rifiuto di Gesù è sta la paura del giudizio umano (Gv 12,43) che significa un dominio dell'apparenza.
L'apparenza domina anche nel nostro tempo. Nella politica non è forse divenuto usuale che quel che conta non è l'impatto sulla realtà ma l'impatto sui media? E di conseguenza si agisce non per la realtà, ma per l'apparenza e per l'opinione pubblica? Non emerge in qualche modo già il pericolo che ci pieghiamo a questa dittatura dell'apparenza? Che non osiamo più staccarci da questa apparenza e dalle immagini che essa esige, divenendo così schiavi di una menzogna sempre più fortemente dilagante? La superbia non rende liberi, ma consegna all'opinione il potere sulla realtà. Consegna il dominio nelel mani della dittatura dell'apparenza, facendoci suoi schiavi.
Umiltà d'altra parte significa non cercare e seguire le opinioni correnti, non spaventarsi dell'ultimo posto, ma prender Dio, la verità, come criterio di giudizio dominante. Umiltà significa, a partire da questo coraggio, rimanere saldi, soffrire e in questo divenire liberi. Il Giovedì Santo ci consegna questo mandato per la nostra vita di tutti i giorni. Osiamo ancora imparare l'umiltà! L'umiltà che, nella confessione dei peccati, si lascia lavare i piedi dal Signore; l'umiltà che, grata, riconosce in noi e negli altri i doni di Dio; l'umiltà che non si piega all'apparenza e non vive per l'opinione; l'umiltà che ci rende liberi a partire dal Signore. Solo dove c'è umiltà, si respira, perché solo l'uomo umile si dona, perché solo lui sa credere e perché solo lui sa amare; perché trova il coraggio di servire anche dove nessun compenso gli è corrisposto e nessun obbligo di legge lo spinge a farlo.
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