Diario di una amicizia

Wanda Poltawska, 55 anni di amicizia con il Beato Wojtyla

GIACOMO GALEAZZI – 02 Novembre 2012

 

Quattro giorni dopo la sua elezione a pontefice Karol scrive alla alla sua "Dusia", Wanda Poltawska: "Dio ha deciso tutto quello di cui qualche volta abbiamo parlato. Tu stessa l'hai detto un giorno dopo la morte di Paolo VI ed è diventato realtà. Dovresti capire che in tutto questo penso a te. (...) Desidero continuare a camminare con te, giorno dopo giorno (...) Da quando seppi della tua vicenda nel lager di Ravensbruch, è cresciuto nel profondo di me stesso questo pensiero: 'Che Dio ha dato te a me con il compito che io devo bilanciare in tutto ciò che hai sofferto in quel lager'. E ho pensato che hai sofferto anche per me. A me, Dio ha risparmiato quella prova. Perché tu eri là (...) La Grazia del Signore è più forte della nostra debolezza. 'Tutto posso in colui che mi dà la forza". Dal quinquennio di orrori nel lager Wanda esce trasformata nel corpo e nell'anima. Tornata a casa, riprese gli studi, si laureò in medicina, si specializzò in psichiatria. Non parlava mai di quanto aveva sofferto. Volle però trascrivere in un quaderno quanto ricordava perché non andasse perduto, parte di quelle memorie confluiranno un libretto intitolato «Ravenshrúck. Ho paura anche dei sogni».

 

Solo all'inizio degli Anni Ottanta si lasciò convincere da un'amica a pubblicare «E ho paura dei miei sogni», il libro con le sue memorie. In Italia lo fece conoscere nel 1996 il professor Adolfo Turano, microbiologo, che lo stava traducendo per pubblicarlo. Ne conservava ancora il manoscritto originale, poi il professore morì prematuramente, ma il libro è stato pubblicato anche in Italia dalle Edizioni dell'Orso. Alla fine degli anni Ottanta, nella postfazione all'edizione tedesca del libro, Wanda Poltawska afferma di essersi chiesta se può ancora avere senso pubblicare le sue memorie sugli anni trascorsi in campo di concentramento: «Già si è avuta l'impressione che quel tempo sia passato per sempre e che il patrimonio di pensieri elaborato allora non sia oggi più rilevante. Ma gli eventi epocali che continuano a svolgersi in Europa, inducono ad una valutazione ben diversa». E ancora: «Non ho mai perduto la fede nel fatto che l'uomo è creatura divina, capace di azioni eroiche; ma Ravensbruck mi ha anche insegnato che l'uomo non è automaticamente un'immagine di Dio, che deve anzi lavorare per essere tale». E in effetti, la molteplice attività di Wanda Poltawska è guidata dalla visione cristiana del mondo. Dal 1955 tiene lezioni di medicina pastorale nella Pontificia accademia Teologica di Cracovia. Dal 1957 dirige l'istituto di Teologia della Famiglia presso la stessa Accademia. Ha insegnato all'Istituto Giovanni Paolo II presso la Pontificia Università Lateranense negli anni 1981-1984. È membro del Pontificio Consiglio per la Famiglia (dal 1983), degli Operatori sanitari e della Pontificia Accademia "Pro Vita".

 

È stata insignita della Medaglia d'Oro "Per il lavoro reso alla città di Cracovia" (1964) e in Vaticano della Medaglia "Pro Ecclesia et Pontifice". Ma soprattutto, come documenta anche il biografo papale Renzo Allegri, Wanda è stata l'amica di una vita e la straordinaria collaboratrice di Karol Wojtyla, fin da quando egli era assistente dei giovani universitari a Cracovia. La psichiatra di Lublino lavorò con Wojtyla nelle attività culturali e sociali dell'arcidiocesi di Cracovia, soprattutto per i problemi della famiglia. E, dopo che Karol Wojtyla divenne Pontefice, ha continuato a lavorare per lui, a Roma, nei tre importanti dicasteri vaticani della Famiglia, della Sanità e della Bioetica. Incarichi che in Curia ancora conserva, come risulta dall'Annuario pontificio 2008 con la qualifica di «esperta in antropologia e medicina pastorale», mentre in patria dirige l'Istituto di Teologia della Famiglia alla Pontificia Accademia di Teologia di Cracovia. Una biografia, insomma, che sembra un romanzo. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, Wanda Poltawska era una giovane studentessa universitaria. Aveva diciotto anni. Frequentava, i circoli degli studenti cattolici. E quando i nazisti invasero la Polonia, come tanti altri suoi coetanei, entrò a far parte della Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta, arrestata, tradotta in Germania e trascorse cinque anni in un lager. Per lei cominciarono subito i lavori, pesanti, pesantissimi. «Caricavano una quantità smisurata di pesi sulle nostre spalle.

 

Ricordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel peso perché dietro di me c'era un'altra prigioniera e l'avrei uccisa. Dovevamo spalare sabbia. Avevamo accanto le sorveglianti con terribili cani che ringhiavano minacciosi appena una di noi si riposava un poco. Le mani sanguinavano. Al mattino la sabbia era bagnata e pesante, durante il giorno si asciu­gava con il vento, si alzava, entrava negli occhi, nella bocca, nelle orecchie», rievoca Wanda. Un tormento terribile, amplificato dal freddo. «Dove dormivamo pendevano dal soffitto i ghiaccioli. Sulle nostre coperte c'era la brina e la sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo le finestre dei due lati del dormitorio per colpirci con le correnti d'aria-spiega Wanda-. Nelle  baracche dove andava­mo a lavorare era, invece, molto caldo. La baracca era superaffolla­ta e sudavamo. Indossavamo vestiti leggeri, con le maniche corte. Il mio turno terminava alle cinque del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e ore al gelo. Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci buttavamo sulle brande e dopo un'ora suonava la sirena e dovevamo alzarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un'altra ora ancora la sirena per l'appello. Non si riusciva a chiudere occhio». La stanchezza era una cappa di sofferenza senza squarci di tregua.  «A  volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate- continua Wanda-.La fame era più forte del desiderio di dormire.

 

Eravamo magre come scheletri. Neanche la vista delle donne nude, in coda per il bagno, terribilmente magre, causava più disgusto. Guardavamo con indifferenza la nostra magrezza e quella delle altre, così come la perdita dei seni e la morte. Per la fame eravamo diventate ladre, ci rubavamo un tozzo di pane, litigavamo per poche briciole». E poi, ecco, a un certo momento, l'appello di un gruppo che viene portato nel padiglione dell'infermeria, tra esse anche Wanda. Vengono lavate, un'infermiera depila le loro gambe, pratica delle iniezioni che fanno perdere la coscienza e quando le ragazze si svegliano si trovano con le gambe ingessate. Che cosa è accaduto? Non lo sanno. Vengono riportate nel dormitorio su una sedia a rotelle. Messe a letto e, nel corso della notte, quando termina l'effetto del potente sonnifero, cominciano dolori lancinanti.

 

Inizia così il martirio. Quelle ragazze diventano delle cavie umane per atroci esperimenti medici. Gli interventi chirurgici alle gambe si succedono a periodi fissi. Le ferite praticate vengono trattate con medicinali particolari che producono infezioni, cancrene. In quello stato le vittime vengono abbandonate sole nel dormitorio, senza alcuna assistenza. Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si lascia cadere dal letto e, aggrappandosi alle brande delle compagne, raggiunge quelle più sofferenti per dare loro un po di conforto, bagna i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi, conforta chi sta agonizzando. Di giorno arrivano i medici che osservano le ferite e ordinano altri esperimenti. Le povere cavie umane vengono riportate nel padiglione dell'infermeria e sottoposte ad altre orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni di batteri nelle ferite. Un calvario spaventoso e interminabile. Ogni tanto una ragazza muore. Se ne vanno in questo modo in molte. Wanda le ricorda, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché sono vittime innocenti, uccise da un odio assurdo, freddo, cinico, umanamente inconcepibile. L'esasperazione delle sopravvissute è indicibile. Ma Wanda, anche in quella tremenda situazione, riesce a mantenere il suo equilibrio cristiano. «Non provavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tedeschi? Li guardavo e cercavo in loro le persone». Un incredibile e orribile calvario che Wanda Poltawska percorse, dai 18 ai 23 anni, nel lager di Ravensbruck. Un'esperienza capace di distruggere qualsiasi equilibrio psichico.

 

Wanda è sopravvissuta fisicamente e psichicamente a quegli orrori grazie alla sua fede. La sua vicenda di giovane prigioniera che vive un dramma spaventoso ma con una invincibile partecipazione alla sofferenza degli altri. La prima persona a cui confiderà tutto sarà Karol Wojtyla. Al compimento del suo 88° anno Wanda ha reso pubbliche alcune delle centinaia di lettere che ha ricevuto da Giovanni Paolo II, le altre le conserva in casa a Cracovia dentro una valigia. E le lettere di un Papa a una donna hanno fatto subito gridare allo scandalo. In Vaticano comincia subito a circolare la voce che questo imprevisto potrebbe frenare i tempi della causa di beatificazione del papa polacco. «Doveva stare zitta», reagisce subito il cardinale di Cracovia, ex segretario particolare di Wojtyla. Alcune lettere sono state pubblicate da Wanda Poltawska in un libro, uscito in Polonia per i tipi della «San Paolo» polacca, suscitando subito polemiche. In Italia a far esplodere il caso è un'inchiesta-reportage del quotidiano «La Stampa».

 

Quelle lettere fanno parte di una intensa corrispondenza intercorsa tra la Poltawska e Wojtyla nell'arco di 55 anni. Soprattutto nei momenti cruciali: la richiesta di guarigione a padre Pio nel 1962 e i due conclavi del 1978. Karol scrive a Wanda il 30 giugno 1978: «Oggi, verso le 21, vorrei venire a casa per parlare delle prossime vacanze. Ho portato la tua ultima lettera agli esercizi spirituali. Penso che durante il nostro soggiorno presso il fiume Wislok troveremo del tempo per rivedere i vecchi quaderni e rileggere insieme qualche pagina del libro «Il segno del perdono». Fr(atello). «Karol scrive a Wanda il 6 agosto 1978: «Mia cara Dusia, mi è successa una cosa sorprendente. Mai mi capita di sognare qualcosa, ma stanotte ho sognato il papa Paolo VI che mi faceva segno di avvicinarlo». Wanda scrive a Karol il 16 ottobre 1978: «Oggi dalla tua stanza ho portato via tutte le tue carte come tu mi hai permesso di fare. La tv polacca ha trasmesso la notizia («Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam»), don Marian ha subito celebrato messa nella chiesa di Maria. La folla era impazzita, suonava la campana di Sigismondo. Come dovrei vivere io dopo tutto questo che è avvenuto? Ricordo una giornata di pioggia delle ultime vacanze trascorse insieme al Monte di Sant'Anna. Siamo stati costretti a cercare rifugio sotto un albero, per proteggere il tuo breviario, ho dovuto tenere sopra la tua testa, come un tetto, il mio mantello. Appena tornata a casa, la radio ha annunciato la morte di Paolo VI e mi si è stretto il cuore. Già da un po' avevo questa premonizione che presto saresti dovuto andar via. Per sempre». I due si sono conosciuti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono diventati amici, hanno collaborato in numerose iniziative insieme. Prima a Cracovia, nelle attività culturali e sociali della diocesi, soprattutto per i problemi della famiglia; e, dopo l'elezione di Karol Wojtyla a Pontefice, a Roma, assunse importanti incarichi in dicasteri-chiavi della Curia. Una attività intensa, insolita per un papa, durata fino al termine del pontificato.

 

Un'amicizia che ebbe una straordinaria visibilità nel 1984, quando si seppe che la Poltawska aveva ottenuto un miracolo per intercessione di Padre Pio, tramite richiesta di Karol Wojtyla. Ma è l'attentato il momento di svolta. L'uomo Wojtyla ne esce terribilmente invecchiato. Esplode la diffidenza verso vecchia Curia. Ma Wanda non conserva solo un'eccezionale corrispondenza privata con il Pontefice. È la depositaria anche dei segreti più terribili di quel Pontificato. Sa molto dell'attentato in piazza San Pietro, ad esempio. E non è un caso se il giudice Rosario Priore, che indagò a lungo sui mandanti che si nascondevano dietro la mano di Alì Agca, la interrogò tre volte nel novembre del 1993. Il giudice infatti, aveva scoperto che nelle ore seguenti all'attentato il Papa aveva tagliato i ponti con la Curia e con la Segreteria di Stato, affidandosi a questa signora nella quale riponeva la massima fiducia. "Giovanni Paolo II - spiega Priore - si circondò di una fascia ristrettissima di fide persone polacche, tagliando fuori tutti gli altri". Ovvia la deduzione: non si fidava del resto del Vaticano.

 

Di questa fiducia assoluta in Wanda, il giudice Priore se n'è convinto esaminando una storia poco nota: le fotografie "rubate" al Papa nei primi giorni della convalescenza. Una decina di scatti presi con un potente teleobiettivo che si materializzarono all'improvviso in Vaticano. Se le ritrovò tra le mani un certo monsignore Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari economici. Erano indubbiamente choccanti: raffiguravano il Papa dolorante che si affacciava in vestaglia su un piccolo terrazzo, con due medici al fianco. Forse c'era anche Wanda con loro. Monsignor Salerno capì che si trattava di roba grossa. E che ne fece? Si affrettò a consegnarle a Wanda Poltawska "molto vicina - dice in una testimonianza - al Sommo Pontefice".

Priore volle capirne di più. "Valutai - gli disse monsignor Salerno - più proficuo informare una persona come la dottoressa di un caso che mi appariva delicato per le ragioni connesse alla sicurezza personale del Pontefice piuttosto che sollecitare formalmente le autorità interne". Un'altra prova della sfiducia imperante nell'appartamento papale. "Mi era noto il suo legame con il Sommo Pontefice e la ritenevo la persona più idonea a esperire eventuali interventi per evitare una esposizione imprudente della persona del Papa".

 

La dottoressa Poltawska capì anche lei, fin dal primo sguardo, che si trattava di materiale incandescente. Segnalavano una falla nella sicurezza: e se qualcuno si fosse appostato con un fucile di precisione? Guai in vista, poi, per la privacy: e se queste foto fossero finite su un giornale? Infine una terza questione, molto imbarazzante: ricostruendo le prospettive, e considerando che il terrazzo papale non affacciava che verso l'interno del Vaticano, le foto potevano essere state scattate soltanto dalla Lanterna posta sopra la Cupola di San Pietro. E per di più con una macchina fotografia professionale che aveva bisogno di un robusto cavalletto. Chi poteva averle scattate? C'era evidentemente una talpa in Vaticano. Forse nella stessa Sicurezza.

 

Wanda a quel punto avviò una sua personale inchiesta, coinvolgendo monsignor Salerno e il fotografo dell'Osservatore romano, Arturo Mari. Un'inchiesta segretissima sulla quale, interrogata dalla magistratura italiana, è stata volutamente fumosa. Queste le sue vaghissime risposte: "Io al tempo non conoscevo quasi nessuno in Italia. Personalmente non presi alcuna decisione, se riferire o meno a persone della Sicurezza vaticana. Ne riferii solo al Sommo Pontefice".

 

Però l'indagine ci fu, eccome. Mari ha riferito di aver studiato le foto e poi di averle restituite a Wanda. Lei stessa ricostruì meglio quando potevano essere state scattate. "Avendo mostrato copia di quelle fotografie al personale che all'epoca prestava servizio nell'appartamento privato, accertava che solo nei primi tre o quattro giorni dopo il rientro, il Santo Padre fu assistito da medici del Gemelli". Insomma gli scatti dovrebbero essere stati "rubati" tra il 4 e il 6 giugno 1981.

Foto misteriose. E resta un mistero anche la via attraverso cui arrivarono in Vaticano. A monsignor Salerno le diede un sacerdote, don Ennio Innocenti, che a sua volta - disse - le aveva ricevute da un generale italiano. Raccontò una storia palesemente falsa. Il generale le avrebbe avute da un giovane sconosciuto, assieme ad altre che riguardavano la tragedia di Vermicino, mentre saliva su un aereo militare che lo avrebbe portato a Parigi. Sull'aereo, sfogliando il plico, avrebbe scoperto la serie che riguardava Wojtyla e le sottrasse. Ma chi era mai questo generale? Chiamato a palazzo di Giustizia, don Ennio si appellò al segreto del confessionale e non ci fu modo di farlo parlare. Però forse Wanda lo sa. La sua inchiesta parallela, è stato uno dei segreti meglio custoditi al mondo. Subito dopo il ritorno del Sommo Pontefice dall'ospedale, lei sola, la dottoressa polacca, e naturalmente don Stanislao, avevano accesso all'appartamento papale. E non soltanto per assistere l'illustre infermo, ma per ragionare, riflettere, indagare sull'accaduto. Ovviamente sotto la sua stessa guida.

A un certo punto, dunque, le foto "rubate" da una postazione sulla sommità della Cupola di San Pietro, scatti proibiti di un Pontefice dolorante, arrivarono nell'appartamento papale. E Wanda prese in mano le redini dell'indagine. Uno su cui s'appoggiò fu Arturo Mari, il fotografo dell'Osservatore romano. Mari preparò per la Poltawska una sorta di dossier, compresa un'analisi molto particolareggiata degli scatti "rubati" all'intimità del Pontefice. Un altro fu il monsignore che aveva fatto da "postino" e che le aveva recapitate a Wanda, "sapendola molto vicina al Sommo Pontefice".

 

Quando fu interrogato dal giudice Rosario Priore, monsignor Salerno raccontò così: "La dottoressa Poltawska mi chiese se poteva esaminare assieme a Mari i reperti fotografici. Nel visionarle, Mari rilevò che le foto erano state scattate dalla cupola di San Pietro e che la distanza tra il punto di osservazione e il soggetto fotografico era molto ravvicinata, e comunque tale da sconsigliare una permanenza del Pontefice in un luogo così accessibile".

 

Mari è un eccezionale professionista che dal 1956 senza interruzione segue i Pontificati. A monsignor Salerno e poi a Wanda spiegò che il misterioso paparazzo doveva aver usato un teleobiettivo da 1000 millimetri, probabilmente raddoppiato, e un treppiedi. Con tutto questo ingombrante armamentario, il fotografo si era appostato chissà per quanto tempo sulla Lanterna che si trova sulla sommità della Cupola. Chiaramente in orari in cui non c'era il pubblico. E con il mirino fisso su un preciso terrazzino, il solo su cui si poteva affacciare il Pontefice. Ovvia la conclusione: c'era una talpa dentro il Vaticano, qualcuno che aveva favorito l'operazione.

 

Quali fossero gli scopi, impossibile dirlo. Solo voglia di scoop? Il tentativo di replicare il più famoso colpo fotografico del secolo, ovvero le foto di Pio XII morente, fatta di nascosto dall'archiatra Galeazzi Lisi nel 1957? O c'era di peggio? Un tentativo di intimidazione? O ancora un'operazione per intaccare l'immagine di Karol Wojtyla? Tante brutte domande frullarono per la testa di Wanda Poltawska e del ristretto staff papale.

 

"È passato così tanto tempo", si schermisce oggi il fotografo Mari. "E poi da parte mia fu un intervento irrisorio". Dice di non ricordare più molto di questa storia. Non rammenta i suoi contatti con la Poltawska. Ugualmente smentisce di aver parlato con monsignor Salerno. "Sa, la memoria fa brutti scherzi". Mari spiega però che la Lanterna sulla Cupola è da sempre un'ottima postazione per i fotografi. "Quando ci sono le udienze papali, la Lanterna viene chiusa al pubblico. Il 13 maggio 1981, quando ci fu l'attentato al Papa, sulla Lanterna c'era uno dei miei che fece una serie di foto. Riprese la jeep che si allontanava dalla Piazza con a bordo il Papa ferito. Foto che consegnammo alle autorità". Eppure Mari aiutò molto Wanda Poltawska nella sua inchiesta. Anche lui, come monsignor Salerno, e come il sacerdote Ennio Innocenti, sapeva bene di trattare con una persona di piena fiducia del Pontefice. Raccontò il monsignore: "Mari dopo il nostro incontro ha trattenuto queste fotografie e le ha unite a un dossier contenente altre fotografie riguardanti l'attentato al Papa, e la sua degenza all'Ospedale e udienze o cerimonie precedenti l'attentato. Tutto questo dossier è stato poi consegnato da Mari alla Poltawska".

 

Tutto ciò avveniva a caldo, nel giugno 1981. Oggi Mari continua a schermirsi. "Non ricordo granché. I giornalisti ne hanno avanzate di fantasie su questo attentato... Mi pare di rammentare solo qualche discorso sulla possibilità che un cecchino si sistemasse sulla Cupola... Oppure un fotografo... Mi sembra che un settimanale straniero, forse era "Stern", o forse era "Paris Match", non sono sicuro quale fosse la testata, uscì con una copertina dove c'era la figura del Papa nel centro di un mirino e la scritta: "Avremmo potuto sparargli"".

 

Di quelle foto misteriose non s'è mai saputo più nulla. Il dossier che Mari consegnò alla Poltawska non è mai stato reso pubblico. Tantomeno ne è stata data copia alla magistratura italiana. C'è persino da chiedersi se l'abbia mai avuto la Segreteria di Stato oppure se non sia conservato nella famosa valigia che Wanda Poltawska ha portato con sé in Polonia e che imbarazza tanto il Vaticano, al punto da aver rallentato il processo della beatificazione.

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