Benedetto XVI, teologo della dottrina sociale della Chiesa
La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa: la ragione senza la fede si smarrisce, come la fede senza la ragione anche sociale si atrofizza
Henri MADELIN – FEBBRAIO 2014
Un anno fa, l'11 febbraio 2013, Benedetto XVI stupiva il mondo annunciando la propria rinunzia al pontificato. Di lui per lo più si sottolineano la grande cultura e la predilezione a trattare questioni riguardanti la Chiesa cattolica, il contenuto dei suoi dogmi e la sua collocazione tra le altre Chiese. Poiché, prima di accedere al pontificato, il card. Ratzinger ha a lungo presieduto la Congregazione per la dottrina della fede, se ne ricordano i moniti contro le interpretazioni da lui giudicate contrarie a una certa "ortodossia romana". Si rammentano i suoi contrasti e i suoi richiami all'ordine nei confronti dei sostenitori di vari filoni della teologia della liberazione in America latina. La figura di Benedetto XVI non sembra dunque avere una particolare connotazione sociale.
Questa immagine però è incompleta, in quanto trascura l'apporto originale di questo Papa alla dottrina sociale della Chiesa, cioè il fatto di inserirla all'interno di una visione globale e personale che attinge l'essenziale delle sue risorse nei tesori della teologia. Questo pensiero può essere di sostegno ai cattolici, ma corre il rischio di sconcertare i fedeli di altre tradizioni e tutti coloro che si dichiarano emancipati da convinzioni religiose. In questo senso Benedetto XVI ha dato una sua impronta alla dottrina sociale della Chiesa, specialmente con la pubblicazione, il 29 giugno 2009, dell'enciclica Caritas in veritate. In essa egli si rivela un analista acuto dei meccanismi di funzionamento della società, ma la sua originalità si manifesta ancora di più nella preoccupazione costante di sottolineare la dimensione antropologica e teologica dei problemi che l'umanità si trova ad affrontare in un periodo di crisi che si inserisce in una dinamica di globalizzazione galoppante.
Caritas in veritate
Già la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est (2005), insisteva sul rapporto tra giustizia e carità, sui compiti diversi che spettano alla Chiesa e alla politica, sul posto e sul ruolo dei laici cristiani nelle organizzazioni della società civile. Nell'attuale clima secolarizzato, i laici sono invitati a conciliare esigenze che non sempre sono armonizzate: competenza professionale, rifiuto di piegarsi al giogo delle ideologie, audacia nel proclamare la propria fede, ripulsa di ogni proselitismo (DC, nn. 30-37).
Dopo la pubblicazione nel 2007 dell'enciclica Spe salvi, dedicata alla speranza, nel 2009 Benedetto XVI pubblica la Caritas in veritate, lettera enciclica «sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità». La preparazione di questo documento, originariamente previsto per celebrare il quarantesimo anniversario della Populorum progressio di Paolo VI (1967), è stata laboriosa. Parecchi progetti preparatori sono stati abbandonati per l'esigenza di adattare il contenuto alla nuova situazione creata dalla crisi globale. Ma il documento, che ha avuto risonanza nel mondo intero, non è tanto una analisi della crisi quanto una visione filosofica e, soprattutto, teologica delle carenze e degli errori che hanno condotto al blocco. Il Papa parla più del "perché" che del "come", facendo appello alle esigenze della coscienza piuttosto che proponendo ricette. Sottolinea che una parte dei disordini attuali deriva da una pericolosa finanziarizzazione dell'economia e da una sofisticazione degli strumenti monetari, che richiedono un intervento politico di regolazione più deciso: un atteggiamento coraggioso che rompe con gli inni encomiastici intonati dai fautori dell'iperliberalismo. Infatti Benedetto XVI, quando ne avverte il bisogno, non esita a denunciare carenze ed emergenze della situazione planetaria: ne fa fede il tono della lettera indirizzata all'allora primo ministro britannico Gordon Brown alla vigilia del G20 di Londra nell'aprile 2009.
Nella scia dei suoi predecessori, a partire da Giovanni XXIII e dalla sua enciclica Pacem in terris (1963), egli riafferma nella Caritas in veritate la necessità di istituire una vera «autorità politica mondiale» (CV, n. 67), anche se in un modo forse ancora troppo sobrio. Il documento infatti propone più il modello della cooperazione tra i governi che l'integrazione tra le nazioni, prendendo come riferimento implicito l'ONU più che l'Unione europea, ma le caratteristiche di questa autorità mondiale, quale è richiesta dalla Caritas in veritate, esprimono grandi esigenze: «Una simile autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità» (ivi).
Amore e verità si incontrano
La missione che Benedetto XVI si attribuisce non è innanzitutto quella di collocarsi sul terreno proprio dei responsabili politici, degli imprenditori, dei banchieri, ma quella di ridestare le coscienze alle sfide del presente che non possono restare circoscritte a livelli puramente tecnici. L'intento è più una interpretazione teologica che una analisi descrittiva. Per questo l'enciclica, documento lungo e denso, parla dall'inizio alla fine di amore, di verità, di senso di responsabilità. Indirizzata alle varie componenti della Chiesa cattolica, ma anche a «tutti gli uomini di buona volontà», essa li invita a concentrarsi «sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità». Si tratta di compiere un'opera di apertura e di discernimento. L'umanità deve ormai uscire da ottiche troppo anguste per gettare le basi di una «nuova sintesi umanistica» (CV, n. 21). Collocarsi in una simile prospettiva significa non escludere nessuno a priori e invocare la necessità di un dialogo senza frontiere.
Teologo, accademico di grande valore, il Papa dà inizio al suo discorso elevando il dibattito a dimensioni piuttosto ignorate o rifiutate nel mondo attuale, quando parla di una eternità di Dio presente nel nostro mondo e nel cuore di ognuno. Fin dalle prime righe la Caritas in veritate precisa ciò che si deve intendere per coniugazione tra amore e verità: «L'amore – caritas – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impe-gnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. [...] Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità» (CV, n. 1). Per questa radice teologica unitaria, carità e verità non possono mai essere disgiunte: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano e universale» (CV, n. 3).
«La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa» (CV, n. 2). È il portale di accesso alla comprensione di Dio, degli altri e del mondo: «È il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» (ivi). L'amore raggiunge il massimo di ampiezza, si allarga alle dimensioni del mondo. Con questa coniugazione tra il piccolo e il grande il Papa respinge quel carattere di sterilità che può esserci nella chiusura di ognuno nella propria cittadella individuale.
Per superare «le tendenze attuali verso un'economia del breve, talvolta brevissimo termine» (CV, n. 32), la dottrina sociale della Chiesa insiste sulla saldatura tra amore e verità, «un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale» (CV, n. 6). Tale dottrina comporta una «dimensione interdisciplinare» (CV, n. 31), una esigenza di discernimento, una visione globale, per elevarsi a una «dimensione sapienziale» (ivi).
Perché ritorni la fiducia, figlia dell'amore, occorre non vedere l'economia globalizzata come una fatalità, a condizione che essa esca dal proprio autismo e accetti al proprio interno la «logica del dono senza contropartita» (CV, n. 37). Ancora più fondamentalmente, «nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità» (CV, n. 36). Il Papa propone sostanzialmente di eliminare i compartimenti stagni tra terzo settore (caratterizzato dall'assenza di lucro), imprese (votate all'efficienza) e Stato (preposto alla ridistribuzione), al fine di creare nuove sinergie, di cui l'economia solidale è un esempio fecondo. In ognuno di noi deve rivivere anche l'esigenza della fraternità, poiché «l'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri» (CV, n. 43). Al di là del cattivo funzionamento dei sistemi si tratta di esaminare i comportamenti: rifiuto della trasparenza, cupidigia, sete del guadagno sempre insoddisfatta, accaparramento dei beni, sottomissione all'«assolutismo della tecnica» (CV, n. 77), ecc., conseguenze ultime del «peccato delle origini» (CV, n. 34).
Fede e ragione
Secondo una tematica cara a Benedetto XVI, che già occupava un posto importante nell'enciclica Fides et ratio (1998) di Giovanni Paolo II, cui certamente l'allora card. Ratzinger diede il suo contributo, la ragione priva della fede rischia di implodere. Ma, simmetricamente, la fede può soffrire di patologie proprie, se è priva del soccorso della ragione. Più avanti Benedetto XVI ribadisce il punto: «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità» (CV, n. 56).
Nel discorso tenuto al Parlamento tedesco il 22 settembre 2011, Benedetto XVI invita i parlamentari a riflettere sulle finalità dell'agire politico e sulle forme di legittimità necessarie per elaborare leggi in questa epoca di pluralismo. Parla anche di quella legge naturale che è nel fondo del cuore di ogni uomo, impronta in noi della legge eterna di Dio. Questo riferimento riscuote poco favore in ambienti diversi da quelli cattolici, eppure bisogna trovare le basi capaci di fondare una morale degna dell'uomo e valida per tutti gli uomini senza distinzione. A questo scopo il Papa domanda a ognuno di ascoltare il linguaggio della natura e di rispondervi con coerenza: «Anche l'uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L'uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L'uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura».
È in questo modo, attingendo alle risorse della filosofia e della teologia, che Benedetto XVI si fa analista del nostro universo globalizzato. «Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori – talora nemmeno i significati – con cui giudicarla e orientarla» (CV, n. 9). Al di là delle scienze e delle tecniche, una vita morale autentica e una spiritualità incarnata hanno più che mai bisogno di una alleanza duratura tra fede e ragione. La ragione senza la fede si smarrisce, come la fede senza la ragione si atrofizza.
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