1 giugno, Ritiro spirituale con la meditazione del Vescovo di Verona Domenico al Santuario dell Corona , per presbiteri e per i diaconi
Meditazione
«Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto» (1 Re 19, 11-18): "Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l'insegnamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnar al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna".
11Gli disse: "Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore". Ed ecco che il Signore passò.
Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma
il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12Dopo
il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera.
13Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna.
Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: "Che cosa fai qui, Elia?". 14Egli rispose: "Sono pieno di
zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno
demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di
togliermi la vita".
15Il Signore gli disse: "Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl
come re su Aram. 16Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Eliseo, figlio di Safat,
di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto. 17Se uno scamperà alla spada di Cazaèl, lo farà morire
Ieu; se uno scamperà alla spada di Ieu, lo farà morire Eliseo. 18Io, poi, riserverò per me in Israele
settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l'hanno
baciato".
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"Il sussurro di una brezza leggera"
È stato detto molto efficacemente che "compito del profeta è opporsi al re e, ancor più, alla
storia" (cfr. M. Buber, Israele e i popoli - 1933). Elia vive (IX secolo avanti Cristo) un tempo nel quale
i governanti di Israele si sono allontanati dal Dio vivo e vero per andare dietro a idoli e pratiche
aberranti. Elia sente ardere dentro di sé un fuoco di fronte all'allontanamento del popolo di Dio e di
fronte alle ingiustizie consumate. Il suo nome significa "YHWH è Dio" e non indietreggia rispetto agli
altri profeti, alla perfida Gezabele, salvo ad un certo punto fuggire da tutto e da tutti. Ma è sull'Horeb
che Dio lo attende per incontrarlo. Tutto comincia con un ordine perentorio: "Esci e fermati sul monte
alla presenza del Signore" (v. 11). Le teofanie sono vento, terremoto, fuoco, ma ogni volta si precisa
che Dio non era là. Alla domanda "Che cosa fai qui, Elia?" (v. 13b-14), la risposta del profeta sembra
una invocazione di aiuto. Confessa che si sente messo al centro; la situazione è un disastro; il popolo è
malvagio l'opposizione si è scatenata anche contro di lui. Elia si sente un po' l'ombelico del mondo e
Dio appare solo come un pretesto per esaltare sé stesso in mezzo al caos generale. Il fallimento di Elia
è la prova del fallimento di JHWH. Dio, da parte sua, lascia a Elia di dire la sua, pare quasi che lo
abbandoni al suo soliloquio egocentrico, geloso, senza solidarietà con nessuno. È che Elia ama Dio,
ma non il popolo di Israele. Grida, ma come per darsi forza. Evidentemente la domanda, posta tra l'altro
per la seconda volta, lo ha spiazzato e pure innervosito. Ma se Dio non era nel vento, nel terremoto,
nel fuoco dove si troverà mai? Il punto è che solo fuoriuscendo dalla caverna del suo egocentrismo
ipertrofico, potrà percepire Dio. Elia si era come messo al posto di Dio introducendo in modo ossessivo
quell'io che si ripete in modo enfatico. Sotto l'apparenza di difendere Dio manifesta una implosione
narcisistica, una chiusura del sé al mondo e al futuro. Per cui più che trasmettitore e mediatore è
diventato intralcio, col rischio di sfasciare tutto. Il mondo di Dio e la sua presenza sono meno nella sua
irruenza e più nella fedeltà nascosta e vigile di tanti (ben 7mila annota il testo per dire un numero di
totalità) che hanno conservato fedeltà anonima e sottotraccia.
Se applichiamo alla nostra esistenza di pastori immersi in un mondo che sembra ormai aver
voltato le spalle a Dio in nome di ciò che è soltanto visibile, utile ed urgente, ci rendiamo conto che
non possiamo sfuggire ad alcune domande.
Quali Gezabele o profeti di Baal ci ossessionano al punto che verrebbe voglia di mandare tutto
all'aria perché sembra inutile ed ostile?
Cercare Dio dentro certe turbolenze esteriori più che dentro certe pacificazioni interiori è più
frequente di quel che si immagini. Non è che mi rifugio fuori della storia, dando troppa importanza ai
miei fallimenti? Vogliamo che Dio ci rimandi alla vita e alla storia o il mondo è abitato da diavoli
scatenati, da pastori senza bastone, e noi siamo gli unici rimasti a tener fede alla tradizione genuina?
Come trovare il silenzio vero, il sussurro di una brezza leggera? Come stare in adorazione del
Dio che passa e fa udire la sua voce di novità? Come afferma RM, 91: "Il futuro della missione dipende
in gran parte dalla contemplazione. Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunziare il
Cristo, in modo credibile". Ho la consuetudine di starmene con Lui, di "parlargli cuore a cuore"
(Newman)?
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Quali sono, per contro, le voci assordanti che mi assicurano illudendomi che Dio è là fuori:
successo, vanità, soldi, potere, paure altrui? Sono capace di leggere i segni dei tempi del territorio, di
percepire gli "ultrasuoni" della fede dei poveri, dei semplici e dei piccoli?
Elia voleva finire la sua missione sull'Horeb. Dio lo rispedisce nel deserto, cioè nel luogo delle
origini. Sono forse anch'io come Elia, deluso e in fuga, stanco e infuriato contro tutti? Mi credo a posto
e migliore, anzi il più fedele, l'ultimo sopravvissuto della fede? Mi lascio sorprendere da Dio? "Bisogna
stare al gioco di Dio, al suo continuo mostrarsi e sottrarsi, farsi sentire presente e poi lasciare l'anima
con il sentimento dell'assenza, nella desolazione, affinché bruciata dal desiderio, sempre lo cerchi e si
tenga in vigile attesa del suo ritorno" (Anna M. Canopi).
"Camminare secondo lo Spirito"
Dobbiamo ritornare sui passi dello Spirito, se non vogliamo come Elia rassegnarci alla
contabilità della sociologia che dichiara ormai la religione in caduta libera e, con essa, il senso e la
possibilità del nostro servizio pastorale. Da dove ricominciare allora? Che cosa potrà restituirci un
nuovo desiderio di Dio? Che cosa può rigenerare la nostra vita? La risposta sta in un cammino di vita
ostinatamente condotto "alla presenza del Signore", come ha fatto il profeta Elia. Tale cammino fa
diventare "evangelizzatori con spirito", come richiesto espressamente da Evangelii gaudium (cfr. nn.
259-287). Vorrei definire nel concreto cosa significhi camminare secondo lo Spirito, a partire
dall'incontro fondamentale con Dio in Gesù che ci ha tirato fuori da noi stessi per toccare con mano il
punto più intimo e vero della nostra identità e della nostra unità. Vivere in Dio e con Dio tramite Gesù
è il senso dell'essere al mondo e la radice della missione che ha nella vita spirituale la sua radice e la
sua destinazione. Ciò sta a dire almeno quattro dimensioni: abitare con sé stesso, vivere la liturgia,
cogliere la presenza di Gesù nel povero, avere uno sguardo sulla realtà.
Habitare secum. Si comincia sempre da me. E precisamente dalla capacità di superare quella
tendenza diffusa all'accidia che oggi sembra talora diventare una malattia sociale. La pigrizia (l'acedia) è la prova del nostro allontanamento da Dio. E dice indolenza, noncuranza, svogliatezza e noia.
Essa si insinua anche nel credente, perfino nel pastore, che diventa inacidito di fronte a tutto ciò che è
spirituale. Perciò non sa affrontare le avversità e perde la fiducia; non è costante nelle cose e divaga
continuamente; non si lascia consolare dalla preghiera e va in cerca di falsi surrogati. Coltivare la
relazione con Dio è il primo compito pastorale di ogni autentico "operatore secondo lo Spirito". Tempi
di silenzio, ascolto di sé e dialogo interiore, ascolto della Parola, spazio per la meditazione e il dialogo
spirituale con un accompagnatore, tra pochi o in gruppo, occasioni di confronto comunitario: sono
alcune modalità per attivare un percorso spirituale che nasce anzitutto dall'impegno personale. Non ci
sono congreghe, formazione permanente, anni sabbatici che possano sostituire questa basilare forma
di attenzione al proprio sé.
Vivere la liturgia (cfr. Lettera Apostolica di papa Francesco, Desiderio desideravi, 29.6.2022).
La liturgia è lo spazio più esplicito in cui il Signore si manifesta e in cui siamo chiamati ad esercitare
il nostro servizio divino. E' anche il momento in cui la dimensione comunitaria trova la sua espressione
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più realistica al servizio della quale si pone la fatica di ciascuno di noi chiamato a radunare il popolo
santo di Dio non attorno a noi stessi. Per questo si richiede di entrare in profonda sintonia con le parole
e i gesti, i silenzi e le orme rituali della liturgia, e con cui il senso di ciò che viene da tutti compiuto
nella celebrazione di qualsiasi sacramento, in particolare durante la celebrazione eucaristica.
Cogliere la Presenza di Gesù nel povero. Stare alla presenza del Signore non si riduce ad una
fuga intimistica dalla realtà; al contrario, richiede lo sforzo di aderire ad essa con profonda
consapevolezza e secondo verità di fede. La presenza del Signore nei poveri è quel che si ricava dalla
celebre parabola matteana ((Mt 25,31-46), pena la falsificazione di ogni presunta spiritualità. Gesù
dichiara di celarsi e allo stesso tempo di identificarsi col povero. Non è, dunque, per una strategia
politica o di consenso che dobbiamo concentrare l'attenzione sugli svantaggiati, sui perdenti, sugli
scarti. Perché come affermavano i Padri antichi il povero è propriamente Vicarius Christi, ben prima
che il titolo fosse assegnato al papa.
Avere uno sguardo sulla realtà. Un'autentica spiritualità credente si manifesta in una nuova
capacità di guardare la realtà e di cogliervi la presenza di Dio. Tale sguardo consente di avvertire che
"il sugo della storia" (A. Manzoni) è Dio che conduce tutto in un dialogo misterioso e segreto che non
ci è dato di vedere, ma solo di intuire e di circondare di infinito rispetto nel desiderio esclusivo di non
ostacolarlo, ma di favorirlo. Lo sguardo però non è mai neutrale e costringe ad assumere una
responsabilità per ciò che pensiamo, diciamo, decidiamo, facciamo, o, al contrario, sfuggiamo. Una
spiritualità avulsa dal reale, compreso quello sociale e politico, è falsa e rischia di scadere nella
alienazione. In conclusione, la sfida che è sotto gli occhi di tutti non è pastorale, sociale, culturale,
economica. Ma, semplicemente, spirituale. E consiste nel ritrovare in noi stessi nuove energie per un
reale impegno, per tornare umani e autenticamente credenti, con quell'ardore di fede e di amore che
legano al Dio di Gesù Cristo
Vita spirituale è sapere di non essere mai arrivati. Come si ricava da una lunga lettera da
Barbiana dell'8 agosto 1959, intitolata "Un muro di foglio e di incenso", riferita ai vescovi ma
estensibile a tutti i pastori: "Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro
bene, cioè, che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di
non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità
maggiore che porta e per l'isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler
insegnare al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo
esperienza diretta e lui nessuna. L'ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo
quel popolo non lo conosce. L'ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da
far rabbrividire dieci vescovi non uno. L'ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio
che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo in cui può trattarci tutti
come scolaretti. Ed è il sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo
presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti su
cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L'ultimo di noi ne ha almeno uno
di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto" (L. Milani)
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