IV Domenica di Pasqua

IV Domenica di Pasqua (Gv 10,1-10) "Io sono la porta delle pecore"

Gesù, prima di designarsi come Pastore, dice: "Io sono la porta" (Gv 10,7). 

 

   E con nostra sorpresa nel Vangelo di oggi che siricorda che è solo attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore, di sacerdote. Gesùmette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: "Chi…sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10,1). Questa parola "sale" evoca l'immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. "Salire" – si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare "in alto", di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa che riempie il cuore, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece l'esserci per l'altro, per Cristo, e così mediante Lui e con Lui esserci per gli uomini che Egli cerca, che Egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il Sacramento -e ciò significa appunto: attraverso la donazione di sé stessi a Cristo, affinché Egli disponga di me; affinché io Lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miedesideri di autorealizzazione e stima. Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo e amarlo sempre più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostroagire diventi una cosa sola con il suo agire. Carissimi, per questa intenzione vogliamo pregare sempre di nuovo, vogliamo impegnarci proprio per questo, che cioè Cristo cresca in noi sacerdoti, che la nostra unione con Lui diventi sempre più profonda, cosicché per il nostro tramite sia Cristo morto e risorto, presente, Colui che pasce il popolo.

Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell'assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente ufficio, ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Nella sacra Eucarestia ogni giorno realizza questo, dona sé stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucarestia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tradi noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l'Eucarestia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte di croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l'Eucarestia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone sé stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, sé stesso. L'Eucarestia diventa per noi sacerdoti una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. La doniamo giorno per giorno tenendoci a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l'esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell'essere. Proprio così, nell'essere utile, nell'essere una persona di cui c'è bisogno nel mondo, la nostra vita di preti diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.

Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida séstesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola sacerdozio.

Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all'ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Conoscere, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. Conoscere significa essere interiormente vicino all'altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di conoscere gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell'amicizia di Dio.

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