Intervista a Suetta, Vescovo di SanRemo-Ventimiglia, non la pastorale ma il pastoralismo è estraneo alla fede cattolica
Nel pastoralismo c'è una ostilità sempre più accentuata verso i vescovi che oltre all'ascolto affermano la verità. Un vescovo "non può dimenticare nella pastorale il nativo compito di insegnare la dottrina cristiana".
Stefano Fontana nella "Nuova Bussola" – 17 aprile2023
In un nostro editoriale avevamo segnalato lo sconcertante silenzio dei vescovi italiani [QUI] davanti a leggi e politiche contrarie alla morale naturale e cristiana. Silenzio anche rispetto a prese di posizione molto problematiche della stessa gerarchia, come l'adesione del cardinale Matteo Zuppi alla legge 194 sull'aborto [QUI]. Ne abbiamo parlato con il vescovo di Sanremo-Ventimiglia, mons. Antonio Suetta, che ringraziamo per questa intervista.
Eccellenza, le sembra realistica l'osservazione secondo la quale i vescovi, sia insieme che come singoli, a parte qualche eccezione, rimangono in silenzio anche quando dovrebbero parlare?
Indubbiamente si nota come, rispetto a qualche decennio fa, gli interventi su temi dottrinali e morali tendano a diminuire e ad essere prodotti, quando capita, in forma più sommessa sia per quanto concerne l'episcopato nelle sue compagini nazionali sia riguardo ai singoli vescovi. Salvo pochi argomenti, prevalentemente questioni sociali contingenti, è raro sentire pronunciamenti riferiti a scelte politico-istituzionali o tendenze di costume decisamente propugnate indiscutibilmente dal mondo delle comunicazioni sociali, della cultura e della scuola.
Secondo lei questo dipende da fattori contingenti o personali o da un nuovo modo di intendere la funzione del vescovo nella Chiesa? In questo secondo caso, il loro silenzio sarebbe più preoccupante.
Non si può negare che invalga uno stile pastorale reso bene dall'immagine "in punta di piedi", desideroso di porsi "accanto" alle persone in una prospettiva più dialogante e "tollerante" in nome di una auspicata e maggiore inclusione e di rispetto per il ruolo della coscienza e per la gradualità dei singoli itinerari esistenziali.
Una tale sensibilità, costantemente stimolata da pervasive promozioni di attitudini omologanti e da una sempre più crescente antipatia per proposizioni veritative spesso degeneranti in posizioni persecutorie e marginalizzanti, può purtroppo indurre ad atrofizzare funzioni essenziali nel ministero di un vescovo. Il che deve preoccupare e suscitare opportune riflessioni.
La prima cosa che un vescovo appena eletto dice quando fa il suo ingresso nella (nuova) diocesi è che è venuto per ascoltare e imparare. Si tratta di un atteggiamento comprensibile, ma che spesso mette in secondo piano l'insegnare la vera dottrina, che è scopo principale del vescovo. I vescovi stanno un po' dimenticando di avere questo compito di insegnare?
Siamo davvero esposti al rischio di adottare acriticamente un gergo derivante da luoghi comuni, tanto diffusi e pervicaci quanto vuoti e talvolta fuorvianti, o perlomeno riduttivi. Va da sé che ogni esperienza di vita e di fede costituisce per i singoli e per le comunità una preziosa occasione di crescita, di conoscenza e di apprendimento. E, da questo punto di vista, è davvero bello che un pastore si riconosca in un cammino e in una storia di popolo segnata dalla grazia del Signore e dal dono della fraternità. Sant'Agostino lo ha sinteticamente espresso in una frase, che è rimasta famosa: "per voi sono vescovo, con voi sono cristiano". L'essere pienamente e primariamente un membro del popolo di Dio non può far dimenticare ad un vescovo il nativo compito di insegnare la dottrina, come ricorda il Decreto conciliare Christus Dominus: "Nell'esercizio del loro ministero di insegnare annunzino agli uomini il Vangelo di Cristo, che è uno dei principali doveri dei vescovi e ciò facciano, nella forza dello Spirito, invitando gli uomini alla fede o confermandoli nella fede viva. Propongano loro il mistero integrale di Cristo, ossia quelle verità che non si possono ignorare senza ignorare Cristo stesso; e additino contemporaneamente alle anime la via da Dio rivelata, che conduce gli uomini alla glorificazione del Signore e con ciò alla loro eterna felicità" (n. 12).
Il "pastoralismo" è oggi una malattia della Chiesa. La pastorale è frutto della carità nella verità e della verità nella carità, mentre il pastoralismo assegna alla pastorale un primato che non ha né può avere. Cosa ne pensa? Questo "pastoralismo", molto presente nella teologia contemporanea, danneggia la consapevolezza episcopale del proprio carisma ecclesiale?
Per comprendere adeguatamente il concetto di "attività pastorale" occorre ricondurlo ad un componente del "triplice munus di Cristo", che è il governo. Tale triplice configurazione alla persona e alla missione di Gesù - dono battesimale per tutti i figli di Dio – è oggetto di una specifica conformazione a Cristo Capo e Pastore, connotante il Sacramento dell'Ordine e, nella sua pienezza, il Vescovo, che è, in forza della sacra ordinazione, Maestro, Sacerdote e Pastore. Il governo, come bene ha mostrato la dottrina conciliare, non si esaurisce in una mera questione giuridica, ma deriva dalla grazia sacramentale e risulta profondamente connesso con gli altri aspetti del munus. Da ciò consegue che l'attività pastorale, non può essere una semplice "strategia" organizzativa, legata al mutare dei tempi, ma che è chiamata a tradurre in scelte di guida della Chiesa il tesoro dottrinale della divina rivelazione e la grazia feconda della liturgia.
L'idea, tipica del cosiddetto pastoralismo, che dalle esigenze di una prassi "al passo coi tempi" scaturiscano i presupposti di mutamenti dottrinali è molto pericolosa e completamente estranea alla fede cattolica.
Nella Chiesa si sta indebolendo la convinzione che i vescovi abbiano il compito di insegnare non solo circa le questioni di fede ma anche in quelle relative alla morale. Ciò forse dipende dal congedo in atto della teologia cattolica dal diritto naturale e, come Benedetto XVI ha segnalato fino alla fine della sua vita, dal giusnaturalismo cattolico. Può essere che i vescovi ormai pensino che intervenire sulle leggi dal punto di vista morale sia un atto ideologico e non di fede?
Spero di no, ma il rischio derivante dal relativismo pervasivo ed imperante è sempre in agguato. Concordo che l'antipatia e il rifiuto della dottrina filosofica della legge naturale tenda a scardinare la praticabilità di un corretto e fruttuoso dialogo con la cultura e con gli organismi istituzionali e legislativi. Il testo della Costituzione pastorale Gaudium et Spes chiarisce efficacemente: "Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti, è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte. Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio. Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza che egli se ne avverta viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono… Se invece con l'espressione «autonomia delle realtà temporali» si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto, tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa" (n. 36).
Sono profondamente convinto che, anche a costo di subire opposizioni e persecuzioni, un pastore non debba mai esimersi dal grave dovere di dire la verità nella sua integralità sia soprattutto proponendo la autentica dottrina della fede sia confutando con coraggiosa fermezza gli errori e le situazioni - talvolta ancor più pericolose – di confusione.
Mi sembrano sempre più vere e attuali le parole del compianto Card. Giacomo Biffi: "Il primo e più grande atto di carità che possa essere compiuto verso l'uomo è quello di dirgli le cose come stanno".
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