Il ritorno dell'Alleluia
Don Gérard Calvet in "Nuova Bussola" – 9 aprile 2023
Proponiamo la traduzione di un estratto dell'articolo Le retour de l'Alléluia, pubblicato nell'aprile 1982 dalla rivista francese Itinéraires, con lo pseudonimo Benedictus. Dietro questo nome, almeno fino al 1985, si nascondeva la penna di dom Gérard Calvet, futuro fondatore e Abate dell'Abbazia benedettina Sainte-Madeleine du Barroux. L'articolo è stato poi pubblicato nel primo volume di Benedictus. Écrites spirituels, Éditions Sainte-Madeleine 2009, 206-300.
La Santa Chiesa, come una madre diligente, utilizza mille industrie per ricordarci che siamo degli uccelli feriti, bisognosi di grandi spazi. Ella ci dice che siamo fatti per Dio, come l'uccello per il volo. Separati da Colui che è nel contempo la nostra origine, il nostro centro, il nostro fine, siamo come dei pesci sull'asciutto: qualche giravolta, poi due o tre sussulti più spenti, e alla fine l'immobilità sui fianchi, il triste battito delle branchie, l'asfissia e la morte.
L'uomo non sa perché vive; sa ancora meno perché muore. È per questo che la Chiesa non smette mai di richiamargli, con i suoi cantici, i suoi sacramenti e la sua liturgia, la verità primaria alla quale dobbiamo sempre ritornare: siamo in esilio!
Nulla di più commovente a riguardo dell'ingresso nella Settuagesima [1]: il ciclo annuale della liturgia in qualche modo si spezza; l'anello perfettamente circolare che esprime l'eternità subisce un urto, una rottura: la scomparsa dell'alleluja. La Chiesa, educatrice degli uomini, ogni anno offre loro questo mimodramma sacro, mediante il quale i suoi figli riprendono il cammino dell'esilio, con l'Israele dell'antica alleanza.
Per settanta giorni, che rappresentano i settant'anni dell'esilio babilonese, ogni anno riprendiamo la strada, armati di riti, di canti, di simboli, verso le regioni senza sole, lontani dalla città santa. «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: "Cantateci i canti di Sion!". Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra» (Sal. 136, 1-5).
La partenza per l'esilio è stato un avvenimento senza precedenti nella storia d'Israele […] Il Tempio incendiato e distrutto, gli ultimi re di Giuda portati via prigionieri, con gli occhi cavati, incatenati; è su questo sfondo tragico, carico di simboli forti, che la Chiesa ritaglia gli elementi della sua preghiera e del suo insegnamento; è su questo orizzonte della storia che viene ad inserirsi, come in sovrimpressione, la santa Quaresima, ispirata dai quaranta giorni di digiuno di Gesù Cristo nel deserto.
Poi viene la notte di Pasqua, memoriale di quest'altra «notte veramente beata, che sola – come canta l'Exsultet – ha meritato di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo è risorto dagli inferi!». E' durante questa notte della veglia pasquale che il suddiacono, dopo il canto dell'Epistola, s'inclina profondamente e annuncia il ritorno dell'alleluja con queste parole: Reverende Pater, annuntio vobis gaudium magnum quod est: Alleluia! [2] In passato, nel Medioevo, le liturgie, spesso prolisse, permettevano alla gioia di avere libero corso, con l'inatteso intermediario di un bambino vestito di bianco, che simboleggiava l'alleluja di Pasqua; il bambino girava liberamente, dall'altare ai fedeli, fino alla fine della Messa, sotto gli occhi di tutti. I nostri padri amavano guardare, ascoltare, percepire; sapevano fare uso dei cinque sensi affinché nulla fosse escluso dall'offerta che facevano salire al Signore.
La liturgia, con dita divine, saprà lasciar cadere ciò che è secondario, mantenendo solo ciò che è universale. Il diacono, dopo l'annuncio del gaudium magnum, porta al celebrante la prima antifona dell'alleluja. Questi l'intona per tre volte su una nota ogni volta più alta. La melodia è breve; il procedere sobrio ma suggestivo. Nel santuario e nella navata, la comunità attende le prime note di quell'alleluja, che era sparito per settanta giorni. L'effetto prodotto non è quello di un colpo di cembalo, ma di una dolce, esitante, forse timida nascita [3] […] Il crescendo si eleva gradualmente; il canto esita a prendere il suo volo e le ali dell'alleluia, alle quali è rimasto attaccato un po' di sangue, si aprono tremule; le note si staccano a stento negli intervalli sol la si sol la sol, prima di lanciarsi fino al do, con un movimento dolce e ampio, che esprime riposo e pienezza. Qui si tocca il miracolo del gregoriano.
Ciò che rappresenta per una comunità monastica la ricomparsa dell'alleluia nella notte di Pasqua, e il diluvio dei vocalizzi che si succedono per tutto il tempo pasquale, non è traducibile con parole.
L'alleluia è la nostra atmosfera. Noi riprendiamo vita. Il segno palpabile della nostra vocazione celeste è riapparso sulle nostre labbra, nel nostro respiro, nelle nostre orecchie, davanti ai nostri occhi. In cielo, dice sant'Agostino, noi grideremo: Amen, Alleluia! Amen che significa: il Signore ha compiuto le sue promesse; Alleluia: lodate Dio. Non siamo ancora in cielo, ma per la gratuità dell'amore, una parte di voi, che cresce ogni giorno, vi si trova già trasportata: l'alleluia è per noi ninna nanna, epitalamio, accompagnamento, musica interiore, canto di cammino. E per dire tutto, secondo un detto antico, siamo noi stessi degli alleluia viventi.
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