Luci e ombre sulla Grotta di Betlemme
Cristina de Magistris in "Corrispondenza Romana" – 21 dicembre 2022
«Toglietemi dagli occhi questi spregevoli panni e questa capanna indegna del Dio che adoro!». Così l'eretico Marcione, già nei primi secoli, reagiva davanti al mistero di Betlemme. Ma quei panni e quella capanna noi li adoriamo, poiché riflettono i gusti di Dio, la Sua sapienza, la Sua gloria e, soprattutto, il Suo amore. È pur vero che l'iconografia, come l'arte e la poesia in genere, hanno spesso rappresentato la povertà e l'abbassamento della Nascita del Redentore avvolta di luce, di splendore e di Angeli osannanti e adoranti. Ma fu così che avvenne la Nascita del Redentore? Il dato rivelato non sembra affermarlo. San Luca, con brevi ma sublimi pennellate, così descrive quell'evento in cui l'Eterno entrò nel tempo: la Vergine «partorì il suo figlio primogenito e lo adagiò in una mangiatoia»(Lc 2,7).
Con poche parole viene descritto l'avvenimento più grande della storia umana. Esse rivelano anzitutto il parto verginale della Madre di Dio. «Non vi fu alcun dolore né alcuna corruzione bensì la massima letizia per il fatto che l'uomo Dio era nato al mondo», afferma l'Aquinate. Non v'è dubbio che la gioia più pura e più alta, al di sopra di ogni umana comprensione, invase l'anima della Vergine nel vedere per la prima volta Colui che sovranamente adorava come Dio e teneramente amava come Figlio. La mente umana non può penetrare nel sacrario del cuore della Vergine per carpire i benché minimi riflessi di quella gioia ineffabile e divina. Ma ad essa si congiunse subito il dolore più acuto. «Il rigido freddo – scrive mons. Landucci –, l'oscurità della notte, le esalazioni della stalla, lo sporco delle pareti, il fiato degli animali, quel po' di paglia preparato nella mangiatoria: mentre tutto lo splendore dell'universo raccolto in una sola reggia non sarebbe stato degno di Lui. La mancanza nella Vergine SS.ma di qualsiasi dolore fisico nel dare alla luce Gesù fu largamente compensata dall'intenso dolore morale. Anche Maria, quindi, in questo senso, con indicibile strazio diede alla luce il Salvatore».
Alla gioia più pura si unì dunque il dolore più acuto, ma si trattava di un dolore amoroso poiché, come afferma san Girolamo, più profondi appaiono gli abbassamenti di Dio, più obbligano ad amarlo.
Sembrano perciò improbabili – secondo il Landucci – le descrizioni di luce irradiante dal Bambinello che avrebbe inondato la grotta, di canti e di Angeli, poiché tutto questo avrebbe eliminato quella suprema abiezione che il Divino Fanciullo aveva eletto, scegliendo, come dimora e culla, la stalla e la mangiatoria, per ammaestrarci, infiammarci di amore riconoscente, e redimerci. Proprio come sul Calvario ci furono solo pianto e dolore, inquadrati nelle manifestazioni onnipotenti, ma paurose, delle tenebre e del terremoto.
Non v'è da dubitare che tutta la corte celeste circondasse la culla di Betlemme. Ciò che mancava era quello splendore esterno che avrebbe trasformato l'abiezione di Betlemme in una gloria di Paradiso. La luce e lo splendore di Betlemme sono tutte interiori, e il testo sacro, tacendo ogni visibile meraviglia, sembra insinuare che la vera gloria del Figlio di Dio stia nel Suo abbassamento.
San Luca nota con precisione che gli Angeli avevano annunciato la Nascita del Salvatore ai Pastori, ma i celesti messaggeri non sono presenti nella grotta. Anzi, il segno dato per trovare il Dio fatto uomo e appunto «un Bambino in fasce che giace in una mangiatoia» (Lc 2,11).
Ma anche l'annuncio degli Angeli ai Pastori getta un'ombra sulla gioia ineffabile di Betlemme. Nella loro esultanza avevano esclamato quell'immortale Gloria in excelsis Deo et pax hominibus bonae voluntatis, destinato a perpetuarsi in ogni santa Messa. La pace, che il Bimbo di Betlemme viene a portare, non è per tutti, ma solo per gli uomini del buon volere, che esegeti come il Martini interpretano come "coloro per i quali il Signore ha buona volontà", cioè gli eletti, i predestinati. Se Cristo nasce per tutti, non a tutti porta la salvezza. Il canto degli Angeli è dunque un canto dirimente. Il messaggio degli Angeli è – come si suol dire oggi – divisivo.
La conferma è subito data. A pochi chilometri dalla povertà di Betlemme si erge sontuoso il palazzo di Erode. Chi si fosse posto a metà strada tra quel palazzo e quella grotta avrebbe visto questo tremendo contrasto. Allo sfarzo goliardico e peccaminoso della Corte di Erode il grande, si opponeva la mangiatoia umile e povera del Re del Cielo, trono del trionfo di Dio contro la regalità corrotta della terra che quella corte ben rappresentava.
Nel mistero di Betlemme si delinea un chiaroscuro transluminoso, per usare un'espressione cara a Garrigou-Lagrange, che caratterizzerà tutta la vita del Redentore e della divina Madre. Nasce il Salvatore, ma nasce come segno di contraddizione. Porta la pace, ma non a tutti: ecco la prima discriminazione, che Egli espliciterà nel suo ministero: «non sono venuto a portare la pace – disse – ma la spada» (Mt 10, 34). Come, del resto, non vederla subito realizzata nell'atteggiamento di Erode che con la sua corte, anzi con tutta Gerusalemme, "si turbò" per la nascita di questo Bambino? Ad Erode e alla sua corte – come a tutti gli erodi e le corti che essi rappresentano – la nascita di quel Bambino non portò pace, ma la spada sanguinosa della colpevole strage degli innocenti. Le gioie di Betlemme sono frammiste al dolore più profondo, le luci si alternano alle ombre. Ciò non deve offuscare la caratteristica gioia che pervade il Natale, ma spingere a non fermarsi ad essa per andare oltre. Dietro la culla di Betlemme c'è, inseparabile, l'ombra della croce della Calvario. «Dietro il legno della mangiatoia di Betlemme si innalza gigante il legno salutifero della Croce», aveva detto Pio XII nel 1943. Non possiamo scindere questi due misteri. Quel delizioso e incantevole Bambino è nato per morire a causa dei nostri peccati. Quando ci avviciniamo al Presepe, ricordiamolo, e allora il Natale sarà un vero Natale.
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