Concistoro
Roberto de Mattei, in "Corrispondenza Romana" – 31 agosto 2022
Esiste un rapporto tra grazia e natura analogo a quello tra fede e ragione. C'è squilibrio, quando c'è fede senza ragione o grazia senza natura, e viceversa, ma il perfetto equilibrio non consiste nel mettere queste realtà sullo stesso piano; consiste, al contrario, nel metterle nel loro legittimo ordine, subordinando la natura alla grazia, di cui la prima è il presupposto, così come il presupposto della fede è la ragione, che però alla fede è sottomessa.
Questo ci aiuta a capire che cosa significa "spirito di fede" o "spirito soprannaturale", a seconda che ci si riferisca al primato della fede sulla ragione o della grazia sulla natura. Significa non rinunciare al ruolo indispensabile di ragione e natura, ma vedere tutte le cose con gli occhi della fede, aspettando perfino l'impossibile dall'azione della grazia.
Oggi questo spirito di fede è smarrito nel popolo cristiano, a cominciare dai suoi vertici ecclesiastici. Allo spirito di fede e soprannaturale si è sostituito lo spirito politico, che è quello con cui il cristiano pretende di comprendere la realtà con la sola ragione e di intervenire su essa senza ricorrere all'azione decisiva della grazia.
Papa Francesco ha ricordato più volte che i veri riformatori della Chiesa sono i santi, eppure il suo approccio ai grandi temi del mondo appare sempre politico, e dunque "mondano" più che soprannaturale e mosso da spirito di fede. Questo approccio "politico" ha dominato l'ultimo Concistoro che si è tenuto in Vaticano il 29 e 30 agosto, alla presenza di circa 180 cardinali, e che è stato una grande occasione mancata di affrontare i gravi problemi che affliggono oggi la Chiesa. Al centro della riunione dei cardinali era ufficialmente la riforma della Curia proposta dalla nuova Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, ma di fatto il Papa ha impedito ai cardinali di pronunciarsi in seduta comune su questo e su altri temi, mettendo loro, come si suol dire, una museruola.
Il Concistoro è una riunione del Papa con i cardinali, che a norma del Codice di Diritto Canonico (canoni 349-359), sono i suoi primi consiglieri. Da almeno sette anni papa Francesco non ha permesso che in questa solenne riunione i cardinali possano prendere la parola per esprimere la propria opinione. Tutti si aspettavano che ciò accadesse nella riunione di fine agosto ma il Concistoro, per volere del papa, è stato frammentato in gruppi linguistici, paralizzando i cardinali e impedendo quel dialogo franco e diretto che era avvenuto, per l'ultima volta, nel febbraio del 2014.
Questa verità ci viene ricordata da un eminente porporato e grande storico, il cardinale Walter Brandmüller, La sua voce, che non si è potuta sentire nell'aula del Concistoro, sta infatti rimbombando fuori di esso. Il vaticanista Sandro Magister ci ha permesso di conoscerla, pubblicando l'intervento che il cardinale aveva preparato, ma che non gli è stato consentito di pronunciare (http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2022/08/31/esclusivo-brandmuller-in-concistoro-il-papa-vuole-chiudere-la-bocca-ai-cardinali/).
Il cardinale Brandmüller ricorda nel suo documento la funzione dei cardinali, espressa dal Diritto Canonico, che anticamente trovò una sua espressione simbolica, nel rito di «aperitio oris», di apertura della bocca. Un rito, ha spiegato il cardinale, che «significava il dovere di pronunciare con franchezza la propria convinzione, il proprio consiglio, soprattutto nel concistoro. Quella franchezza – papa Francesco parla di "parresía" – che all'apostolo Paolo fu particolarmente cara. Per ora, purtroppo, quella franchezza viene sostituita da uno strano silenzio. Quell'altra cerimonia, della chiusura della bocca, che seguiva alla "aperitio oris", non si riferiva alle verità di fede e di morale, ma ai segreti d'ufficio».
«Oggi però – aggiunge il cardinale Brandmüller – bisognerebbe sottolineare il diritto, anzi, il dovere, dei cardinali di esprimersi chiaramente con franchezza proprio quando si tratta delle verità di fede e di morale, del "bonum commune" della Chiesa. L'esperienza degli ultimi anni è stata tutt'altra. Nei concistori – convocati quasi solo per le cause dei santi – venivano distribuite schede per chiedere la parola, e seguivano degli interventi ovviamente spontanei su qualsiasi argomento, e basta. Non c'è stato mai un dibattito, uno scambio di argomenti su un tema preciso. Ovviamente una procedura del tutto inutile», malgrado il primato del successore di Pietro, non escluda per niente «un dialogo fraterno con i cardinali, i quali "sono tenuti all'obbligo di collaborare assiduamente col romano pontefice" (canone 356). Quanto più gravi e urgenti sono i problemi del governo pastorale, tanto più necessario è il coinvolgimento del collegio cardinalizio».
Il cardinale, da storico della Chiesa qual è, così continua: «Quando Celestino V, nel 1294, rendendosi conto delle circostanze particolari della sua elezione volle rinunciare al papato, lo fece dopo intensi colloqui e col consenso dei suoi elettori. Una concezione dei rapporti tra papa e cardinali del tutto diversa fu quella di Benedetto XVI, che – caso unico nella storia – la sua rinuncia al papato, per motivi personali, la fece all'insaputa di quel collegio cardinalizio che lo aveva eletto. Fino a Paolo VI, che aumentò il numero degli elettori a 120, c'erano soltanto 70 elettori. Questo aumento del collegio elettorale a quasi il doppio era motivato dall'intenzione di andare incontro alla gerarchia dei paesi lontani da Roma e onorare quelle Chiese con la porpora romana. La conseguenza inevitabile era che venivano creati dei cardinali i quali non avevano nessuna esperienza della curia romana e perciò dei problemi del governo pastorale della Chiesa universale. Tutto ciò ha delle conseguenze gravi quando questi cardinali delle periferie sono chiamati all'elezione di un nuovo papa».
La situazione attuale è che «molti, se non la maggioranza degli elettori, non si conoscono a vicenda. Ciononostante sono lì ad eleggere il papa, uno tra loro. È chiaro che questa situazione facilita le operazioni di gruppi o ceti di cardinali per favorire un loro candidato. In questa situazione non si può escludere il pericolo di simonia nelle varie sue forme». Il documento del cardinale si conclude con una proposta: «Alla fine, mi pare che meriti una seria riflessione l'idea di limitare il diritto di voto nel conclave, per esempio, ai cardinali residenti a Roma, mentre gli altri, sempre cardinali, potrebbero condividere lo "status" dei cardinali ultraottantenni».
Parole chiare, inequivocabili, che dovrebbero far riflettere tutto il Collegio cardinalizio.
Il rifiuto, da parte di papa Francesco, di dare la parola ai cardinali, nasce dalla prospettiva politica e mondana del suo pontificato. Egli teme che una discussione libera e aperta possa indebolire l'esercizio del suo potere, non rendendosi conto che la verità non può mai danneggiare la Chiesa o le anime ad Essa sottomesse. Lo spirito di fede, che si oppone a quello politico, consiste proprio nel cercare in tutte le cose ciò che c'è di più alto e di più elevato, ciò che più corrisponde alla gloria di Dio e al bene delle anime, regolandosi sempre secondo i dettami del Vangelo.
L'alternativa è tra la Verità del Vangelo e il potere del mondo. Proclamare la verità del Vangelo non significa parlare di immigrazione o di emergenza climatica, ma dei "Novissimi" – morte, giudizio, inferno e paradiso – e della Divina Provvidenza, che regola tutte le vicende dell'universo creato. Proclamare il Vangelo significa condannare, con la voce della Chiesa, il peccato, soprattutto quello pubblico, a cominciare dall'aborto e dalle dottrine LGBT, che sono considerate dal mondo "conquiste civili". Significa parlare di santità, e non di sinodalità, perché è dalla santità e non dai meccanismi politici che comincia la necessaria riforma all'interno della Chiesa: riforma degli uomini che la compongono, non della sua divina e immutabile costituzione.
Ora una coltre di silenzio è calata sul Concistoro. E il silenzio di chi dovrebbe parlare è il maggiore castigo che Nostro Signore può infliggere alla sua Chiesa.
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Roberto de Mattei
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