XV Domenica

 

"Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?" (Lc 10,25). Sapendolo esperto nelle Sacre Scritture, il Signore invita quell'uomo a dare lui stesso la risposta, che infatti egli formula perfettamente, citando uniti i due comandamenti principali: amare Dio con tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze, e amare il prossimo come se stessi. Allora il dottore della Legge, quasi per giustificarsi, chiede: "E chi è mio prossimo?" (Lc 10,29). Di per sé, non tutte le persone sono il mio prossimo. "Prossimo" infatti vuol dire che ci è molto vicino; i lontani non sono il nostro prossimo. Allora, fino a che punto si deve andare nel considerare le persone nostro prossimo? Basta amare le persone della propria famiglia? O bisogna amare anche quelle della propria città, della propria nazione? Secondo la mentalità degli ebrei, non si può andare più in là di questo punto. Ad ogni modo, il dottore della legge vuole conoscere un limite. Questa volta, Gesù risponde con la celebre parabola del "buon Samaritano" (Lc 10, 30-37), per indicare che sta a noi farci "prossimo" di chiunque incontriamo bisognoso di aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno sconosciuto, di "un uomo che scendeva da Gerusalemme e Gerico …": non specifica se è ebreo, o samaritano, o pagano; non dice quali sono le sue opinioni, le sue credenze, ecc. Di questo personaggio sappiamo soltanto che è "un uomo", che scendeva da Gerusalemme a Gerico e s'imbatte nei briganti, che spogliano, lo percuotono e poi se ne vanno, lasciandolo mezzo morto. Si tratta dunque di un uomo che si trova in una situazione di estrema necessità. Questo è tutto ciò che si sa di lui.

Il Samaritano, infatti, potendolo si fa carico, "prossimo", della condizione di uno sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la strada; mentre un sacerdote che probabilmente non vuole avere contatto con il sangue di un ferito perché questo lo renderebbe inabile a compiere le cerimonie del culto e anche un levita che scende per quella strada, vede quell'uomo bisognoso, ma passa oltre dall'altra parte, non si fa prossimo, sempre pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si sarebbe contaminato. La parabola, pertanto, ci induce alla conversione cioè ci induce a trasformare la nostra mentalità nel farci prossimi in chi incontriamo bisognosi secondo la logica di Cristo, che è la logica della carità, dell'amore del Padre per tutti i suoi figli: Dio è amore, e rendergli culto significa divenire prossimi a tutti i fratelli che incontriamo bisognosi con amore sincero e generoso che ci garantisce la vita eterna anche perdonandoci i peccati per l'amore gratuito.

Questo meraviglioso racconto evangelico a monte dell'esplosione storica della carità cristiana offre il "criterio di misura", cioè "l'universalità dell'amore verso il bisognoso incontrato "per caso" (Lc 10,31) con cui farsi prossimo chiunque egli sia" (Deus caritas est,25). Accanto a questa regola universale, vi è anche un'esigenza specificamente ecclesiale: che "nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno" (ibid.). Occorre non dimenticare anche, ricorda la presunta apparizione della Madre del lungo cammino, chi è in purgatorio, nel pre-paradiso bisognoso del nostro aiuto. Il programma del cristiano, appreso dall'insegnamento di Gesù e che risorto sacramentalmente presente rende possibile, è "un cuore che vede" dove c'è bisogno, essere prossimi dove c'è bisogno di amore, e agisce in modo conseguente (ivi,31). Regina dell'amore rendici coscienti.

    

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