La fallacia del positivismo giuridico
Daniele Trabucco, in "La Nuova Bussola" – 3 Maggio 2022
Il bene si fonda sull'essere e, dunque, esiste un'ontologia alla base dell'etica. È questa la caratteristica tipica della filosofia classica opposta a quella moderna la quale riconosce, invece, una antropologia basata su una fenomenologia. Così, partendo dalla c.d. «legge di Hume» o fallacia naturalistica, si sostiene l'idea che dall'essere («natura») solo per errore («fallacia») si possa dedurre il dovere, l'agire.
Kant (1724-1804) ed il neopositivismo, si vedano Hans Kelsen (1881-1973) e Norberto Bobbio (1909-2004), ammisero il dualismo tra fatti e norme ed affermarono come dall'essere non possa derivare il dover essere, dal momento che il descrivere non è prescrivere e informare non è comandare. Il diritto, dunque, è un problema formale distinto da quello del valore. In questa prospettiva, le disposizioni normative sono puri fatti o dati sociali: non esiste un'idea di giustizia chiamata a guidare la legislazione, sicché la politica del diritto va discussa in una prospettiva meramente relativistica, cioè in relazione ai valori ipotetici accettati di fatto dai gruppi sociali più influenti su basi puramente emozionali, soggettive, arbitrarie. In questo modo si perviene al nichilismo per il quale ogni preferenza, ogni comportamento etico-giuridico non ha maggiore legittimità di un altro.
In altri termini, si assiste alla identificazione del fatto fisico della forza con il valore morale del diritto, come sosteneva Spinoza (1632-1672), il quale, osservando che i pesci piccoli sono destinati ad essere mangiati da quelli grossi, conclude che essi fanno questo «summo naturali iure». Il diritto naturale moderno, pertanto, viene definito, continua Spinoza nel Trattato teologico-politico, non dalla ragione dell'uomo, ma «dalla cupidigia e dalla potenza».
È evidente, secondo l'assiologia moderna, che i fautori del diritto naturale classico passerebbero illegittimamente dal piano naturale al piano normativo, dal «sein» al «sollen». Il passaggio dall'essere al dover essere comporterebbe, in altri termini, un'applicazione del principio di causalità alla morale con la conseguenza, riprendendo l'esempio di Spinoza, che il dato sperimentale per cui i pesci grossi divorano quelli piccoli non implica che il comportamento dei pesci sia buono o cattivo.
Ora, tale punto di vista non esaurisce la conoscenza della natura e comporta un'erronea applicazione del principio di causalità. Infatti, quando si deduce il dover essere dall'essere, l'operazione non avviene sul piano dell'esistenza, ma su quello dell'essenza o, se si vuole, sul piano dell'esistenza ma in base all'essenza (la quidditas). Dall'essenza di un pesce grosso non deriva, logicamente, che esso debba mangiare un pesce piccolo. Il dover essere, allora, sul piano dell'azione è deducibile dall'essenza solo quando, per ipotesi, è l'essenza che determina il modo di essere.
La legge di Hume è sostenibile unicamente in una visione del reale puramente materialistica, fenomenica ed empirica, ma, lo scrive magistralmente il compianto prof. Enrico Berti (1935-2022) in «Le vie della ragione» del 1987, «da una premessa descrittiva di tipo teleologico, la quale esprime un essere che è insieme un dover essere (il fine è già inscritto nella struttura dell'ente considerato), è perfettamente legittimo, anche da un punto di vista logico, dedurre una conclusione prescrittiva o normativa…fondando in tal modo l'etica e la politica».
(*) Costituzionalista
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