II Domenica o della Divina Misericordia (Gv 20, 19-31)
Il Vangelo di Giovanni ci racconta che il giorno dopo Pasqua Gesù appare ai suoi discepoli nel Cenacolo messo a disposizione loro dal ricco Nicodemo. I discepoli si sono ritirati lì per timore dei giudei. Ma nonostante le porte chiuse, Gesù in persona viene e si ferma in mezzo a loro.
Gesù risorto non è più condizionato dalle necessità materiali della nostra vita: le porte chiuse non possono fermarlo. Egli può rendersi presente dove vuole e quando vuole; o, più esattamente, può rendersi visibile come e quando vuole, dal momento che la sua umanità risorta unita alla divinità si fa presente dappertutto.
E Gesù risorto si rende visibile per portare la pace, la gioia e il dinamismo apostolico.
Le prime parole che egli dice ai discepoli sono: "Pace a voi". Questo è il saluto abituale degli ebrei, ma sulla bocca del Risorto acquista un significato molto importante e profondo.
Gesù porta realmente la pace; anzi, come dice Paolo, "egli è la nostra pace" (Ef 2,14), perché nella sua umanità trasfigurata ha realizzato e realizza la riconciliazione, la misericordia tra gli uomini e Dio, vincendo il peccato e la morte. Le forze ostili all'uomo sono state annientate, e così egli può portare la pace soprattutto nella Confessione.
I discepoli hanno un grande bisogno di questa sua pace, perché si trovano nel mondo in una situazione di inquietudine, di preoccupazione e di paura.
Gesù viene, si fa presente in mezzo a loro, ma non rivolge nessun rimprovero. Tutti i discepoli erano fuggiti dopo la sua cattura; Pietro lo aveva rinnegato. Tuttavia Gesù non li rimprovera, ma trovandoli pentiti porta loro la pace della misericordia.
Per indicare la sorgente misericordiosa di questa pace, Gesù mostra loro le sue mani e il suo costato, cioè le sue piaghe. "Per le sue piaghe noi siamo guariti", leggiamo nel terzo canto del Servo sofferente (Is 52,13-53,12). Le mani e il costato di Gesù sono la sorgente, anche adesso soprattutto nel Sacramento della Confessione, perché sono la manifestazione del grandissimo amore del Signore più grande di ogni peccato, se pentiti.
Ma l'evangelista Giovanni fa notare che Tommaso non era con gli altri discepoli quando, otto giorni dopo, si è reso visibile Gesù in persona. I discepoli gli riferiscono: "Abbiamo visto il Signore, abbiamo visto le sue piaghe", ma egli non vuole crederci. La risurrezione di Gesù è un evento unico, straordinario, inaspettato, che non rientra nelle prospettive umane abituali. E con la volontà, senza ancora l'intelletto, Tommaso non vuole credere, e per credere mette una condizione. Egli infatti non dice: "Se non vedo il volto di Gesù, se non sento la sua voce, non crederò", ma: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel posto dei chiodi e non allungo la mia mano nel suo costato, non crederò".
Otto giorni dopo avviene un'altra apparizione di Gesù nel cenacolo, a porte chiuse, e questa volta è presente Tommaso e lo invita a mettere il dito nelle sue mani, a stendere la mano e metterla nel suo costato, e a non essere incredulo, ma credente. A questo punto tutte le resistenze di Tommaso cadono di colpo e fa una magnifica professione di fede, la più bella che ci sia nei Vangeli: "Mio Signore e mio Dio!" In questo momento rinnoviamo anche noi la professione di fede di Tommaso che riconosce non soltanto la vittoria di Gesù risorto, ma anche la sua divinità dicendo: "Perché hai avuto una apparizione hai creduto: beati quelli che senza apparizioni crederanno". E siamo noi.
L'odierna umanità attende dai cristiani, da noi, una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo, dell'attesa della Felicità eterna anche con il segno del nostro sorriso nel perdono; ha bisogno di questo annuncio che interiormente lo fa incontrare come vero Dio e vero uomo. Se in questo Apostolo posiamo riscontrare i dubbi e le incertezze di tanti cristiani di oggi, le paure e le delusioni di innumerevoli nostri contemporanei, con lui possiamo anche riscoprire una rinnovata fede nella presenza sacramentale, senza apparizioni, di Cristo morto e risorto per ciascuno di noi: la fede è innanzitutto un avvenimento personale di intelligenza e volontà cui segue la sensibilità. Questa fede, tramandata nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli, continua, perché il Signore risorto, vivo, presente, non muore più e non ci lascia soli. Egli vive, è presente sacramentalmente nella Chiesa e la guida, nel rispetto del libero arbitrio, saldamente verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza. Ciascuno di noi può essere tentato dall'incredulità di Tommaso. Il dolore, il male, le ingiustizie, il libero arbitrio anche di papi, vescovi, sacerdoti, genitori, non usato per amare con fede, ma specialmente oggi quando deformano gli innocenti, i bambini vittime della guerra e del terrorismo, delle malattie e della fame – non mettono forse a dura prova la nostra fede? Eppure paradossalmente, proprio in questi casi, l'incredulità di Tommaso ci è utile e preziosa, perché ci aiuta a purificare ogni falsa concezione per un Dio che non rischia con il libero arbitrio e ci conduce a scoprirne il volto autentico di amore, di perdono, di misericordia: il volto di un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell'umanità ferita. Tommaso ha ricevuto dal Signore e, a sua volta trasmesso nella tradizione della Chiesa il dono di una fede provata dalla passione e morte di Gesù e confermata dall'incontro sacramentale con Lui risorto soprattutto nel Sacramento della Confessione. Una fede nella contemporaneità della sofferenza di Cristo per il peccato e che era quasi morta ed è rinata grazie al contatto con le piaghe di Cristo, con le ferite che il Risorto non ha nascosto., ma ha mostrato e continua a indicarci nelle pene e sofferenze di ogni essere umano. "Dalle sue piaghe siete stati guariti" (1 Pt 2,24), è questo l'annuncio che Pietro rivolgeva ai primi convertiti. Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell'apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell'incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro, ci aiutano, nella Domenica della divina Misericordia a capire chi è Dio e a ripetere con l'aiuto della Regina della pace, dell'Amore, della Madre del lungo cammino. "Mio Signore e mio Dio". Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede e ci aiuta a non disperare.
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