Le radici perenni della nostra civiltà europea
Francesco Lamendola, in "Accademia Adriatica di Filosofia" 24 Luglio 2021
Da molti decenni un sentimento si è diffuso, ed è stato pilotato ad arte colà dove si puote ciò che si vuole, e cioè l'auto-disprezzo collettivo di noi tutti, figli dell'Europa; il fastidio e il disgustato per le nostre radici, per la nostra storia, per ciò che siamo stati e per ciò che ha costituito la fede e la gloria delle generazioni che ci hanno preceduti, fino all'incirca a quella dei nostri nonni. E laddove l'auto-disprezzo ha saturato, per così dire, le possibilità di propaganda ideologica del potere occulto che si serve di tutti i luoghi e le istituzioni nei quali si forma il nostro immaginario e la nostra visione del mondo e di noi stessi, si è fatto ricorso a un'altra tecnica mirante al medesimo fine: la falsificazione e il travisamento delle nostre radici e della nostra storia. Poiché si è dimostrato impossibile negarle e rimuoverle del tutto; poiché non è stato sufficiente bollare di sovranismo, populismo e cripto-fascismo l'amore per le proprie radici e per la propria storia, che nonostante tutto sopravvive ancora nel cuore e nel modo di vivere, soprattutto nei valori morali, di un grandissimo numero di persone e di famiglie, si è provveduto a depotenziare tale attaccamento, a svuotarlo di significato, operando una sostituzione di contenuti: per cui si è smesso di parlare delle radici greco-cristiane della civiltà europea e ci si è dati un gran daffare a sostituire tale espressione, perfettamente corretta, con l'altra, venuta di moda nel corso degli ultimi decenni, secondo la quale le nostre radici sarebbero giudaico-cristiane. In altre parole: gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti, i professori, quasi tutti più o meno apertamente al servizio del grande potere finanziario, hanno fatto del loro meglio (o del loro peggio) per cancellare in noi il senso delle radici, dell'appartenenza e dell'identità, o quantomeno per far sì che ce ne vergognassimo sino in fondo all'anima. Ma poiché non ci sono riusciti, o non del tutto, avendo incontrato la resistenza di una bella fetta di popolazione che non è disposta né a recidere del tutto il legame col proprio passato, né a vergognarsene, allora sono passati alla strategia della fase due, più perfida, duttile e manipolatoria: fare in modo che ci formassimo un'idea distorta, ambigua, fuorviante delle nostre radici, in modo da creare la massima confusione in noi stessi su ciò che siamo e da dove veniamo.
La civiltà greco-cristiana: queste e non altre sono le radici della nostra civiltà!
Proviamo ad analizzare l'espressione: radici giudaico-cristiane. Essa suggerisce che la cultura che ci ha formati, che ci ha tenuti a battesimo, che ha fatto di noi quel che siamo, è la cultura giudaico-cristiana. Peccato solo che una tale cultura non esista, non sia mai esistita e sia un non senso logico e storico. La cultura giudaica, la spiritualità giudaica, la visione del mondo giudaica, non sono mai entrate nel DNA della civiltà europea, se non altro perché una cultura europea non è mai esistita prima del cristianesimo. Prima del cristianesimo, nel bacino del Mediterraneo e non già in Europa (i due concetti non sono equivalenti!), era diffusa la cultura greca. Roma ha conquistato e inglobato nel suo impero una parte dell'Europa, fino alla linea del Reno e del Danubio, più l'appendice della Britannia (non tutta la Gran Bretagna, dunque): e avendo Roma assorbito la cultura greca, si può dire che, all'epoca di Gesù Cristo, quella parte dell'Europa fosse imbevuta di cultura greco-romana, o semplicemente, per brevità, greca (a parte il diritto, le strade e la lingua, l'apporto romano è stato nel complesso modesto: filosofia, arte, scienza, sono essenzialmente greche). Su tale cultura si è innestato e diffuso il cristianesimo: e, con il crollo dell'Impero d'Occidente e l'apporto dei popoli germanici invasori, è nata la civiltà europea vera e propria, questa sì diffusa, o in via di diffusione, in tutta l'Europa, anche nelle regioni del Nord e dell'Est ove la civiltà greca e le armi di Roma non erano mai arrivate. I monaci e i missionari cristiani, san Bonifacio, san Patrizio, Cirillo e Metodio, hanno portato la croce presso i popoli più lontani e ancora estranei a quella civiltà; e, insieme ad essa, hanno portato la scrittura e la lingua, rispettivamente il latino nel Nord germanico, celtico e vichingo, e il greco nell'Est slavo. Ma la base cultura è rimasta quella greca e latina: il pensiero di Aristotele, grazie a san Tommaso d'Aquino, è stato posto a fondamento del pensiero cristiano medievale, così come Virgilio, per mezzo di Dante, è stato definitivamente consacrato come il poeta latino per antonomasia, tanto caro allo spirito cristiano quanto la sua poesia è impregnata di elementi, più che pagani, naturaliter cristiani.
Da molti decenni un sentimento si è diffuso, ed è stato pilotato ad arte: l'auto-disprezzo collettivo di noi tutti, figli dell'Italia e dell'Europa!
In tutto questo la cultura giudaica non c'entra affatto. Gli ebrei erano diffusi in tutto l'Impero romano, anche prima della distruzione di Gerusalemme e della diaspora (in effetti una diaspora volontaria, di tipo commerciale e finanziario, esisteva da secoli), ma non avevano mai fatto proselitismo, né mai avevano prodotto un loro pensiero "universale" se non in alcuni centri del Mediterraneo orientale (Filone di Alessandria e, un millennio più tardi, Maimonide in Spagna); alcuni adottarono la lingua dei conquistatori romani e si latinizzarono (Giuseppe Flavio). Gli sviluppi della Cabala nel Medioevo sono indubbiamente notevoli, e sono entrati a fondo nella filosofia europea, ma solo dopo che la civiltà cristiana e latina, arricchita dell'apporto germanico, si era già saldamente formata. Ma Gesù era ebreo!, obiettano a questo punto i sostenitori del concetto di radici cristiano-giudaiche dell'Europa: quei signori neo-illuministi, materialisti, irreligiosi che dominano la cosiddetta cultura moderna e che vorrebbero cancellare, o snaturare, il senso delle radici e la memoria storica dei nostri popoli. Essi in fondo odiano il cristianesimo e in generale la trascendenza: ma, non essendo riusciti a sradicarli dopo secoli e secoli di vani sforzi, provano almeno ad inquinarli. Benissimo: e che vuol dire? Nessuno nega che Gesù fosse ebreo quanto alle origini umane (c'è il piccolo dettaglio che, per i cristiani, Egli è il Verbo incarnato, quindi si è fatto uomo, ma non era un uomo, era Dio: e Dio non è ebreo, fino a prova contraria); quel che si nega è che da ciò discenda che le nostre radici siano giudaico-cristiane. Gesù è stato ripudiato e messo a morte dai capi del giudaismo, che hanno immediatamente scatenato una persecuzione sanguinosa anche contro i suoi Apostoli; il popolo ebreo, nel suo complesso, non ha accolto per niente il messaggio di Gesù, anzi lo ha respinto con sdegno e disprezzo: per secoli e secoli, nei libri sacri giudei, come il Talmud, si è tramandato un odio implacabile contro Gesù e contro i suoi seguaci. Dunque, attraverso Gesù, nulla della cultura giudaica è entrato a far parte della civiltà europea. Solo nei primissimi tempi del cristianesimo è esisto un piccolo gruppo giudaico-cristiano che pretendeva, fra le altre cose, la circoncisione da parte di quanti volevano aderirvi; ma è stato marginalizzato e formalmente condannato da san Paolo, nel concilio di Gerusalemme. A parte questo, nulla del giudaismo è entrato nel DNA del cristianesimo, se non la tradizione dell'Antico Testamento, letto però in maniera radicalmente diversa da come lo leggono i giudei osservanti, vale a dire come profezia del Messia venturo e anticipazione della Nuova Alleanza stabilita da Gesù Cristo, col Suo sangue, sulla croce della Redenzione. Ecco perché il clero post-conciliare si affanna tanto a sostenere, mentendo, che l'Antica Alleanza è tuttora valida (il che se fosse vero, creerebbe un vero e proprio monstrum non solo religioso, ma anche logico: due vie distinte e opposte alla verità e alla salvezza): perché sa che, stante la vera dottrina cattolica, quella sempre tramandata fino al 1965, Gesù completa la Legge mosaica e allo stesso tempo la oltrepassa, quindi la abolisce, perché la Nuova Alleanza si fonda su di Lui e non più su di essa.
Dunque, parlando delle nostre radici, possiamo affermare tranquillamente che esse sono greco-romane e cristiane; che Aristotele, il più grande filosofo greco, è stato ripreso e sviluppato da san Tomaso d'Aquino, il più grande filosofo cristiano di tutti i tempi, e ciò ha dato luogo a una fusione del pensiero greco con quello cristiano; e che Virgilio, il massimo poeta latino, è stato ripreso e attualizzato da Dante, il più grande poeta cristiano, avendo entrambi una visione del mondo fondata sul senso del dovere da compiere, sulla ricerca della verità e sull'idea che il lavoro, la fatica, il dolore, danno un senso alla vita umana e la redimono da tutto ciò che è materiale, egoistico, pesante, innalzandola su un piano più elevato: che per Virgilio è solo un vago presentimento, per Dante una gioiosa certezza. Perciò Virgilio, il mite Virgilio, colui che soffre per i vinti e si china pensoso sul mistero del male, è entrato nel DNA della nostra civiltà assai più di Omero, che pure gli è superiore in ambito strettamente poetico: Virgilio, e non Omero, era, ed è, suscettibile di una lettura cristiana, e Dante, col suo occhio d'aquila, lo ha visto e ne ha fatto il suo maestro e il suo autore.
Dobbiamo riscoprire la visione della vita che ci è stata tramandata dai nostri padri!
Scrivono a questo proposito Lorenzo Bianchi e Paolo Nediani nella nota introduttiva all'Eneide di Virgilio (tradotta da Giuseppe Albini; Bologna, Zanichelli, 1956, p. L-LI):
Virgilio è più vicino a Dante che ad Omero. Non parrà sentenza paradossale, ove si ponga mente, anziché alla diversa indole – mite nell'uno, fiera (ma anche suscettibile dei più dolci rapimenti) nell'altro – alle analogie di spirituali interessi e d'intendimento tra i due poeti imperiali d'Italia, e finanche alla loro complessa unità e alla loro formazione. Entrambi dalla nascita alla more possono dire alle Muse: «Vostro sono», ma disdegnare il chiuso di torri eburnee. Infatti risentono fortemente e riflettono nelle opere i casi privati e pubblici strettamente congiunti, e ricevono in un momento decisivo il colpo l'uno della spogliazione, l'altro dell'esilio, donde sono tratti a meditare sui mali della patria e del mondo e ad additarne i rimedi che Virgilio trova nella realtà augustea e Dante nel vaticinato Veltro o Dux. Né l'uno né l'altro canta per cantare: l'impero è nello sfondo come instaurazione o restaurazione e colui che storicamente compie o tenta l'impresa (Augusto o Arrigo VII) viene innalzato al cielo.
La visione dell'oltretomba sta al centro dell'"Eneide", forma il tutto nella "Commedia": poemi a loro modo "sacri" dunque e complessi, ai quali «han posto mano e cielo e terra». Comune il carattere epico-drammatico (più epica e patetica la "Eneide", più lirico-rappresentativa la "Commedia"), qualunque sia il genere letterario in cui si vogliano convenzionalmente catalogare; comune il rilievo di particolari scene e quadri ed episodi, la coscienza e il giudizio morale sempre desti con esempi e alti ammonimento, con rievocazioni e profezie, con Roma e l'Italia al posto preminente; comune l'amor patrio, la passione per la scienza (filosofia o teologia) e, forse in parte attraverso l'influsso etnico etrusco, il culto religioso e il senso del mistero.
Ed eccoli banditori di una missione, della quale i protagonisti – là Enea, qua Dante stesso – sono provvidenzialmente investiti; la palingenesi o la redenzione attraverso il dolore, la rivelazione del vero e la coscienza del dovere costituiscono lo scopo e insieme la fede che muove il loro poetare. Se non che, percorrendo i campi della loro fantastica invenzione, non evadono, ma si portan dietro la vita sofferta e vagheggiata, scrutata e giudicata nella sua ragion d'essere e nei fini supremi; ed essendo essenzialmente poeti, di tutto quel che toccano e pensano e anelano, miracolosamente trasfigurato in simbolo di bellezza, fanno poesia. Poesia, cioè creazione viva, appunto perché non si prefigge l'arte per l'arte, non si cristallizza in artificio dai freddi bagliori, ma si sostanzia di realtà attuale e ideale, sollevata e composta in armonia rivelatrice. Infine, passano tutt'e due alla concezione matura attraverso il sogno giovanile e la esperienza dolorosa, esplicando il genio in opere successive come per gradi (quasi ritorno ciclico sempre più largo ed elevato in una unità integrale), e muoiono appena levata la mano dall'opera maggiore.
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Radici giudaico-cristiane o radici greco-cristiane della civiltà europea? Vogliono toglierci Dante, la metafisica e la coscienza delle nostre radici per "dominarci meglio"!
Ci piace ritornare su questo importante concetto: la palingenesi o la redenzione attraverso il dolore, la rivelazione del vero e la coscienza del dovere costituiscono lo scopo e insieme la fede che muove il loro poetare. Questa è la visione della vita che ci è stata tramandata dai nostri padri, attraverso molte e molte generazioni; alla luce di essa sono vissuti i nostri genitori e ci hanno trasmesso il loro esempio. Primo: il dolore non è un fardello inutile, non è qualcosa che va eliminato non appena sia possibile, ma ha un suo profondo significato, perché è da esso che nasce quanto di meglio può nascere in noi, una visione più matura, comprensiva e saggia della vita. Secondo: la vita è una ricerca, non solo intellettuale, ma anche e soprattutto esistenziale, del vero: e chi non l'ha inteso, chi si balocca nel mare magno del relativismo e del soggettivismo, non ha capito nulla della vita stessa, del perché ci è data, del fine cui tende. Terzo: ciascuno di noi ha un dovere da compiere, perché la vita è anche una milizia; eludere il proprio dovere, fare finta di non udirne il richiamo, è la più bassa forma di viltà che si possa immaginare. Ebbene: queste sono le basi della visione cristiana della vita (e le troviamo anche in Virgilio, sissignori, benché egli sia vissuto qualche anno prima della venuta di Cristo); questi sono gli elementi essenziali del DNA della civiltà della quale siamo figli. In questi valori si può identificare ciascuno di noi; è per essi che noi siamo quello che siamo, abbiamo una coscienza specifica, un'individualità, un posto nel mondo. Senza di essi siamo solo polvere al vento, monadi senza porte né finestre, deboli pianticelle senza radici. Per questa ragione precisa vogliono toglierci Dante, il latino, la metafisica, perfino la coscienza delle nostre radici: per dominarci meglio.
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