Don Gino e Formigoni

Vincenzo Sansonetti, "La Nuova Bussola" – 18 Maggio 2021

Solo pochi ricordano che a metà degli anni Settanta le Brigate Rosse presero di mira anche CL e il Movimento popolare, la realtà politica e culturale nata dall'impegno di chi viveva l'esperienza di Comunione e Liberazione come capace di generare una socialità nuova, visibile e incisiva. Dopo un attacco verbale a CL in un volantino brigatista del dicembre 1975, l'11 luglio 1977 è colpito alle gambe con nove proiettili Mario Perlini, un pensionato che teneva la contabilità della comunità romana, mentre il 23 ottobre dello stesso anno viene gambizzato a Milano da appartenenti alla colonna "Walter Alasia" il consigliere comunale Carlo Arienti, eletto due anni prima nelle file democristiane in quota Mp. Il 7 dicembre 1979, le Brigate Rosse uccidono per strada a freddo il maresciallo Mariano Romiti, della polizia giudiziaria, fervente cattolico e gran devoto della Madonna che da qualche mese frequentava a Roma CL e il Movimento popolare. Negli anni successivi, a ciellini in vista come Giancarlo Cesana e Giorgio Vittadini sarà assegnata una scorta, in base a notizie di possibili attentati delle BR.

 

Avvertimenti brutali, un omicidio efferato e minacce: solo l'emergenza più violenta di un clima d'odio verso l'espressione pubblica della fede che, partito mezzo secolo fa con gli episodi cruenti appena descritti, alimentato dagli atti di intolleranza e intimidazione nelle università e nelle scuole, è poi proseguito con un'incessante e mirata persecuzione giudiziaria. Fino ad arrivare alle attuali, pesantissime aggressioni ideologiche e massmediatiche, che negano alla radice la possibilità stessa di una "voce" cristiana non asservita al potere dominante; purtroppo nel silenzio quasi totale dei vertici della Chiesa.

 

La parabola della presenza e della testimonianza dei cattolici nella società e nella vita politica italiana è il filo rosso del racconto autobiografico di Roberto Formigoni - Una storia popolare (Cantagalli), scritto con il giornalista Rodolfo Casadei - con particolare attenzione agli anni, dal 1995 al 2013, in cui è stato presidente della Lombardia: un esempio benemerito di buongoverno che ora si vuole cancellare dalla memoria. Scrive il cardinale Camillo Ruini nella sua acuta introduzione: "Non è la storia di un uomo solo, ma è anche la storia di un popolo fortemente coeso, che cammina con lui. E insieme affrontano battaglie culturali e politiche, ora vincendo ora perdendo, ma sempre tenendo la rotta e riprendendo il cammino. E sempre lavorando perché l'intelligenza della fede che hanno ricevuto diventi anche intelligenza della realtà". Questo popolo oggi c'è ancora, ha solo bisogno di essere ridestato. Come di certo c'è ancora una "intelligenza della realtà" che non sia il semplice appiattimento sul politicamente corretto che tutto pervade.

 

È interminabile l'elenco delle "cose buone" realizzate in 18 anni alla guida della regione più popolosa e progredita d'Italia da Formigoni e dalla squadra dei suoi valenti collaboratori. Al di là di inesatte e malevole narrazioni di parte, ha avviato una riforma che ha associato, a vantaggio dei cittadini, il meglio della sanità privata al sistema sanitario pubblico (è il suo successore, il leghista Roberto Maroni, che non l'ha portata a termine indebolendo la medicina del territorio); ha tradotto in scelte amministrative concrete la Dottrina sociale della Chiesa in materia di educazione, famiglia e accoglienza della vita nascente (buono-scuola, sostegno alla maternità, legge per gli oratori, fondi per i disabili). Formigoni governatore ha voluto dire che la Lombardia è stata la prima regione italiana a creare lo Sportello unico delle imprese, a creare fondi di investimento per favorire l'housing sociale, a dare il via alla raccolta differenziata, a stabilire che la formazione professionale ottemperava all'obbligo scolastico. E aggiungiamo pure che ha aperto una sede di rappresentanza della Lombardia a Bruxelles presso l'Unione europea ed è stato il primo a istituire la festa dei nonni. Non è poco, ma invece di questa mole di realizzazioni si preferisce ricordare solo la condanna penale, esito di una discutibile sentenza giustizialista, più che giudiziaria, al punto da far dichiarare a uno dei maggiori penalisti italiani, l'avvocato Franco Coppi: "Condannato senza una colpa e senza una prova". Perché ciò che contava era mettere fuori gioco e far tacere un'esperienza di governo ingombrante.

 

La ricostruzione autobiografica parte dall'infanzia (da piccolo… voleva fare il lavandaio) e arriva ai nostri giorni, passando per mille incontri, da La Pira a Moro, da Mandela al Dalai Lama, da Arafat a Fidel Castro. Ma l'incontro che ha segnato profondamente la sua vita è stato quello con don Giussani. "A un certo punto mi è diventato chiaro che io dovevo seguire quell'uomo", scrive l'ex governatore lombardo. "Lui era per me la via (…) per raggiungere Cristo e insieme per realizzare me stesso". Attenzione ricambiata dal Gius e dovuta, precisa Formigoni, "alle responsabilità che mi erano state affidate: prima nella redazione culturale di CL, poi nel Movimento popolare, poi come parlamentare europeo e italiano, infine come presidente di regione". Era come se il fondatore di CL vigilasse sulla coerenza con l'educazione cristiana ricevuta. "Giussani non entrò mai nelle questioni politiche specifiche", il suo fu solo un aiuto alla crescita di fede. "Ma proprio perché la fede non è qualcosa di disincarnato", afferma ancora Formigoni nel libro-intervista, "aiutarmi a crescere nella fede significava anche aiutarmi ad essere più forte e più lucido nel giudicare gli avvenimenti del mondo e nel maturare dei criteri di fede per prendere decisioni in tutti gli ambiti della vita, compreso quello dell'impegno politico e delle responsabilità civili". Fondamentale l'appello di Giovanni Paolo II ai partecipanti al Meeting di Rimini del 1982: "Costruite instancabilmente la civiltà della verità e dell'amore". In quell'occasione Formigoni commentò che il futuro santo "aveva dettato il programma del Movimento popolare".

 

Il racconto si chiude con l'auspicio che il "regime di detenzione domiciliare finisca il prima possibile". Ma più ancora "che venga fuori tutta la verità intorno a ciò per cui sono stato condannato, rendendo evidente che non meritavo alcuna condanna". Lo stesso Ruini, nell'introduzione, riconosce che l'ex governatore "è stato costretto a una conclusione drammatica e immeritata della sua esperienza politica". E, aggiunge, questo "è stato un danno non solo per lui ma per quanti condividono con lui una certa visione dell'Italia e del suo futuro". Ma questa "visione" c'è ancora? Ci può ancora suggerire, nel tempo difficile e confuso in cui viviamo, soluzioni e proposte? Aggiornato fino all'ultimo, Una storia popolare ci offre un capitolo finale, intitolato "Post scriptum", dove il politico di lungo corso mostra di non aver perso la sua lucidità di giudizio, facendo capire perché questa storia non sia affatto finita.

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