Sulla nozione di Filosofia cristiana di Stefano Fontana
Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso la questione della filosofia cristiana fu
molto dibattuta tra gli intellettuali cattolici. La polemica fu incubata da un articolo di M.D.
Chenu del 1928, Bréhier inaugurò apertamente la questione nel 1931. In quello stesso
anno intervennero De Corte e Blondel, nel 1932 Maritain. Sempre nel 1932 Gilson
pubblica lo Spirito della filosofia medioevale che nei primi due capitoli tratta in modo
insuperato della filosofia cristiana.
Già in quegli anni, però, lo spirito della Nouvelle theologie impostava diversamente le cose
e si iniziava a battere altre strade che avrebbero condotto lontano dalla filosofia cristiana.
Lo scritto di Henri de Lubac Sur la philosophie chrétienne del 1936, nel quale il teologo
dice di preferire la prospettiva di Blondel, ritenuta più "inclusiva", a quella di Gilson, situa il
concetto di filosofia cristiana in un contesto ormai ad essa eterogeneo.
Il passaggio dalla filosofia cristiana al superamento degli stessi suoi presupposti è ben
delineato dal breve scritto del padre Garrigou-Lagrange "La nouvelle theologie, où va-t-
elle?" del 1946. Qui il teologo domenicano pone il vero problema: il dogma cattolico ha
una valenza speculativa?, ha una pretesa epistemica veritativa? pretende una sua
adeguata formulazione concettuale e definitoria? Se si risponde di sì, allora questa non
può essere fornita che dalla filosofia cristiana, se si risponde invece di no, diventa
possibile l'utilizzo di più filosofie o di qualsiasi filosofia, quindi anche di nessuna filosofia,
ma allora il cattolicesimo diventa protestantesimo e si rompe il rapporto tra fede e ragione,
senza del quale il cattolicesimo non può stare. Contemporaneamente, il dogma, non
esprimendo più esigenze veritative sia di contenuto che di forma con le quali entrare in
rapporto essenziale con la ragione naturale, può essere formulato in modo diverso lungo
la storia e diventa soggetto ad evoluzione sicché – afferma Padre Réginald – non sarà più
ritenuta vera una teologia che non sia anche nuova. Con la Nouvelle theologie la
dimensione storica entra nella teologia cattolica con molte concessioni allo storicismo, si
supera così il concetto di filosofia cristiana, e si prelude al divampare di teologie nuove e
nuovissime nell'epoca successiva e fino a noi, quando esse sembrano aver conquistato
anche i vertici della Chiesa.
Anche dopo quell'aureo periodo, in ogni caso, il tema attirò l'attenzione di molti. Tra i tanti,
considero di grande valore speculativo quanto scrisse Augusto Del Noce nel saggio "Fede
e filosofia secondo Étienne Gilson" del 1982, un capolavoro sulla filosofia cristiana
seppure scritto da un filosofo non tomista, assieme all'altro saggio sempre di Del Noce dal
titolo "Gilson e Chestov" del 1980. Qui si trova forse la definizione più incisiva di filosofia
cristiana che riprenderò tra poco. Quando uscì l'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II
nel 1998, professori di teologia del seminario di Verona la strapparono davanti agli
studenti e la gettarono nel cestino assieme alla nozione di filosofia cristiana, ma altri
ripresero il discorso della filosofia cristiana riproposto dall'enciclica anche se con qualche
novità. Toccò soprattutto al compianto professore Antonio Livi coltivare e sviluppare in
tempi a noi vicini il senso autentico, ossia gilsoniano, della nozione di filosofia cristiana in
tutta la sua opera filosofica e in particolare nello scritto del 1969 "Cristianesimo nella
filosofia. Il problema della filosofia cristiana" e nell'articolo "La filosofia cristiana.
Prospettive attuali" pubblicato nel 1989.
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Dopo questa sintetica premessa storica, entriamo nel merito della nostra conversazione,
chiedendoci se per capire correttamente l'espressione "filosofia cristiana" dobbiamo partire
dalla filosofia o, invece, dalla fede cristiana. È la filosofia che, procedendo da se stessa,
ad un certo punto cede il passo alla fede avendola preparata (secondo alcuni) oppure
constatando un vuoto che blocca il proprio cammino (secondo altri)?, oppure è la fede
che, fin dall'inizio, produce una filosofia che, senza con ciò cessare di essere tale, si
mostra fin da subito aperta a Dio, anzi fondata su Dio? La questione è decisiva, dato che
sia con un primato della ragione sulla fede, sia con una pariteticità, o circolarità, tra
ragione e fede non si potrà parlare di filosofia cristiana ma, al massimo, di filosofia aperta,
per virtù propria, al trascendente. Sulla questione Gilson non ha dubbi: San Tommaso ha
pensato quello che ha pensato perché voleva sapere ciò in cui credeva: "è stato proprio
chiedendosi che cosa sapesse di quello in cui credeva, che san Tommaso ha potuto
creare quel corpus di verità razionalmente dimostrate che oggi chiamiamo la filosofia di
San Tommaso". Egli ha guardato prima di tutto alla Scrittura e per capire la Scrittura alla
luce della Scrittura ha costruito una nuova filosofia, "Alla formulazione della sua dottrina,
Tommaso non è pervenuto meditando su Aristotele, ma sulla Sacra Scrittura". La filosofia
da lui adoperata è la filosofia naturale, ma non senza la fede o fuori della fede, bensì nella
fede, senza del cui apporto la filosofia naturale mostra sì le sue capacità ma anche i suoi
limiti e le sue degenerazioni filosofiche. Anche Averroé lesse Aristotele come esempio di
una ragione naturale, ma siccome il suo punto di partenza teologico non era corretto, egli
deformò la filosofia aristotelica.
Il punto è questo: la filosofia (greca), entrata nel Medioevo, ha ricevuto dal cristianesimo
solo qualche aggiunta, rimanendo però così come era, oppure è nata una filosofia nuova,
prodotta sempre dalla ragione, perché altrimenti non sarebbe filosofia, ma dalla ragione
nella nuova fede? Tommaso è un semplice neo-aristotelico?, o è uno dei creatori di una
nuova filosofia, la filosofia cristiana che, pur rimanendo pienamente filosofia tuttavia
presuppone la luce della fede e per questo è, in fondo, più filosofia e non meno filosofia?
La filosofia cristiana chiede di abbracciare la seconda tesi: si comincia dalla fede e non
dalla filosofia. Gilson parla del "primato della fede sulla ragione": "se la ragione vuole
essere pienamente ragionevole, se vuole soddisfarsi come ragione, il solo metodo sicuro
consiste per lei nello scrutare la razionalità della fede".
Augusto Del Noce ha spiegato bene, da parte sua, questo punto centrale dicendo che "Il
Dio della fede non è il Dio della ragione più qualcosa". Non è un elemento aggiuntivo, che
entra in scena ad un certo momento del copione, dopo che la parte precedente era stata
recitata in sua assenza, come se la ragione filosofica fosse collocabile su un gradino e la
fede sul gradino successivo e così si passasse di gradino in gradino. Se così fosse, Dio
sarebbe una aggiunta estranea, un dipiù che fino a quel momento non era stato
necessario perché tutto si era svolto senza di Lui. In questo caso il rapporto tra la ragione
e la fede non sarebbe essenziale per la ragione filosofica, la quale sarebbe in grado di fare
completamente da sé fino a quando si transiterebbe, per necessità non razionali e quindi
inspiegabilmente, al gradino superiore. Inspiegabilmente perché, come notava Garrigou-
Lagrange, il più non viene dal meno. A meno di non pensare ad una specie di
evoluzionismo o a una specie di diritto della natura alla sopra-natura, sicché la filosofia
produca la fede dal proprio interno, per evoluzione, cosa evidentemente impossibile.
All'epoca della Nouvelle théologie, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, la
tendenza evoluzionistica (Teilhard de Chardin) e l'idea secondo cui la natura avesse diritto
alla sopra-natura (De Lubac) erano già diffuse e in seguito condannate dalla Humani
generis di Pio XII del 1950. Nonostante la condanna, tuttavia, in seguito quelle idee
ampiamente si diffusero. Se tuttavia non si abbracciano le due posizioni ora viste, è
impossibile che dal meno derivi il più. Il secondo gradino della fede, non provenendo dal
primo della ragione, vi risulterebbe sempre estraneo, aggiunto, sovrapposto, appiccicato e
sempre pronto a staccarsi in visioni protestanti e non cattoliche. Del Noce afferma che è
sempre dalla fede che si deve partire, dalle sue esigenze epistemiche e veritative: "il
processo deve andare dalla fede alla ragione … le risorse della ragione non possono
venire che dopo la fede".
Queste esigenze della fede cattolica che chiamiamo, con Antonio Livi, epistemiche – lui
diceva anche "a-letiche" ossia veritative – sono sia di contenuto che di metodo e possono
essere riassunte nella tagliente frase di Del Noce: "la fede suppone inclusa in essa una
metafisica, e non si esce dalla fede nel renderla esplicita". Una metafisica comprende
delle conoscenze e un metodo, ma come ha ben chiarito Gilson, prima le conoscenze e
poi il metodo. Claude Tresmontant, in un libretto del 1962 ha elencato le idee metafisiche
contenute nella rivelazione cristiana, Gilson le aveva già ampiamente esaminate nelle sue
opere e aveva sostenuto che col cristianesimo si ha "la venuta per vie non filosofiche di
verità filosofiche".
La filosofia cristiana, allora, non è semplicemente una ragione naturale aperta ad un
generico soprannaturale, non è una ragione naturale che prepara o fonda la fede
soprannaturale – le nozioni dei preambula fidei e della ragione come ancella della fede
vanno ben considerate - ma è la ragione naturale che, per essere pienamente tale e non
degenerare in razionalismo, si costituisce nella luce dalla fede rivelata. La filosofia
cristiana non è espressione di cristiani filosofi ma di filosofi cristiani. Ci sono senz'atro
cristiani filosofi, come ci sono cristiani barbieri, cristiani architetti, cristiani agricoltori,
cristiani musicisti … ma perché ci sia filosofia cristiana occorre che ci siano filosofi cristiani
e non solo cristiani filosofi. Servono filosofi cristiani nel senso che la fede cristiana non
solo concorda con la filosofia quando questa è retta ma anche la produce e la mantiene
nella verità. La recta ratio ha bisogno della religio vera.
La filosofia cristiana è allora il modo migliore di filosofare, perché "là dove regna il
disordine della ragione, la rivelazione fa regnare l'ordine" (Gilson), trattandosi di scegliere
tra una "ragione senza guida" e una "ragione guidata" (Gilson). La filosofia cristiana è la
ragione guidata, dato che la fede permette al filosofo cristiano di "rendere la verità
razionale a se stessa" (Gilson) depurandola da errori e imperfezioni. La fede purifica la
ragione, lasciandola ragione, anzi rendendola con ciò più ragione. La fede permette che la
ragione scopra, oppure approfondisca oppure salvaguardi meglio il corpo delle verità
razionali da essa conosciute. Scopra: come avviene con la nozione di creazione dal nulla;
approfondisca: come avviene con la nozione di virtù; salvaguardi: come avviene con la
nozione di diritto naturale.
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Cosa succede quando, invece, la filosofia non accetta questo ruolo della fede nei propri
confronti? Del Noce dice che la fede "salva la ragione liberandola dall'idolatria di se
stessa". Il che comporta che senza la fede, la ragione assolutizza se stessa, come accade
nel razionalismo, creando un culto di sé. Joseph Ratzinger afferma un concetto simile,
dicendo che la fede protegge la filosofia "dalla pretesa totalizzante della gnosi". La gnosi
assolutizza la ragione conferendole una capacità salvifica autonoma e assoluta. Tornando
a Del Noce, egli aggiunge che "quando si pensa ad una filosofia separata [dalla fede],
inclinarla verso il positivismo diventa una necessità". Per positivismo qui si intende una
ragione filosofica depotenziata e miseramente ridotta alla constatazione di fatti materiali.
Allora, torniamo alla domanda: cosa succede quando la filosofia non accetta questo ruolo
della fede nei propri confronti? Succede che essa non riesce nemmeno a rimanere
filosofia, ma degenera dapprima nel razionalismo o esaltazione di sé e poi nel positivismo
disperazione di sé. Si noti che queste due fasi sono collegate tra loro: il razionalismo è
l'esaltazione della ragione che pensa di bastare a se stessa. Per far questo, però, essa
deve limitare il suo spazio d'azione appunto per poterlo dominare tutto, come avviene per
esempio con Kant, ma così facendo essa inizia quel processo di "autolimitazione" di sé
che Del Noce o Ratzinger, quasi adoperando le medesime parole, hanno denunciato. La
ragione senza la fede diventa così meno ragione, sempre meno ragione fino a sciogliersi
nel relativismo filosofico e nel radicalismo etico. Senza la fede la ragione finisce per
disperare di sé.
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A questo punto del nostro percorso può essere utile riassumere le principali affermazioni
finora argomentate:
1 Il dogma cattolico ha delle pretese filosofiche;
2 non è filosofia ma contiene una filosofia;
3 trasmette alla filosofia delle nozioni filosofiche per via religiosa;
4 e richiede un metodo filosofico realista, che riconosca alla ragione la capacità di
conoscere l'essere e salire razionalmente a Dio;
5 Il dogma cattolico non è indifferente alle esigenze della ragione e quindi non ammette un
pluralismo filosofico che si tradurrebbe in pluralismo teologico e pluralismo dottrinale;
6 La fede non svolge questa filosofia a titolo proprio ma la affida alla ragione;
7 Ponendo le proprie esigenze di verità la fede richiama la filosofia alle sue proprie verità;
8 Non le chiede di diventare fede ma di essere pienamente filosofia, filosofia vera;
9 la ragione che esca dalla fede non riesce nell'impresa di essere se stessa;
10 e finisce per disperare anche delle proprie possibilità attuando una progressiva
autolimitazione e autodistruzione. Il piano naturale da solo non sta in piedi in nessun
campo, nemmeno in quello della filosofia.
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Il contrario della filosofia cristiana è l'ateismo filosofico. Anche in questa espressione
l'accostamento delle due parole può sembrare una forzatura irragionevole: ateismo è un
termine che rimanda alla fede, mentre filosofico è un aggettivo che rimanda alla ragione.
Lo stesso gioco contenuto nell'espressione filosofia cristiana … Eppure anche la nozione
di ateismo filosofico ha la sua notevole importanza. L'espressione indica la ragione che si
costituisce in modo tale da non poter pensare Dio, la filosofia che compie un scelta iniziale
circa l'impensabilità di Dio. Ateo filosoficamente è il filosofo secondo il quale non è
pensabile che Dio esista. Attenzione: non colui che dice che l'esistenza di Dio non è
dimostrabile, ma chi dice che è impossibile per il pensiero pensare che esista. Ora - e non
sembri un gioco di parole - il modo più efficace per decretare l'impensabilità di Dio è di
trasformare Dio in un nostro pensiero. In questo modo Dio diventa impensabile come
essere, come realmente esistente, come Fondamento reale e assoluto, come
trascendente … impensabile come Dio.
L'ateismo filosofico è il contrario della filosofia cristiana. Questa fonda la filosofia su Dio
ritenendo che questo sia il modo migliore per renderla vera filosofia. Quello fonda Dio sulla
filosofia, la quale è così costretta ad assolutizzare se stessa in un primo momento per poi
autolimitarsi e autodistruggersi. L'ateismo filosofico non solo condanna a morte la fede ma
anche la filosofia. Se la filosofia si fonda solo su se stessa, allora tutto è in quanto
pensato, ossia niente è al di fuori del pensiero. La filosofia così conosce tutto ma anche
niente.
Il momento preciso nel quale la ragione ha fatto questo è stato il momento del
cominciamento della modernità. La filosofia moderna – come bene ha dimostrato Padre
Fabro – è filosoficamente atea. Una volta stabilito che l'inizio di tutto è il porre della
coscienza, ogni conoscenza successiva è inevitabilmente posta all'interno della coscienza.
Niente è trovato, niente è ricevuto, niente ci è donato … tutto è posto. All'origine della
filosofia moderna non sta tanto – come spesso si dice – il soggetto, la coscienza, quanto
piuttosto l'atto del porre i contenuti di coscienza. Dio, come tutto il resto, può essere solo
un posto come contenuto della nostra coscienza: ecco la impensabilità di Dio come
esistente in sé fondata proprio sull'essere Egli solo un pensato.
Assunto questo principio – tutto è posto nel pensiero – la filosofia che ne deriva è
essenzialmente atea, anche se il filosofo fosse cristiano. Il cattolico Cartesio è, in fondo,
filosoficamente ateo. Ma lo è soprattutto il filosofo luterano. Il luteranesimo è, infatti, una
confessione fideisticamente teista ma filosoficamente atea. Lutero è interessato non al
Cristo in sé ma al Cristo per me, al Cristo nella coscienza, o meglio alla coscienza di
Cristo. La religione protestante comporta una filosofia atea perché non può assegnare alla
ragione la possibilità metafisica di conquistare la trascendenza senza rinunciare ai propri
fondamenti religiosi. Collegarsi ad una filosofia atea è per il Luteranesimo una esigenza
essenziale. Esso è fideisticamente credente ma filosoficamente ateo, ed è l'uno perché è
l'altro. A confermarlo è, tra gli altri, un filosofo protestante: Karl Löwith, che fa notare
come la critica alla religione cristiana e la sua distruzione in Europa abbia origine teologica
e infatti tutti i grandi filosofi tedeschi della critica alla religione vengono dagli Studi teologici
dei seminari luterani, da Schelling ed Hegel in poi. "Dio è una Parola il cui significato sta
soltanto nell'uomo".
L'ateismo filosofico, soprattutto per l'influenza del protestantesimo, è la caratteristica della
modernità filosofica. Può risultare indebolito o moderato in questo o quest'altro autore. Ma
il principio rimane quello e, alla fine, la coerenza rispetto al principio è destinata a
prevalere.
Dato che - e nella misura in cui – la teologia cattolica ha assorbito l'influenza della
teologia protestante e ha accolto l'ateismo filosofico della modernità anche la teologia
cattolica è diventata e diventa filosoficamente atea. Il problema che ne deriva è di enorme
gravità, dato che, mentre per la teologia protestante questo non fa problema, per la
teologia cattolica rappresenta la negazione dei propri presupposti di fede e di ragione.
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