L'Occidente cristiano si autodistrugge

Così l'Occidente cristiano si sta autodistruggendo

Eugenio Capozzi, da "La Nuova Bussola" 22 Febbraio 2021

 

Nella civiltà occidentale è nato un vero e proprio odio di sé che ha ormai conquistato i ceti intellettuali e che si concretizza nel trionfo del relativismo. Una parabola che porta dritto al suicidio con la civiltà occidentale spazzata via da nuove culture identitarie e impermeabili alla cultura dominante. A meno che non ci si riappropri della concezione ebraico-cristiana dell'uomo. Presentiamo un capitolo del libro di Eugenio Capozzi appena uscito: "L'autodistruzione dell'Occidente - Dall'umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo" (Historica Edizioni)

 

 

È vero che i problemi del mondo globalizzato impongono il "superamento" dell'Occidente? È vero che la tradizione umanistica occidentale è insufficiente a dare risposte efficaci alle esigenze dell'umanità oggi, a differenza di epoche passate? Può esistere davvero un "nuovo umanesimo" più ampio, comprensivo, "inclusivo", in grado di offrire categorie più solide, alla governance mondiale, ai diritti, alle esigenze, alla dignità di tutti gli esseri umani? E se sì, quali possono essere in concreto queste categorie?

 

Da tali domande ne sorgono ancora altre. In quale misura l'umanesimo moderno è "moderno"? Di quale storia culturale esso rappresenta l'esito? Quale continuità sussiste tra esso e le sue radici?

Per rispondere in maniera adeguata dobbiamo guardare all'umanesimo innanzitutto come a un elemento caratterizzante identitario.

 

Una civiltà, secondo la definizione di Huntington, è "il più vasto raggruppamento culturale di uomini e il più ampio livello di identità culturale che l'uomo possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani dalle altre specie. Essa viene definita sia da elementi oggettivi comuni, quali la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia dal processo soggettivo di autoidentificazione dei popoli". Per questo ognuna deve necessariamente offrire risposte condivise alle doman­de fondamentali sull'essenza dell'uomo, sul suo posto nell'universo, sul suo destino, se vuole esistere e durare. Risposte che si traducano in norme etiche e giuridiche, in prassi sociali e politiche, in costumi e tradizioni.

 

L'umanesimo è una tra queste risposte. Si tratta di una visione complessiva dell'uomo e della sua collocazione nella realtà, maturata nel lunghissimo percorso storico che – dalla genesi del popolo ebraico, attraverso la civiltà greca e romana, il cristianesimo, le sintesi tra la matrice romana-cristiana e popoli barbarici celtico-germanici – ha condotto fino alla nascita della modernità, alle società industrializzate contemporanee, ai regimi liberaldemocratici.

 

Il punto fondamentale a partire dal quale inquadrare e interpretare tale storia, però, è il fatto che, da un lato, l'umanesimo come fenomeno culturale è comprensibile soltanto se studiato in una chiave di storia delle civiltà, ossia come insieme di idee, princìpi, simboli esclusivamente propri dell'Occidente, e inestricabilmente legati alla sua vicenda storica; dall'altro, però, esso si caratterizza anche per la sua pretesa di esprime­re contenuti universali, applicabili cioè a tutta l'umanità senza eccezione. Esso pretende, insomma, di trascendere la particolarità di una sola civiltà, e dunque inevitabilmente si riflette in una tendenza pratica all'espansio­ne dell'Occidente su scala globale.

 

In generale, una civiltà sussiste solo fintanto che gli individui che ne fanno parte sono accomunati da una visione del mondo largamente condivisa, adottano princìpi di vita comuni, si riconoscono nello stesso patrimonio simbolico. Ciò non esclude che, dal punto di vista personale, una parte anche cospicua di quegli individui professino idee e credenze diverse da quelle che identificano la civiltà alla quale essi appartengono. Ma il fatto determinante è che la vita pubblica, le istituzioni, la vita sociale, la morale diffusa siano caratterizzati dall'adesione generalizzata a questi ultimi.

Ciò vale tanto più per l'Occidente, e per l'umanesimo che ne rappresenta il tessuto culturale connettivo, proprio in virtù della speciale vocazione universalistica che quest'ultimo implica, e che esso ha fatto propria.

 

Potremmo dire che l'umanesimo non soltanto viene a costituire un baricentro "interno" dell'Occidente, ma è intrinsecamente proiettato verso l'esterno: è costitutivamente "imperialista". E, nella sua essenza, prefigura già la globalizzazione, o meglio una certa interpretazione di essa come unificazione del mondo intorno al minimo comune denominatore della visione del mondo occidentale.

 

Ma la storia dell'umanesimo occidentale presenta anche un altro connotato di unicità, di segno del tutto opposto. Infatti, proprio all'interno della civiltà nel quale esso è nato si sviluppa, a partire da un certo punto, una critica radicale a esso, che è una autocritica: una fortissima tendenza alla autorelativizzazione, esplosa nel Novecento, ma con origini molto più lontane.

 

L'Occidente ha infatti subìto in poco più di un secolo un'oscillazione culturale tra una fede tanto convinta nella propria concezione dell'uomo da pensarla come base necessaria di una cultura universale e una tale man­canza di fede in essi da pensare quei princìpi come indifferentemente equivalenti, se non peggiori, rispetto a quelli di qualsiasi altra origine nel mondo.

 

La crescente influenza di questo atteggiamento sulle élites intellettuali, politiche, economiche, sociali occidentali – fino alla sua definizione come una vera e propria ideologia e al suo imporsi come dottrina egemone – è quella che l'allora cardinale Joseph Ratzinger, in procinto di divenire papa Benedetto XVI, nel 2005 chiamò la "dittatura del relativismo": una dottrina "che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie".

Lo stesso Ratzinger, in una riflessione dell'anno precedente, aveva identificato il punto cruciale in questa svolta culturale consistente nell'abbandono del nucleo fondante della propria stessa civiltà:

 

C'è qui un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l'Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pie­no di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.

 

Cosa è successo di tanto rilevante nella storia della cultura occidentale da provocare questo smottamento? In quale punto del corso storico il modello europeo/occidentale di umanità, cioè quello che chiamiamo l'u­manesimo, ha subìto una mutazione genetica, un'alterazione che ha condotto alla sua crisi strutturale, in un mondo non più "occidente-centrico"?

E ancora: quali sono i possibili esiti di tale processo, a breve e lungo periodo, per la storia mondiale? È compatibile un nuovo umanesimo – che intenda correggere in senso "inclusivo" quello ereditato dai secoli pre­cedenti – con la sopravvivenza della civiltà occidentale e con quella di una visione del mondo universalistica? È possibile, in mancanza di quest'ultima, supportare adeguatamente la difesa dei diritti dell'uomo, le libertà economiche e civili, la democrazia?

 

[…] Il relativismo diversitario ha ripreso, in una forma ancor più radicale rispetto alle ideologie che lo hanno preceduto, la demolizione della concezione ebraico-cristiana dell'uomo. Portando alle estreme conseguenze la cancellazione dei fondamenti religiosi del costituziona­lismo, del liberalismo e della democrazia esso ha promosso il ritorno a una concezione tribale e castale dei diritti soggettivi, ha legittimato su quella base la violazione del diritto alla vita, ha degradato l'essere umano a una condizione pari a quella animale, a "ospite" non essenziale dell'"ecosistema". Ha amplificato a dismisura l'abisso tra élites ultra-borghesi persuase di poter ambire all'onnipotenza e masse destinate a fungere da "materiale" per i loro progetti di dominio.

 

Ne è derivata, tra l'altro, la sempre più esplicita negazione da parte dei ceti intellettuali occidentali, dell'uguaglianza democratica e della libertà di espressione, agitata dalla sistematica delegittimazione dei dissidenti da parte dei media egemonizzati dalla dottrina politicalcorrettista, incaricati di "rieducare" le masse a pensare secondo i canoni di un "progresso" coincidente con l'esaltazione del relativismo e con gli ideali di vita "fluida" della nuova classe dominante.

E ne è derivata persino, in tempi recenti, l'aperta teorizzazione di un regime di salute pubblica, che autorizza in nome della "nuda vita" la compressione di ogni libertà fondamentale degli individui e della vita sociale e politica, realizzata in occasione della pandemia di Covid-19 in molti paesi occidentali.

 

Una conversione di 180 gradi dall'edonismo estremo all'autoritarismo rigorista che è apparentemente paradossale, ma in realtà si colloca coerentemente all'interno di una visione del mondo integralmente relativista. Che, come già avvertiva Hannah Arendt a proposito delle ideologie totalitarie, subordina completamente il principio della verità a favore della propaganda. 

 

In tale contesto ogni appello a un "nuovo umanesimo" più adeguato a gestire il mondo globalizzato e le sue differenze culturali è viziato da un errore filosofico di fondo. Solo l'umanesimo ebraico-cristiano – sostanziato dagli apporti culturali greco-romani, germanici, celti, slavi – ha consentito la nascita, la crescita, l'espansione, la durata, l'autocoscienza, la resistenza, il senso di identità della civiltà occidentale. Qualsiasi alternativa a esso è impossibile, in quanto non esiste un universalismo alternativo a quello che la storia dell'Occidente ha prodotto. Le dottrine che hanno cercato di contrapporsi a esso sfociano inevitabilmente nel relativismo, incompatibile con l'essenza e con la sopravvivenza della civiltà che lo ha generato.

 

La vittoria del relativismo contemporaneo segnerebbe la definitiva disgregazione dell'Occidente, destinato a essere fagocitato, molto prima di quello che pensiamo, da altre civiltà impermeabili ai suoi princìpi e più saldamente ancorate alla propria identità. In tal caso tutta l'eredità culturale, artistica, religiosa, filosofica, politica, giuridica occidentale sarebbe ben presto spazzata via.

 

La rotta che sta portando al naufragio la nostra civiltà potrebbe essere arrestata soltanto da un pieno recupero, da una piena e condivisa riappropriazione in essa della concezione ebraico-cristiana dell'uomo, con tutto il patrimonio genetico che la contraddistingue.

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