L'atto di dolore perfetto nel tempo della pandemia
La salvezza in tempo di pandemia, senza poter confessare l'ultimo peccato mortale, con il solo Arro Perfetto di Dolore – La dottrina della Chiesa
Paolo Pasqualucci in "Duc in altum" 9 Novembre 2020
Penso che dobbiamo molta gratitudine a Paolo Pasqualucci per questo suo scritto che, in una
temperie oscura nonché di privazione dei conforti religiosi come questa – e quindi rischiosa per la
nostra salute fisica ma anche per quella spirituale – abbandonati come siamo da un magistero
liquido e pressappochista che preclude a questa generazione molti riferimenti portanti della nostra
fede, ce li propone con dovizia di preziosi approfondimenti insieme a puntuali citazioni tratte dalla
Sapienza perenne. Per chi volesse scaricarlo inserisco qui il testo in formato pdf.
La salvezza in tempo di pandemìa, senza poter confessare l' ultimo peccato, con il
solo Atto Perfetto di Dolore – La dottrina della Chiesa
(breve esposizione, a cura di Paolo Pasqualucci)
Sommario : Assediati e isolati dalla pandemìa, la Chiesa ci esorta all' Atto di Dolore
perfetto, che ci salva – Concetto di contrizione – Il profilo dogmatico – Contrizione e
attrizione – La "tristezza che viene da Dio" ci porta al pentimento per Amor di Dio –
La "contrizione perfetta" secondo San Francesco di Sales.
* * *
Assediati e isolati dalla pandemìa, la Chiesa ci esorta all'Atto di Dolore perfetto, che
ci salva.
Nella presente universale, terribile pandemía, che sta
mettendo in ginocchio tutto il mondo, a causa delle
restrizioni severissime imposte alla libertà di riunione e
di movimento dall'autorità civile, ci troviamo privati
della S. Messa e nella condizione di non poterci più
confessare, anche se aggrediti dal morbo e in pericolo di
vita. Come è già successo a tanti poveretti, rischiamo
pertanto tutti oggi di morire in solitudine e privi del
conforto religioso, completamente abbandonati. Dio
però non ci abbandona. Mai. Egli è il Padre Nostro
Misericordioso.
È stato giustamente ricordato da alcuni sacerdoti che
con la recita individuale dell'atto di contrizione
perfetto ("quando proviene dall' amor di Dio, amato sopra ogni cosa", unito al fermo proposito di
confessarsi non appena possibile) già otteniamo il perdono per i nostri peccati, anche mortali (vedi:
Maike Hickson, Clergymen recommend perfect contrition and spiritual communion in times of
coronavirus, blog LifeSite News, 19 marzo 2020). Pertanto, non bisogna lasciarsi prendere dallo
smarrimento o addirittura dalla disperazione. Penso di far cosa utile, non solo a me stesso, nel
cercare di riassumere la dottrina della Chiesa su questo vitale argomento – dottrina che forse molti
non conoscono.
Non si constata da anni che il Sacramento della Riconciliazione ossia la Confessione Sacramentale è
caduta ampiamente in desuetudine, mentre si è diffusa la falsa credenza secondo la quale la salvezza
sarebbe stata comunque garantita a tutti e subito, perché, come si sente assurdamente ripetere
contro la lettera e lo spirito delle Scritture e l' insegnamento tradizionale della Chiesa, "un Dio
buono e misericordioso non può condannare nessuno all'eterna dannazione"? E quando uno muore,
non si sente quasi sempre dire che "è andato alla Casa del Padre", cioè in Paradiso? E come lo
sappiamo che è andato alla Casa del Padre, ci siamo forse avocati il giudizio cui l'anima di ciascuno è
Contrizione di carità,
fonte della nostra salvezza
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sottoposta dal Signore, subito dopo la morte del corpo? Ma del Giudizio finale, sia individuale che
universale, non è rimasta in realtà praticamente traccia nell' insegnamento della Gerarchia cattolica
attuale.
Papa Francesco, in un'omelia a Santa Marta, il 20 marzo scorso ha esortato i fedeli a recitare l' Atto
di Dolore, che li salva, quando non possono accedere ad un sacerdote, come oggi purtroppo sta
avvenendo:
"Se non trovi un sacerdote, parla con Dio direttamente, è tuo Padre, digli la verità,
chiedigli perdono con l'atto di dolore, promettigli che poi ti confesserai con un
sacerdote e questo ti darà la grazia di Dio. Si può avere il perdono di Dio senza la
presenza di un sacerdote in determinate circostanze. Fatelo, questo è il momento
giusto e opportuno. Con un atto di dolore ben fatto l' anima diventerà bianca come la
neve". (Il Mattino.it/primo piano/vaticano/coronavirus-italia_papa_francesco etc.,
20 marzo 2020).
Il Papa parlava a braccio, si è limitato a ricordare che l'atto di dolore deve essere ovviamente "ben
fatto" per esser gradito a Dio. Che, nella situazione specifica, debba esprimere una contrizione
perfetta, l'ha comunque ribadito una Nota della Penitenzieria Apostolica circa il Sacramento della
Riconciliazione nell'attuale situazione di pandemia, pure del 20 marzo scorso, in un paragrafo
applicante l'art. 1452 del Catechismo della Chiesa Cattolica:
"Laddove i singoli fedeli si trovassero nella dolorosa impossibilità di ricevere
l'assoluzione sacramentale, si ricorda che la contrizione perfetta, proveniente
dall'amore di Dio amato sopra ogni cosa, espressa da una sincera richiesta di perdono
(quella che al momento il penitente è in grado di esprimere) e accompagnata
dal votum confessionis vale a dire dalla ferma risoluzione di ricorrere, appena
possibile, alla confessione sacramentale, ottiene il perdono dei peccati, anche mortali
(cf. CCC, n. 1452)." (qui).
Ora, nella formula dell' atto di dolore comunemente in uso, la contrizione per l' offesa da noi recata
a Dio Padre con il nostro peccato, è chiaramente espressa e in posizione concettualmente
dominante. "Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho
meritato i vostri castighi e molto più perché ho offeso Voi, infinitamente buono e degno
di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col vostro santo aiuto di non offendervi mai più e
di fuggire le occasioni prossime del peccato. Signore, misericordia, perdonatemi."
* * *
Ho consultato tre classici manuali del passato, di autori tedeschi degli anni Venti e Cin-quanta del
Secolo scorso, da me reperiti a suo tempo in traduzione francese sul mercato antiquario, in passato
tutti debitamente tradotti in italiano:
1. Précis de théologie morale catholique del P. Héribert JONE, tr. fr. dell' Abbé Marcel Gautier,
Éd. Salvator, Mulhouse, 1941;
2. Précis de théologie dogmatique di mons. Bernard BARTMANN, 2 voll., tr. fr. ugual-mente
dell' Abbé Marcel Gautier, Éd. Salvator, Mulhouse, 1951.
3. Précis de théologie dogmatique del P. Louis OTT, tr. fr. dell' Abbé Marcel Grandclaudon, Éd.
Salvator, Mulhouse, 1954.
Le traduzioni in italiano dei passi tratti da questi testi sono mie. Tutti questi autori illustrano la
dottrina sul Sacramento della Penitenza insegnata dal dogmatico Concilio di Trento nel Decreto
sulla Penitenza e l'Estrema Unzione, Sess. XIV, 25 nov 1551; DS 893a-929/1667-1719. Essa viene
spiegata ampiamente nel Catechismo Tridentino, fatto pubblicare da S. Pio V nel 1566 ad uso dei
parroci per decreto del Concilio di Trento, il cui nome ufficiale è Catechismo Romano ad uso dei
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parroci (vedi: Catechismo Tridentino, tr. it. del P. Tito S. Centi, O.P., ediz. Cantagalli, Siena, 1981,
§§ 248-251).
Per l' attuale, nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, vedi CCC, artt. 1451-1454, riproponenti in
modo sintetico la dottrina del Concilio di Trento sulla contrizione: art. 1451 "Tra gli atti del
penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa è 'il dolore dell'animo e la riprovazione del
peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire'"; art. 1452 "Quando
proviene dall' amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta "perfetta" (contrizione di
carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali,
qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale".
Art. 1453 "La contrizione detta "imperfetta" (o "attrizione") è, anch' essa, un dono di Dio, un
impulso dello Spirito Santo. Nasce dalla considerazione dalla bruttura del peccato o dal timore della
dannazione eterna e delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione da timore).
Quando la coscienza viene così scossa, può aver inizio un'evoluzione interiore che sarà portata a
compimento, sotto l'azione della grazia, dall'assoluzione sacramentale. Da sola, tuttavia, la
contrizione imperfetta non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a riceverlo nel
sacramento della Penitenza." L' art. 1451 ripropone la definizione tridentina (Sess. XIV, cap. 4); l'
art. 1454 indica i testi più adatti a prepararsi degnamente alla contrizione: la catechesi morale
dei Vangeli e delle Lettere degli Apostoli, il Discorso della Montagna, gli insegnamenti apostolici.
Ad essi possiamo aggiungere, senza pretesa di completezza: L' imitazione di Cristo; L' introduzione
alla vita devota di S. Francesco di Sales, il Trattato sull'amore di Dio dello stesso autore; L'
apparecchio alla morte, meditazioni sulle massime eterne di S. Alfonso M. de Liguori.
Concetto della contrizione
Nel § 559 del suo manuale, Jone, dopo aver ripetuto la nozione tridentina della contrizione
(vedi supra, art. 1451 CCC), così spiega la differenza tra contrizione perfetta e imperfetta
a. La contrizione è perfetta (contrizione propriamente detta) quando il motivo del pentimento è
costituito dall' amore di Dio, con il quale amiamo Dio in quanto di per se stesso Sommo
Bene. In questo caso, rimpiangiamo il peccato mortale commesso poiché ha offeso il Sommo
Bene, di per sé sommamente amabile. Questa contrizione giustifica il peccatore anche al di
fuori del Sacramento [della Confessione] purché essa ne contenga almeno implicitamente il
desiderio (votum sacramenti).
b. La contrizione è imperfetta (detta anche attrizione) quando consta del rimorso [per il
peccato] non prodotto dal nostro amor di Dio ma da un altro motivo sovrannaturale non in
relazione con Dio (p. es.: l' orrore del peccato, le pene eterne e temporali con le quali Dio lo
punisce). Questa contrizione è sufficiente a giustificare il peccatore [ma solo] in unione con la
confessione." (op. cit., p. 288).
La migliore esposizione della nozione teologica della contrizione mi sembra quella fornita
dall'illustre Bartmann.
"Il Concilio di Trento descrive la contrizione come "animi dolor ac detestatio de peccato comisso,
cum proposito non peccandi de cetero" (D 897). Da questa definizione risulta il fine della
contrizione: lo sradicamento del peccato dal cuore e dalla volontà. Risulta anche la sua necessità: in
sua mancanza, è impossibile che Dio perdoni il peccato.
Il termine contrizione (da contèrere, tritare, sminuzzare, distruggere a poco a poco) comporta l' idea
del rompere sino a ridurre in frammenti, in polvere. Si trova anche compunzione (da compungere),
che indica il trafiggimento dell'uomo interiore. Il termine si trova già presso Tertulliano.
Il Catechismo romano [più noto come Tridentino] spiega il significato di contrizione a simiglianza
dell'azione di frantumazione di oggetti duri: il pentimento frantuma [conteret] i cuori induriti [nel
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peccato]. Esso spiega anche l' immagine del trafiggimento: il cuore deve, per così dire, esser
trapassato dal pentimento affinché il veleno del peccato possa esserne espulso [vedi Catechismo
romano, § 248].
Il Concilio di Trento ha fissato i tre elementi della nozione di contrizione: il dolore, la riprovazione,
il proponimento [di non più peccare]. Il dolore è un dolore spirituale. Nasce e cresce non
nell'àmbito fisico ma in quello morale. La sua fonte è nell'intelligenza e nella volontà. Nell'
intelligenza, che conosce e individua il peccato come opposizione all' ordinamento morale stabilito
da Dio; nella volontà, che riprova e respinge il peccato riconosciuto e in tal modo lo rigetta. La
funzione dell' intelligenza si sviluppa nel rimorso, nel senso di orrore, nella condanna del peccato,
causa della dannazione eterna. La funzione della volontà è quella di provocare un sentimento di
ripulsa e fuga dal peccato, sentito come cosa mostruosa e sventurata. Queste due funzioni sono
strettamente connesse e non devono esser separate. Il dolore della contrizione ha la sua causa
soprattutto nell'impressione penosa prodotta dal male che si è causato.
L' avversione e la riprovazione costituiscono la natura propria della contrizione. Ne consegue
logicamente il dolore spirituale volontario (dolor in voluntate). Avversione, riprovazione, dolore
riguardano il passato. Per ciò che riguarda il futuro, la contrizione si trasforma essa stessa in buon
proponimento. In effetti, il medesimo giudizio e la medesima decisione sul peccato passato, si
applicano anche al peccato che ci minaccia in futuro.
Da quanto si è visto, la contrizione occupa tutto l' uomo interiore; essa lo vuole trasformare fin
nell'intimo del suo spirito. Si inizia dall' intelligenza, ma non svolge il suo corso nella sola
intelligenza, quale atto di pura riflessione personale (resipiscentia), come quando si nota un errore
o lo si corregge – questa era la concezione degli Stoici, la cui metánoia voleva letteralmente
dire mutamento d'opinione; nel senso cristiano, quest' atto contiene il riconoscimento di un errore
morale che la volontà deve correggere sopprimendone la causa. Pertanto, perno ed esito della
contrizione si trovano nella volontà. Per questo, S. Tommaso definisce il dolore della contrizione un
dolore volontario (dolor in voluntate : Suppl. 1, q. 2 ad 1).
Il "dolore" dell' anima è necessariamente legato, nel peccatore, alla "riprovazione" poiché, nel
peccato, egli vede la sua stessa opera. Tuttavia la riprovazione e il dolore non sono sempre uniti. Dio
e i santi detestano il peccato ma non ne provano dolore e quindi non conoscono la contrizione.
Il buon proponimento è sempre incluso nella vera contrizione. Perché la contrizione sia salvifica
occorre che sia unita alla speranza di perdono. Infine, come risulta dal Nuovo Testamento, occorre
che la contrizione contenga la volontà di confessarsi e di dare soddisfazione [con le opere di
penitenza] dal momento che Dio vuole accordare il suo perdono con questi mezzi sacramentali.
La concezione post-tridentina della contrizione è identica, oggettivamente se non formalmente, alla
concezione della contrizione e della confessione così come sono esistite nella Chiesa sin dai primi
tempi." (Bartmann, op. cit., II, pp. 415-416, § 194).
La contrizione deve avere determinate caratteristiche o qualità. Deve essere:
1. "Interiore, in quanto atto della volontà e dell' intelligenza. Gioele, 2, 13 : "Stracciate i vostri
cuori, non le vostre vesti!". In quanto elemento del segno sacramentale, deve anche
manifestarsi all'esterno, nell'accusare se stessi in confessione.
2. La contrizione è imperfetta (detta anche attrizione) quando consta del rimorso [per il
peccato] non prodotto dal nostro amor di Dio ma da un altro motivo sovrannaturale non in
relazione con Dio (p. es.: l' orrore del peccato, le pene eterne e temporali con le quali Dio lo
punisce). Questa contrizione è sufficiente a giustificare il peccatore [ma solo] in unione con la
confessione." (op. cit., p. 288).
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La migliore esposizione della nozione teologica della contrizione mi sembra quella fornita
dall'illustre Bartmann.
"Il Concilio di Trento descrive la contrizione come "animi dolor ac detestatio de peccato comisso,
cum proposito non peccandi de cetero" (D 897). Da questa definizione risulta il fine della
contrizione: lo sradicamento del peccato dal cuore e dalla volontà. Risulta anche la sua necessità: in
sua mancanza, è impossibile che Dio perdoni il peccato.
Il termine contrizione (da contèrere, tritare, sminuzzare, distruggere a poco a poco) comporta l' idea
del rompere sino a ridurre in frammenti, in polvere. Si trova anche compunzione (da compungere),
che indica il trafiggimento dell'uomo interiore. Il termine si trova già presso Tertulliano.
Il Catechismo romano [più noto come Tridentino] spiega il significato di contrizione a simiglianza
dell'azione di frantumazione di oggetti duri: il pentimento frantuma [conteret] i cuori induriti [nel
peccato]. Esso spiega anche l' immagine del trafiggimento: il cuore deve, per così dire, esser
trapassato dal pentimento affinché il veleno del peccato possa esserne espulso [vedi Catechismo
romano, § 248].
Il Concilio di Trento ha fissato i tre elementi della nozione di contrizione: il dolore, la riprovazione,
il proponimento [di non più peccare]. Il dolore è un dolore spirituale. Nasce e cresce non
nell'àmbito fisico ma in quello morale. La sua fonte è nell'intelligenza e nella volontà. Nell'
intelligenza, che conosce e individua il peccato come opposizione all' ordinamento morale stabilito
da Dio; nella volontà, che riprova e respinge il peccato riconosciuto e in tal modo lo rigetta. La
funzione dell' intelligenza si sviluppa nel rimorso, nel senso di orrore, nella condanna del peccato,
causa della dannazione eterna. La funzione della volontà è quella di provocare un sentimento di
ripulsa e fuga dal peccato, sentito come cosa mostruosa e sventurata. Queste due funzioni sono
strettamente connesse e non devono esser separate. Il dolore della contrizione ha la sua causa
soprattutto nell'impressione penosa prodotta dal male che si è causato.
L' avversione e la riprovazione costituiscono la natura propria della contrizione. Ne consegue
logicamente il dolore spirituale volontario (dolor in voluntate). Avversione, riprovazione, dolore
riguardano il passato. Per ciò che riguarda il futuro, la contrizione si trasforma essa stessa in buon
proponimento. In effetti, il medesimo giudizio e la medesima decisione sul peccato passato, si
applicano anche al peccato che ci minaccia in futuro.
Da quanto si è visto, la contrizione occupa tutto l' uomo interiore; essa lo vuole trasformare fin
nell'intimo del suo spirito. Si inizia dall' intelligenza, ma non svolge il suo corso nella sola
intelligenza, quale atto di pura riflessione personale (resipiscentia), come quando si nota un errore
o lo si corregge – questa era la concezione degli Stoici, la cui metánoia voleva letteralmente
dire mutamento d'opinione; nel senso cristiano, quest' atto contiene il riconoscimento di un errore
morale che la volontà deve correggere sopprimendone la causa. Pertanto, perno ed esito della
contrizione si trovano nella volontà. Per questo, S. Tommaso definisce il dolore della contrizione un
dolore volontario (dolor in voluntate : Suppl. 1, q. 2 ad 1).
Il "dolore" dell' anima è necessariamente legato, nel peccatore, alla "riprovazione" poiché, nel
peccato, egli vede la sua stessa opera. Tuttavia la riprovazione e il dolore non sono sempre uniti. Dio
e i santi detestano il peccato ma non ne provano dolore e quindi non conoscono la contrizione.
Il buon proponimento è sempre incluso nella vera contrizione. Perché la contrizione sia salvifica
occorre che sia unita alla speranza di perdono. Infine, come risulta dal Nuovo Testamento, occorre
che la contrizione contenga la volontà di confessarsi e di dare soddisfazione [con le opere di
penitenza] dal momento che Dio vuole accordare il suo perdono con questi mezzi sacramentali.
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La concezione post-tridentina della contrizione è identica, oggettivamente se non formalmente, alla
concezione della contrizione e della confessione così come sono esistite nella Chiesa sin dai primi
tempi." (Bartmann, op. cit., II, pp. 415-416, § 194).
La contrizione deve avere determinate caratteristiche o qualità. Deve essere:
1. Interiore, in quanto atto della volontà e dell' intelligenza. Gioele, 2, 13 : "Stracciate i vostri
cuori, non le vostre vesti!". In quanto elemento del segno sacramentale, deve anche
manifestarsi all'esterno, nell'accusare se stessi in confessione.
2. Sovrannaturale, se si produce sotto l' influenza della grazia attuale e nasce da un motivo
moralmente buono mirante alla riconciliazione con Dio. Una contrizione puramente
naturale non ha alcun valore per la salvezza (D 813, 1207). [Una contrizione solo naturale
sarebbe quella di pentirsi pensando alla perdita di reputazione o di guadagno o di affetti
provocata dal nostro peccato].
3. Universale quando si estende a tutti i peccati gravi commessi. È impossibile che un peccato
grave sia perdonato e gli altri no [perché non sono stati accusati – bisogna accusare tutti i
peccati dei quali ci ricordiamo, dopo un onesto esame di coscienza].
4. Sovrana (appretiative summa), quando il peccatore detesta il peccato come il male più
grande ed è pronto a sopportare un male anche grande piuttosto che offendere nuovamente
Dio con un peccato grave. Tuttavia, non occorre che la contrizione sia sovrana anche nel
dolore (intensive summa)" (Ott, op. cit., p. 587). Non occorre, cioè, che la contrizione, per
esser valida, debba raggiungere necessariamente il più alto grado di dolore, impossibile a
determinarsi a priori, e che in definitiva "non è in nostro potere realizzare" (Jone, cit., p.
289).
Il profilo dogmatico
Si può dunque esser giustificati e morire in grazia di Dio anche se non ci si è alla fine potuti
confessare con il sacerdote; ciò è particolarmente importante nella situazione attuale, a causa di
questa pandemìa inaudita che ha messo "in quarantena" intere nazioni ed anzi tutto il mondo,
portando ad abolire la libertà di riunione e movimento delle persone, ecclesiastici inclusi, e di fatto
ad ostacolare fortemente se non ad impedire del tutto il culto pubblico.
Dal punto di vista dogmatico la dottrina della capacità salvifica della contrizione perfetta, viene
spiegata nel seguente modo: "La contrizione perfetta, unita al desiderio del Sacramento, giustifica il
peccatore reo di un peccato mortale, anteriormente alla recezione stessa del Sacramento" ossia
ancor prima di confessarsi. Questa tesi non è di fede ma fidei proxima, prossima alla fede.
(Bartmann, cit., p. 421).
Questa dottrina è "prossima alla fede" perché "non è definita formalmente ma è espressa
incidentalmente dal Concilio di Trento, insegnata universalmente dai teologi e attestata con certezza
dalla Scrittura." (op. cit., ivi). Il desiderio del Sacramento, ossia di confessarsi, è indispensabile dal
punto di vista salvifico. Lo ribadisce a ragione il Concilio di Trento. Altrimenti, non rischieremmo di
diventare giudici di noi stessi, di cadere nel soggettivismo? "Insegna, inoltre, il Concilio che, se
anche avviene che questa contrizione talvolta possa esser perfetta nell'amore, e riconcilia l' uomo
con Dio, già prima che questo sacramento realmente sia ricevuto, tuttavia questa riconciliazione
non è da attribuirsi alla contrizione in sé senza il proposito di ricevere il sacramento incluso in
essa" (D 898; Concilio Tridentino, sess. XIV, cap. 4, in Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei
Concili Ecumenici, tr. it. di Rodomonte Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 597).
Questa pronuncia così netta del dogmatico Tridentino ha il significato di una vera e propria verità di
fede, come rileva Ott : "La giustificazione extra-sacramentale risulta dalla contrizione perfetta solo
se quest'ultima si accoppia al desiderio del sacramento (votum sacramenti). De fide. Mediante
il votum sacramenti il fattore soggettivo e il fattore oggettivo della remissione dei peccati, l' atto di
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contrizione del penitente e il potere delle sante chiavi della Chiesa entrano in vicendevole relazione.
Il desiderio del sacramento è virtualmente contenuto nella contrizione perfetta" (Ott, op. cit., p.
589).
Nell' Antico Testamento la contrizione perfetta era per gli adulti l'unico modo di remissione dei
peccati, dal momento che non esisteva confessione sacramentale, istituita dal Verbo Incarnato. Si
citano sempre due famosi passi dal libro di Ezechiele: "l' empio non perirà per la sua iniquità,
qualora se ne ritragga" (Ez 33, 12); "tuttavia, se l' iniquo si ritrae dai peccati che ha commesso,
osserva tutti i miei precetti, e fa ciò che è giusto e retto, egli avrà la vita [eterna], non perirà". E in
aggiunta, il Salmo 32 (31), 5: "Dolente io m' avvolgea tra acute spine/ ma or confesso e non nego il
mio peccato./ A te dissi: mi confesso in colpa./ E tu gl'empi miei falli perdonasti". (La Sacra Bibbia,
ed. Paoline, 1963)
La legge del timore consentiva questa grande possibilità di perdono, tanto più la consente il Nuovo
Testamento, "legge di misericordia e di grazia". (Bartmann, op. cit., p. 422). L' episodio
neotestamentario classico della contrizione perfetta è quello della remissione dei peccati
della peccatrice notoria, identificata dalla tradizione cristiana con Maria Maddalena: "I suoi
numerosi peccati sono stati perdonati perché essa ha molto amato" (Lc 7, 47). Si intende: ha molto
amato Me e per amor mio si è umiliata in questo pubblico pentimento, risultante dall' omaggio a
Me, fatto versando amare lacrime prostrata ai miei piedi, che ha cosparso di un prezioso unguento.
Vi sono poi i noti testi di S. Giovanni e della Prima Lettera di S. Pietro. Ricordo solo: "Chi ama Dio è
nato da Dio" (1 Gv 4, 7); "L'amore [verso Dio] copre una moltitudine di peccati" (1 Pt 4, 8).
Non bisogna però credere che la nostra contrizione, per ottenerci il perdono, debba sempre
esser perfetta. Per una "ricezione degna" del Sacramento della Penitenza la contrizione perfetta non
è obbligatoria; basta la contrizione imperfetta, purché contenga "un inizio di amore per Dio." Questa
è almeno l'opinione teologica più ampiamente diffusa (Bartmann, cit., pp. 422-424). Anch' essa si
fonda sul dettato del Tridentino.
"Il Concilio dichiara anche che quella contrizione imperfetta, che vien detta 'attrizione' perché
prodotta comunemente o dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore dell' inferno
e delle pene, se esclude la volontà di peccare con la speranza del perdono, non solo non rende l'
uomo ipocrita e maggiormente peccatore [come riteneva erroneamente Lutero, seguìto poi dai
Giansenisti – Bartmann], ma è addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito Santo – che
non abita ancora nell'anima ma soltanto la sprona – da cui il penitente viene stimolato e con cui si
prepara la via alla giustizia. E quantunque per sé, senza il sacramento della penitenza, sia impotente
a condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare la grazia di Dio nel
sacramento della penitenza. Scossi, infatti, salutarmente da questo timore, gli abitanti di Ninive
fecero penitenza alla predicazione di Giona, piena di minacce. Ed ottennero misericordia da Dio [Gn
3, 5]". (Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., ivi).
Contrizione e attrizione
Perché la contrizione imperfetta si chiama tecnicamente attrizione, attritio? Ai nostri giorni il
termine può apparire astruso, se non incomprensibile. Ma è facilmente spiegabile.
La parola "attritio", sottolinea Ott, "è in uso dalla seconda metà del XII secolo (presso Simon de
Tournai prima del 1175). Il suo significato è variato nella teologia scolastica. Molti teologi vi hanno
visto una contrizione che non racchiude la volontà di confessarsi e di dare soddisfazione o il fermo
proposito di correggersi. Pertanto è spesso considerata come insufficiente per la remissione dei
peccati" (Ott, cit., ivi).
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Il termine deriva dal latino, ovviamente: è un composto del verbo tero (trivi, tritum, tèrere) : sfrego,
liscio; batto, calco; rendo trito, logoro; trituro, calpesto; consumo. La "attritio" dei teologi è in
sostanza la stessa parola di "attrito", in italiano. Contrizione e attrizione sono dunque due composti
di tero : con-tero; ad-tero. Nel latino classico, la "contritio" era, ci informa sempre il GeorgesCalonghi, lo schiacciamento, il tritare, il pestare – nei testi religiosi cristiani, e quindi nel tardo
latino, in senso traslato: rovina, miseria, abbattimento dell' animo, pentimento, contrizione – l'
animo, o meglio il nostro orgoglio, che viene come ad esser schiacciato, tritato dal senso di colpa per
il peccato. La "adtritio", invece, uno sfregamento, sminuzzamento, con l' idea di scorticature,
escoriazioni, cose risultanti appunto da un contatto per attrito che non frantumi; in senso traslato:
esposizione debole, fiacca, p.e. di un oratore (sempre Georges-Calonghi). Si capisce, allora, che i
teologi medievali abbiano voluto usare il termine "attritio" per indicare la contrizione meno perfetta
in quanto scortichi per così dire il peccatore ma senza arrivare a quella "demissio animi", a
quell'abbattimento, a quel pentimento che è proprio della contrizione perfetta. Senza cioè arrivare
ancora a quel dolore per aver offeso Dio con il nostro peccato, quel dolore che è espressione
dell'amor di Dio che noi dobbiamo pur giungere a provare verso Dio nostro Padre.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto: la contrizione, per esser gradita a Dio, e in sostanza valida,
dovrebbe esser sempre perfetta? Questa sembra esser stata l'opinione di molti scolastici, ci
spiega Bartmann, tra i quali anche S. Bonaventura, detti appunto contrizionisti. Ma dopo il Concilio
di Trento tale opinione non è più sostenibile, avendo il Concilio definito l' assoluzione del penitente
un atto consacratorio oltre che una vera e propria sentenza di assoluzione, grazie alla quale l'
assoluzione "è effettivamente operata dal sacerdote", anche in presenza di una contrizione
imperfetta; la quale, come si è visto, non giustifica ancora il peccatore ma lo dispone ad impetrare la
grazia di Dio nel sacramento della Penitenza. I teologi post-tridentini sono praticamente
tutti attrizionisti. Essi, tuttavia, discutono sull'essenza dell'attrizione, basandosi sempre sul dettato
conciliare. Si è visto, prosegue Bartmann, che il Concilio fa scaturire l' attrizione dalla percezione
della "bruttezza del peccato" e/o dal timore dell' inferno e delle pene. "La prima forma d' attrizione
si fonda su un motivo più nobile, dal momento che il giudizio su questa bruttezza risulta dall'
opposizione tra il peccato e Dio o persino fra il peccato e la virtù. A questa considerazione è sempre
connesso un tratto d'amore [per Dio], anche solo come amore-speranza [vedi infra]. Ma la
questione nasce dal motivo del timore [...] Il Tridentino insegna che il timore è un dono di Dio (e
quindi una grazia) ed un impulso dello Spirito Santo, per quanto lo Spirito non dimori ancora nell'
anima ma si limiti ad agitarla: con l'aiuto dello Spirito Santo il peccatore prepara la via che lo
conduce alla giustificazione. Insegna, difatti, il Concilio che l'attrizione in sé e per sé, senza il
Sacramento della Penitenza non può condurre il peccatore alla giustificazione e tuttavia lo dispone
ad ottenere la grazia del Sacramento della Penitenza (disponit, recita, in sostituzione di un
iniziale sufficit, Sess. 14, cap. 4, D 898, can. 5)" (Bartmann, p. 423).
Possiamo dunque esser certi, noi fedeli, che la contrizione dovuta al timore non risulta esser da sola
"disposizione sufficiente" alla giustificazione ma ne costituisce un valido presupposto, per la
maggior parte di noi probabilmente indispensabile. Il timor di Dio (che non vuol esser un terrore di
Dio) deve dunque esser un timor servilis che non si esaurisce nella paura del castigo ma teme
sinceramente anche di perdere Dio, di trovarsi per sempre separato da Lui, avendolo offeso con il
proprio peccato. Il timore servile limitato alla paura o al terrore del castigo, anzi, "è immorale"
perché non si accompagna ad una nitida ripulsa del peccato e non esclude affatto la volontà di
(tornare a) peccare, dal momento che "fa astrazione da Dio".
Deve trattarsi, spiegano i teologi, nel loro linguaggio, di un timor simpliciter servilis: votato per sua
natura al dolore provocato dalla perdita di Dio. Quest'ultimo timore "è un atto moralmente valido
ed è raccomandato nei due Testamenti (Prov 1, 7; 9. 10 – Is 11, 3 - Mt 10, 28 – Luc 12, 5 - Phil 2,
12)." In questo "timore" appare un inizio di amor di Dio e ciò è sufficiente per la "contrizione
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sacramentale". (Bartmann, op.cit., ivi).
Ma è bene tener presente che il Tridentino non si limita a pretendere che "l'attrizione escluda la
volontà di peccare". Vuole anche, come si è visto, "che essa sia unita alla speranza del perdono e
pertanto del conseguimento del bene dell' eterna beatitudine. Una speranza di vita eterna, che per la
nostra fede è per definizione possesso di Dio, è impossibile senza l'amore per questa vita: senza
quest'amore, non sarebbe una speranza cristiana" (op. cit., p. 424). Ciò risulta esplicitamente dalla
dottrina tridentina sulla giustificazione (Sess. VI, cap. 6, D 798 e c. 14).
Il fatto è, conclude Bartmann, che l'autentico timor simpliciter servilis è in realtà espressione del
vero timor filialis con il quale amiamo Dio nostro Padre che è nei Cieli. Questo lo si vede
chiaramente nella Parabola del Figliuol Prodigo. Qui il Signore ci ha voluto dare l' esempio "tipico"
del penitente.
"Senza dubbio, la fame è il castigo che lo fa di colpo rinsavire. Ma, sia da solo (Lc 15, 19) che in
presenza del padre (Lc 15, 21) non si duole per la punizione – accetta volentieri di esser retrocesso a
salariato di suo padre – ma del fatto di aver peccato contro il Cielo (Dio) e contro suo padre e di
essersi pertanto reso indegno di esser chiamato figlio. Lamenta il suo errore perché l'ha separato dal
padre" (Bartmann, p. 424).
Possiamo dire che la figura del penitente esemplare sia testimoniata piú volte nei Vangeli. Nel caso
della Peccatrice notoria abbiamo una contrizione giunta alla perfezione: il dolore per i propri gravi
peccati (maturato, possiamo immaginare, quale disperata risposta interiore a molteplici situazioni
umilianti e vergognose, imputabili soprattutto a lei stessa), si manifesta apertamente alla fine come
dolore non solo per aver vissuto una vita immorale, in violazione dei comandamenti divini, ma
anche come sofferenza acuta per esser venuta meno nell'amor di Dio, la caritas unica fonte della
nostra salvezza, cui la sventurata donna rende omaggio di fronte a tutti, umiliandosi di fronte alla
divinità di Gesù.
Nella figura del Figliuol Prodigo, creata come tipo dal Signore stesso nella celebre parabola,
abbiamo una contrizione imperfetta, in quanto causata da motivi contingenti quali la miseria, le
umiliazioni e il conseguente abbattimento morale, nella quale comincia ad apparire tuttavia la
contrizione perfetta, nel rendersi conto di aver peccato, per ingratitudine e superbia, contro il
proprio padre e contro Dio nostro Sommo Bene. In questa presa di coscienza del peccatore emerge
la connessione fra il giusto timor di Dio e l'amor di Dio: timore per i suoi giusti castighi, che
vengono accettati; amore per la bontà che manifesta nei nostri confronti, amandoci in quanto sue
creature e concedendoci il perdono quando ci pentiamo dei nostri peccati.
Nell' episodio della conversione di Zaccheo, si vede come questo pubblicano, disprezzato da tutti
come peccatore perché col suo mestiere si "contaminava" con i Romani pagani, di fronte alla bontà
con la quale Gesù inaspettatamente lo tratta, si penta immediatamente della sua vita di arcigno
esattore di balzelli, impegnandosi a dare ai poveri la metà dei suoi beni e a restituire il quadruplo di
ciò che avesse eventualmente maltolto (Lc 19, 1-10). Ciò che lo spinge al pentimento e a cambiar vita
non è la paura del castigo ma la bontà del Signore, l' amor di Dio che improvvisamente si manifesta
verso la creatura, la quale, illuminata dalla grazia, risponde slanciandosi a sua volta con generosità
in questo Amore di origine sovrannaturale, rispondendo con la carità alla carità che in modo
sovrannaturale l'ha investita e come travolta, ampliando a dismisura l' impulso che l'aveva spinta a
salire su un albero per riuscire a veder passare Gesù tra la folla.
L' Adultera colta sul fatto (Gv 8, 1-11), che Gesù sottrae all'esecuzione con lo smascherare l'ipocrisia
di chi vi si apprestava ("Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra"), manifesta il suo
pentimento con il suo stesso atteggiamento di umile gratitudine al Signore che l'aveva salvata da
una morte crudele ed ignominiosa. Ma il significato profondo dell'episodio sembra essere quello di
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voler rivelare, ancora una volta, la grande misericordia di Dio nei confronti dei peccatori, che
possono essere assolti dai peccati più gravi, a patto che il loro pentimento (ancora imperfetto o in
nuce) si traduca in un radicale mutamento di vita, nel modo desiderato da Dio ("Va', e non più
peccare!").
E infine, nella conversione del Buon Ladrone sulla croce, accanto a Cristo (Lc 23, 39-43), non c'è da
restar ancora una volta stupiti dalla generosità senza fine della divina misericordia? Uno dei due
criminali messigli accanto forse per sfregio, lo insulta; l' altro invece, riesce a dire, rimproverando il
primo: "Non temi Iddio, tu che soffri la stessa condanna? Per noi, è giustizia, perché riceviamo
degna pena dei nostri delitti, ma lui non ha fatto niente di male". Poi soggiunse: "Gesù, ricordati di
me, quando ritornerai nel tuo regno!". E Gesù gli rispose: "In verità ti dico: oggi sarai in Paradiso
con me". Nel cuore di quell'uomo non si era evidentemente spento il senso della giustizia, risvegliato
dalle offese profferte dal suo ex-compare. Di fronte all' evidente innocenza di Gesù, riconosce la
propria colpa e la giustizia della condanna inflittagli. Che Gesù fosse esposto alla folla come Re
illegittimo, risultava dal cartiglio trilingue infisso in alto sulla sua croce, ma risultava anche dai
dileggi che egli aveva subìto durante l' ascesa al Calvario: i due criminali dovevano averli sentiti,
visto che erano stati condotti al supplizio assieme a lui (Lc 23, 32: "Ducebantur enim et alii duo
nequam cum eo, ut interficerentur" - Conducevano infatti con lui due altri criminali, per
giustiziarli). E subito dopo, riconoscendo in tal modo la natura divina di Cristo, gli chiese
umilmente di "ricordarsi di lui" una volta "tornato nel suo Regno", che non era evidentemente di
questo mondo. Abbiamo qui: la confessione delle proprie colpe, implicita ma evidente nel
riconoscimento della giustizia della condanna ricevuta. E subito dopo, la richiesta di esser
perdonato dal Figlio di Dio, che appena morto sulla croce sarebbe tornato nel suo Regno celeste:
"ricordati di me", vile uomo peccatore, che sconta giustamente ora le sue gravi colpe, morendo nell'
infamia. L' assoluzione immediata con addirittura il premio del Paradiso, può forse sembrare
eccessiva? Sicuramente no. Non sta certamente a noi sindacare la vastità e la profondità della divina
Misericordia, in quale misura essa voglia assolvere un peccatore sinceramente pentito delle sue
gravi colpe, che in punto di morte si rimetta all'Amor di Dio per esser da Lui "ricordato" nella vita
eterna. Nell'assolvere dalla Croce il Buon Ladrone, il Signore si comportò esattamente come il "il
Padrone della Vigna" della sua parabola sugli "operai della Vigna", il quale per bontà volle dare agli
operai dell' undicesima ora la stessa ricompensa di quelli che avevano lavorato tutto il giorno (Mt
20, 1-16; spec.: 15-16).
La "tristezza che viene da Dio" ci porta al pentimento per Amor di Dio
La recita dell'Atto di Dolore perfetto è un grande strumento di salvezza messo a nostra disposizione
dalla divina Misericordia. Strumento ordinario, dal momento che possiamo ed anzi dovremmo
utilizzarlo ogni giorno, nella recita delle nostre devozioni private, al mattino e alla sera, se lo
recitiamo con il giusto spirito. Per la mentalità del nostro tempo, tuttavia, non potrebbe esso
sembrare qualcosa di astratto o addirittura di mistico, poco alla portata del comune fedele?
Viviamo immersi in un mondo completamente secolarizzato, sempre piú ostile alla vera religione,
votato ad un carpe diem vorticoso, al quale idee che sono nello stesso tempo ideali, come quello
della perfezione, poco o nulla dicono. Il nostro è anzi il mondo dell' imperfezione sistematica,
perché in balìa del movimento continuo e disordinatissimo delle passioni, degli istinti, dei desideri -
un formicolio febbrile, chiuso in un universo senza luce. Sappiamo bene che questa mentalità ha
infestato anche la Chiesa visibile e molti cattolici hanno perso memoria delle devozioni quotidiane,
a cominciare dall'Atto di Dolore. Come potranno, ora, atterriti dalla paura della morte che dilaga
nelle nostre città e lasciati soli, senza poter ricorrere alla confessione sacramentale, elevarsi di colpo,
senza preparazione, alla dimensione spirituale richiesta da un Atto di Dolore che si definisce
perfetto?
L' attuale Gerarchia cattolica ci ha abituato a tanti compromessi con la mentalità, gli pseudo-valori,
i costumi profani, anche i peggiori, ed ora ci viene a dire che per salvarsi in tempo di pestilenza,
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rimasti s o l i , dobbiamo saper recitar bene l' Atto di Dolore perfetto? Ma non si è sempre detto che
"la perfezione non è di questo mondo"? Perché allora all'improvviso i preti ci caricano di questo
peso, dopo averci lasciato credere che alla morte andremo in pratica tutti "alla Casa del Padre",
buttandoci tra i piedi quest'idea del pentimento per Amor di Dio indispensabile alla nostra salvezza,
come se fosse un'idea semplice da capire e mettere in pratica per noi: per NOI, generazione allevata
(complici gli stessi preti) nel culto della Dignità dell' Uomo e dei diritti umani, su di essa costruiti?
Ma non dobbiamo scoraggiarci. Considerando attentamente l' insegnamento tradizionale della
Chiesa vi troveremo la guida sicura per utilizzare gli strumenti della salvezza offerti dalla Chiesa
stessa, e proprio muovendo dall' esperienza nostra quotidiana di uomini peccatori. Ovviamente,
purché da parte nostra ci sia il desiderio sincero di andare incontro al Signore che ci parla, di non
chiudersi alla sua Grazia, di pentirsi, di ottenere l'assoluzione per i nostri peccati, di non piú
peccare, di voler entrare nella vita eterna.
* * *
Come ridorda Ott, "la paura del castigo è senza dubbio il motivo più frequente della
contrizione imperfetta, anche se non l'unico" (Ott, p. 590). E che tale contrizione imperfetta sia
anch'essa raccomandata da Nostro Signore risulta dalla sua severa esortazione alla penitenza in
generale, ossia a pentirsi e a cambiar vita, anche solo per paura della morte, se non si vuole appunto
subire il castigo della dannazione, perire cioè di fronte a Dio così come perirono certi Galilei (ribelli)
sterminati all' improvviso da Pilato o i diciotto poveretti schiacciati all' improvviso da una torre che
era rovinata loro addosso (Lc 13, 1-5). Bisogna dunque esser preparati alla morte improvvisa, anche
crudele; e si può esserlo solo preparandosi p r i m a , appunto con gli strumenti della preghiera,
della contrizione, del mutamento di vita, sorretti dalla ragione e dalla volontà; in una parola, dal
nostro libero arbitrio. Con il nostro libero arbitrio facciamo l' esame di coscienza, che dovrebbe
essere giornaliero, poiché non sappiamo "né il giorno né l' ora della nostra morte" e ogni giorno
potrebbe essere l' ultimo della nostra vita.
Ora, accanto alla p a u r a della morte (e quindi del giudizio e del castigo eterno), tra i motivi
autentici della nostra contrizione, quelli sui quali ci possiamo esercitare con il nostro libero arbitrio,
un posto di rilievo occupa certamente la percezione della "bruttezza del peccato". Questo è un
passaggio essenziale. Ci rendiamo conto, ad un certo punto, dapprima oscuramente poi in modo
sempre più nitido, di quanto fosse orribile ciò che sventatamente ci ha attratto al punto da farci
cadere in tentazione. E non mi riferisco solo alle tentazioni carnali bensì a tutti quegli impulsi che ci
hanno consegnato all'ira, all'odio, alla menzogna, all'avidità, all' egoismo, sia nell'azione che nei
desideri... La percezione della vera natura del peccato da noi commesso ci provoca un salutare senso
di umiliazione interiore ("come ho potuto far questo, o solo pensarlo?"), abbassando il nostro
orgoglio, nutrendo il nostro giusto rimorso. Ci sentiamo in colpa verso coloro che abbiamo offeso o
desiderato di offendere ma ci sentiamo anche pieni di disprezzo per noi stessi, per la nostra
debolezza, la mancanza di forza di volontà, il cedimento completo agli istinti. E ci rendiamo conto
che anche i peccati di desiderio (IX e X Comandamento), spesso mortali (pensiamo solo all'
orrida concupiscentia oculorum suscitata da erotismo e pornografia dilaganti su internet), pur non
offendendo nessuno al di fuori di noi stessi, offendono grandemente Iddio, che non può accogliere
nel suo Regno un cuore impuro, perché sempre dominato dai desideri più torbidi.
L'interiore pentimento, che ci devasta l'anima, si rivolge inizialmente a fatti e significati solo umani
e tuttavia non può avere un'origine solamente umana: in esso è già all'opera lo Spirito Santo, come
giustamente ci insegna il Tridentino. Il rimorso e la riprovazione per il male compiuto, il disprezzo
di se stessi, ci provocano una tristezza profonda, un dolore che non ha come tale a che vedere con la
paura della dannazione. È quella "tristezza salutare" della quale parla San Paolo nella Seconda
Lettera ai Corinti: "salutare" perché induce al pentimento, primo passo verso la salvezza, e induce al
pentimento perché viene da Dio.
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"Pur avendovi rattristati con la mia Lettera, non me ne pento: e anche se già me ne doleva, poiché
vedo che quella vi ha rattristati per breve tempo, ora ne godo, non per il fatto che siete stati
rattristati, ma perché quella vostra tristezza vi ha condotto al pentimento. Vi siete infatti rattristati
secondo Dio, sì da non ricevere alcun danno da parte nostra. Or, la tristezza che è secondo Dio
[secundum Deum tristitia], produce un penti-mento salutare, che non si rimpiange, perché conduce
a salvezza; mentre la tristezza del mondo procura la morte"(2 Cr 7, 8-10).
Saeculi autem tristitia mortem operatur : parola di San Paolo cioè del Signore, che lo ispirava. Ma
perché la precedente Lettera dell' Apostolo aveva contristato i fedeli di Corinto? Gravi erano stati i
loro scandali: avevano tollerato tra loro la presenza di un uomo che conviveva con la propria
matrigna, cosa illecita anche per i pagani; tolleravano i cattivi cristiani senza riprenderli; erano
solcati da liti reciproche, anche con risvolti giudiziari; si lasciavano andare alla fornicazione (1 Cr
5-6). Oltre ai severi rimproveri, S. Paolo comminava sanzioni, ordinando di cacciare l' incestuoso,
con l'obiettivo di farlo ravvedere, e i falsi fratelli. Ma il dolore e la tristezza causati dalle rampogne e
dalle censure di San Paolo avevano prodotto buoni frutti di pentimento in convertiti abitanti in un
città all'epoca famosa per i suoi costumi lascivi: essi erano ora afflitti dal dolore per aver offeso Dio
con i loro peccati, stato d'animo che veniva stimolato di nascosto da Dio stesso per ricondurli a Lui.
La "tristezza del mondo" è invece quella che "procura la morte" ossia la dannazione dell'anima,
essendo quella torva dei nostri desideri che mai ci soddisfano e ci rendono sempre più infelici,
spingendoci sulle vie dell'avidità, della lussuria, della superbia, insomma nel mare magnum delle
passioni di questo mondo, regno del "Principe di questo mondo".
La "contrizione perfetta" secondo San Francesco di Sales
La tristezza, il dolore "secondo Dio" segna dunque quel faticoso cammino interiore che, dalla
percezione degli elementi intrinseci al peccato in tutta la sua bruttezza, ci conduce progressivamente
a coglierne il significato sovrannaturale, costituito dall' offesa a Dio, che noi sentiamo ora
amaramente, avendo compreso, con l' aiuto della Grazia ossia dello Spirito Santo, che è l' amor di
Dio per noi quell'unico e vero bene, il Bene Sommo, che abbiamo rifiutato e calpestato. È questa
"tristezza che vien da Dio" a condurci al pentimento per amor di Dio. Questo itinerario spirituale
muove da ciò che è inizialmente oscuro a ciò che ci appare via via più chiaro. Egregiamente lo
descrive, con sottili e profonde analisi, San Francesco di Sales, vescovo e dottore della Chiesa, nel
suo famoso Traité de l'Amour de Dieu, del 1616, nei cap. XIV-XX del Libro II (Saint François de
Sales, Oeuvres, a cura di André Ravier e Roger Devos, gallimard, nfr, 1969, 1992, pp. 319-972 –
Pubblicato in italiano il Trattato dalle Ediz. Paoline, 1983 e 2001 – Traduzioni mie dal testo
francese).
Dio entra gradualmente nella nostra anima, "non point par manière de discours, mais par manière
d'inspiration" (op. cit., p. 450). Le verità della fede sono inizialmente ascose in "oscurità e tenebre",
sí che noi le "intravediamo" solamente, in un certo senso "le vediamo senza vederle"; tuttavia, con la
sola "soavità della loro presenza, si fanno credere ed obbedire dal nostro intelletto". Questo ispirato
"intravedere" è il primo germoglio della nostra fede e del nostro "amore per le cose divine" (op. cit.,
p. 453). Esso nasce dalla nostra "inclinazione naturale al sommo bene, a causa della quale il nostro
cuore si sente come interamente gravato e continuamente inquieto, senza potersi mai
appagare" (pp. 453-454).
L'amore per le cose divine, oscuramente agitantesi in noi, prende ad un certo punto la forma
della speranza (amour-espérance). Ciò accade quando la nostra volontà all'improvviso "prova un
estremo compiacimento nel sovrano bene divino suo oggetto, il quale, a causa della sua assenza, fa
nascere un desiderio ardente della sua presenza" (p. 456). Qui è la radice della virtú della s p e r a n
z a. La volontà, "grazie alla fede certa di poter godere del sovrano bene servendosi dei mezzi a ciò
destinati, compie due grandi atti virtuosi: da un lato, si aspetta da Dio di beneficiare della sua
sovrana bontà; dall'altro, aspira essa stessa a questo santo beneficio" (p. 457). L' aspirazione ad
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ottenere ciò in cui speriamo, la vita eterna, caratterizza il nostro amore per Dio come "amour
d'espérance". Quest'amore "est fort bon quoique imperfect" perché non ama Dio per se stesso ma in
quanto "Egli è supremamente buono nei nostri confronti". È quindi un amore interessato anche se
vero e sincero, "amour d' une sainte et bien ordonnée convoitise" poiché con esso miriamo pur
sempre ad "unirci a Lui come alla nostra ultima felicità" (p. 460).
Perché ancora imperfetto? Riflettiamo. Dio vuole da noi la perfezione morale (Gen 17, 1; Mt 5, 48;
Rm 12, 1-2; 1 Cr 6, 15-20). Ciò significa che la nostra vita deve essere una battaglia continua contro
noi stessi per vincere le forze del male con il suo imprescindibile aiuto: ma i frutti della vittoria (per
chi li coglierà) si godranno nell'altra vita, non in questa. Che noi si debba lottare per il nostro
perfezionamento spirituale e morale non risulta proprio dall'inquietudine che sempre ci assale,
come se ci mancasse sempre qualcosa per esser spiritualmente appagati? E questo non dimostra che
il vero bene cui aspiriamo non può essere di questo mondo? Il nostro desiderio di felicità si indirizza
verso il suo fine sovran-naturale non tanto ad opera della nostra ragione o della nostra volontà, che
pur cooperano al processo, quanto ad opera dell' Amor di Dio per la creatura che noi siamo; è
quest'amore che "converte il desiderio in speranza", speranza di un bene trascendente, imperituro,
al di là della caducità di questo mondo, suscitando in noi stessi l'Amor di Dio, il cui fine ultimo è
l'unione con Dio in eterno, nella Visione Beatifica della Santissima Monotriade.
Ora, come avviene il superamento dell'imperfezione nella quale si trova l'inizio del nostro Amor di
Dio? Mediante la penitenza e quindi mediante la contrizione. Per la nostra mentalità di Moderni
questa connessione dell'Amor di Dio con la penitenza e la contrizione è forse un concetto difficile.
Ma cosa ci insegna la Scrittura?
"Voi non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato e vi siete dimenticati
dell'esortazione diretta a voi, come a dei figli: Figlio mio, non disprezzare la disci-plina del Signore e
non ti scoraggiare quand'Egli ti riprende; perché il Signore corregge colui che Egli ama, percuote di
verga chiunque riceve per figlio. Sopportate di essere corretti: Dio vi tratta come figli. Qual è mai il
padre che non corregga il figlio?" (Ebr 12, 4-7). Con questo spirito dobbiamo dunque rivolgerci a
Dio, nel chiedere perdono per i nostri peccati: sapendo che la correzione è frutto dell' Amor di Dio
verso di noi e non della sua ira, a meno che noi non si perseveri nel peccato, sfidando Iddio. Ragion
per cui, l'accettazione nostra della correzione che viene da Dio deve a sua volta scaturire dal nostro
Amore per Dio che ci ama come un padre e per questo ci corregge. Il Verbo Incarnato ha ribadito il
Comandamento di Deuteronomio, 6, 5 : "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta
la tua anima, con tutte le tue forze e con tutte la tua mente e il tuo prossimo come te stesso" (Lc 10,
27). Noi, allora, dovremmo far tutto per amor di Dio: amare il prossimo come noi stessi per Amor di
Dio, pentirci per Amor di Dio poiché Dio è il nostro unico vero e sommo Bene e Lui abbiamo in
primo luogo offeso con i nostri peccati.
Ma come vengono ad integrarsi, se così posso dire, due realtà così diverse come la penitenza e l'
Amor di Dio? Riprendiamo San Francesco di Sales.
"La penitenza, in generale, è un pentimento con il quale si rigetta e detesta il peccato commesso, con
l' intenzione di riparare, per quanto possibile, l' offesa e l' ingiuria fatte a colui contro il quale si è
peccato. Includo nella penitenza il proponimento di riparare l' offesa poiché il pentimento non
detesta in modo sufficiente il male se ne lascia volontariamente sussistere l'effetto principale,
costituito dall' offesa e dall'ingiuria: e lo lascia sussistere allorché, potendo porvi riparo in qualche
modo, non lo fa". (p. 462).
Rispetto alla definizione del Concilio di Trento, possiamo dire che il proponimento di non piú
peccare sia qui assorbito in quello di riparare l' offesa fatta con il peccato. Questa definizione non è
ancora quella specificamente cristiana della penitenza, potendo applicarsi anche ad una sua nozione
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"puramente morale ed umana", quale ritroviamo, ad esempio, nel pensiero classico e in particolare
presso gli Stoici: riconducibile alla "raison naturelle" e alla religiosità "naturale" o "morale" diffusa
tra gli uomini (p. 464). Tra i classici richiamati sinteticamente dal nostro Autore, spicca però
Aristotele, il quale, nel libro VII, cap. VII dell' Etica Nicomachea, 1150 a, scrive, a proposito
dell'intemperante, cioè di colui che si dà senza misura ai piaceri "per se stessi e non in vista di
qualcos'altro", che "costui non è capace di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è
incapace di pentimento è incorreggibile [aníatos]". (Arist., Etica Nicomachea, testo greco a fronte,
intr., traduz., note e apparati di Claudio Mazzarelli, Rusconi Libri, Milano, 1993, p. 277).
L' importanza del pentimento, come fatto morale, era evidente ad alcuni grandi rappresentanti del
pensiero antico, quale momento non eliminabile dall'ideale di vita improntato all'etica della virtú.
Ma la penitenza in quanto "virtú del tutto cristiana" va ben oltre questa dimensione: essa acquista
un connotato sovrannaturale, venendo a collocarsi in un processo spirituale che viene ispirato da
Dio e il cui compimento è costituito dal pentirsi per Amor di Dio (Traité de l'Amour de Dieu, pp.
464 e ss.).
Dopo aver ricordato che siamo tutti sempre peccatori, tant'è vero che "l'esortazione delle esortazioni
di Nostro Signore è –Fate penitenza!," cosí il Nostro autore descrive "il progresso di questa virtù".
(op. cit., p. 465).
Esso si inizia con il timor servilis (vedi supra), la paura del castigo divino. Noi abbiamo tutti una
certa "comprensione", per quanto sta a noi e quindi anche solo intuitivamente, del fatto che i nostri
peccati offendono non solo gli uomini ma anche Dio. Essi, infatti, dimostrano in chi li commette
"disprezzo e disobbedienza" nei confronti di Dio, pur sapendo che Egli "rifiuta e ha in abominio
l'iniquità" (op. cit, ivi). Questa "comprensione" si arricchisce "a volte" di ulteriori approndimenti,
per quanto intuitivi, per ciò che riguarda la divina Maestà.
Ci rendiamo infatti conto che possiamo esser privati del Paradiso e mandati all'Inferno, per sempre.
Ci investe pertanto un doppio, grave timore: quello del castigo eterno e quello della perdita del bene
rappresentato dal Paradiso, sicuramente un bene sommo, non para-gonabile ad alcun bene terreno.
Questa "double crainte" ci spinge "con gran forza" al penitmento, ed è un timore positivo, tant'è vero
che "la Parola Sacra ce l'ordina cento e piú volte" (p. 465). Ci rendiamo poi conto, usando il nostro
intelletto, della "bruttezza e malizia del peccato, come del resto ce le insegna la fede". Esse sono tali
da sfigurare la nostra somiglianza con Dio, da disonorare la nostra dignità rendendoci simili "aux
bêtes insensées", da farci violare i nostri doveri verso il Creatore e farci perdere il bene della società
con gli Angeli, essendoci noi col peccato per l'appunto associati al diavolo e sottomessi a lui. Tutte
queste caratteristiche e conseguenze del peccato ci spingono dunque a penitenza, unitamente, per
contrappasso, agli esempi di virtù provenienti dai Santi (op. cit., pp. 465-466).
I "motivi di penitenza" sono dunque molteplici. Si fondano sulla fede già all' opera in noi e sono anzi
apertamente "insegnati dalla fede e religione cristiana", nonché sull' uso corretto del nostro libero
arbitrio. Tuttavia questa penitenza, già articolata in tanti motivi, "è ancora imperfetta". Imperfetta,
"nella misura in cui l' Amore divino non vi rientra affatto" (p. 466). Vi predomina ancora "l'amore
per noi stessi" anche se "legittimo, giusto, ben regolato". L' amor di Dio "non è rifiutato ma non è
incluso". In questa fase, i penitenti non sono contro l' Amor di Dio bensì "ancora senza di esso" (op.
cit., ivi). Il perfezionamento interiore apportato dalla nostra contrizione è solo all'inizio, esso non
può arrestarsi a questo stadio: Ciò costituirebbe un atteggiamento irrazionale e potrebbe portarci
anche al peccato. "Il timore e gli altri motivi di pentimento, anteriormente ricordati, vanno bene per
l' inizio della saggezza cristiana, che consiste nella penitenza. Ma chi vorrebbe scientemente non
giungere mai all' Amore, che realizza la perfezione della penitenza, offende grandemente Iddio, il
quale ha destinato tutto al suo Amore, quale fine di tutte le cose. Conclusione: il pentimento che
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esclude l' Amor di Dio è infernale, assomiglia a quello dei dannati." (op. cit., p. 467).
In effetti, i dannati si pentono amaramente dei loro peccati, ma troppo tardi, quando sono ben
dentro l' Inferno: li maledicono così come maledicono Iddio che li ha condannati. Il loro pentimento
è fondato sull'odio per Dio e per se stessi, l'unico sentimento che possono ormai provare. Invece il
pentimento che non rigetta l'Amor di Dio pur senza ancora accoglierlo, è "buono e desiderabile".
Però ancora imperfetto: "non può condurci alla salvezza fintantoché non abbia raggiunto l' Amore e
non si sia mescolato ad esso". L' essenza di quest'Amore è poi la c a r i t à , come risulta dalle celebri
parole di san Paolo, quando scrisse che "se anche distribuissi tutti i miei beni ai poveri e dessi il mio
corpo ad esser bruciato, se non ho la carità, tutto questo non mi giova a nulla" (1 Cr 13, 3).
Analogicamente, potremmo dire: "se la nostra penitenza fosse così grande da farci sciogliere in
lacrime e spaccarci il cuore dal rimorso, se non abbiamo il santo amore di Dio, tutto ciò non ci
sarebbe di alcuna utilità per la vita eterna." (op. cit., pp. 467-468).
Ma come può effettivamente realizzarsi questa "mescolanza [mélange] di amore e dolore nella
contrizione"? Dalle "tribolazioni e dai rimorsi di un vivo pentimento", come può scaturire l' Amore
di Dio? Può, perché Dio "nel profondo del nostro cuore mette spesso il sacro fuoco del suo
amore" (p. 468). Convivono dunque in noi due elementi intrinsecamente diversi e tuttavia passibili
di integrazione, anche se uno di essi è di origine sovrannaturrale. "La penitenza altro non è che un
vero dispiacersi, un dolore e un pentimento reali; ma essa è tuttavia piena d'ardore poiché [già]
contiene la virtù e la proprietà dell' amore, come se provenisse da un movente amoroso, e grazie a
questa proprietà essa si apre alla grazia" (p. 469).
Pertanto, la "penitenza perfetta" provoca d u e differenti, fondamentali effetti: "con il dolore e la
ripulsa ci separa dal peccato e dalla creatura alla quale la passione [délectation] ci aveva avvinto; ma
grazie all'impulso [motif] dell'amore, dal quale si origina, ci riconcilia e riunisce al nostro Dio, dal
quale ci eravamo separati con il disprezzo [della sua volontà]. Per cui, quanto piú, in quanto
pentimento, ci allontana dal peccato, tanto piú, in quanto amore, ci riunisce a Dio" (op. cit., ivi).
Questo doppio e intrecciato movimento della nostra anima appare armonioso e del tutto conforme
alla nostra natura. Nella pratica, tuttavia, non si saprebbe dire quale dei due movimenti sia
effettivamente la causa prima dell'intero processo. Dove, l'inizio? Né sembra facile distinguerli. San
Francesco di Sales, dotato di un'eccellente cultura filosofica, giuridica, teologica, non si esprimeva
mai da erudito o teologo stricto sensu ma da direttore spirituale e pastore d'anime egregio, quale
effetti-vamente era, istruito da una lunga esperienza sacerdotale. Ma l'indeterminatezza (per noi)
dell'inizio del processo di santificazione del penitente e la difficoltà di scinderne gli elementi
costitutivi, non incidono affatto sulla validità e l'efficacia del processo stesso.
Continua infatti il Nostro: "Tuttavia non voglio dire che l'amore perfetto di Dio, con il quale lo si
ama al di sopra di ogni cosa, preceda sempre questo nostro pentimento, né che il pentimento
preceda sempre quest'amore. Per quanto questo succeda sovente, altre volte, non appena l'amore
divino nasce nei nostri cuori, la penitenza nasce dentro l'amore stesso. Ma accade di frequente che il
sopravvenire della penitenza nel nostro animo, vi porti dentro l'amore." La penitenza e l'amor di Dio
ora si succedono ora sembrano nascere contemporaneamente o quasi, dentro di noi. Per spiegarsi al
meglio, l'Autore ricorre ad una similitudine, prendendo spunto dalla nascita dei due gemelli biblici,
Esaù e Giacobbe.
"E come allorché Esaù uscì dal ventre di sua madre Giacobbe suo gemello gli teneva il piede [Gen
25, 25-26] in modo che le loro nascite non solo si susseguissero ma anche si intrecciassero e si
legassero strettamente l' una all' altra, allo stesso modo il pentimento, rude ed aspro per il dolore
che comporta, nasce per primo, al modo di Esaù, mentre l'amore, dolce e grazioso come Giacobbe,
lo tiene per il calcagno e vi si attacca talmente che entrambi hanno un'unica nascita, risultando il
termine della nascita del pentimento nell'inizio di quella del perfetto amore. Ora, come Esaù nacque
per primo così il pentimento compare normalmente prima dell' amor di Dio; ma l'amore, come un
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altro Giacobbe, nonostante sia il minore, si assoggetta poi il pentimento, convertendolo in
consolazione" (pp. 469-470).
La commistione o mescolanza di pentimento e amor di Dio non deve stupire, bisogna in-vece
saperla intendere e dirigere secondo il suo verso, quello voluto da Dio.
"Non bisogna stupirsi del fatto che la forza dell' amor di Dio nasca all'interno del penti-mento prima
che l'amore vi si sia formato: pur vediamo che, in séguito ai riflessi dei raggi solari concentrati sul
vetro di uno specchio, il calore, che è la virtù e qualità propria del fuoco, cresce poco a poco così
fortemente da cominciare a bruciare prima di aver effettivamente prodotto il fuoco, o, per lo meno,
prima che noi lo possiamo scorgere." Fuor di metafora: "lo Spirito Santo fa irrompere nella nostra
mente la considerazione dei nostri peccati come peccati che hanno offeso una così eminente bontà;
la nostra volontà riceve il riflesso di questa conoscenza; pertanto, il pentimento cresce a poco a
poco, diventando così forte, con un sicuro ardore d'affetti e desiderio di ritornare in grazia di Dio,
che alla fine tutto questo movimento spirituale giunge al punto di ardere e unire [spiritualmente noi
a Dio], ancor prima che l'amor di Dio sia del tutto formato [in noi]".(p. 472) Come Giacobbe si
teneva alla nascita attaccato al calcagno del gemello Esaù, così "l'inizio dell' amor perfetto non
solamente consegue alla penitenza ma vi si attacca, vi si lega: in una parola, quest'inizio dell'amor di
Dio si mescola con il fine della penitenza e in questo momento della commistione [en ce moment du
mélange], la penitenza e la contrizione meritano la vita eterna" (p. 472). Il che significa, dal punto di
vista concreto degli atti penitenziali, che "l'orazione penitenziale o il pentimento supplichevole,
elevando l'anima a Dio e riunendola alla sua bontà, ottengono senza dubbio il perdono in virtù del
santo amore ricevuto dal movimento sacro" (op. cit., ivi).
In tutto questo processo o "movimento sacro" il penitente è ovviamente impegnato al massimo con
la sua volontà e ragione, oltre che con il sentimento, a cooperare con l'azione divina, anche se solo
progressivamente ne prende coscienza. Egli agisce sempre in piena libertà, come ribadisce il
Tridentino (sess. VI, can. 4) esplicitamente richiamato dal Salesio (p. 474). Tant'è vero che molti,
purtroppo, anche tra i cattolici, si rifiutano alla grazia (Filip 3, 18-19) e non ammettono di dover
confessare i propri peccati, che persino giungono a negare in quanto tali. L' idea stessa della
contrizione e della confessione dei peccati la respingono, ritenendola un limite insopportabile alla
propria libertà e alla dignità che, in quanto uomini e donne, credono di possedere. Ma non si
rendono conto che nessuno ci obbliga a pentirci. Restiamo sempre liberi: si tratta solo di saper
indirizzare la nostra libertà nel modo giusto, ossia di non resistere all'impulso della grazia che si
manifesta già, per quanto nascosto, nell' apparire della nostra contrizione. Quell'impulso ci mette
contro la parte peggiore di noi stessi e, maturando, ci fa muovere con passo sempre più veloce verso
Dio, come appunto il Figliol Prodigo verso il padre, il quale, vistolo da lontano, già gli correva
incontro per abbracciarlo.
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