Concilio Vaticano II Così l'uomo è stato mersso al posto di Dio
Con un contributo di Gian Pietro Caliari una nuova puntata nel dibattito sul Concilio Vaticano II
Aldo Maria Valli in "Duc in altum" 5 ottobre 2020
"In quo mundabit adulescentior viam suam? In custodiendo sermones tuos" (Salmo 119, 9).
Questa la domanda che soggiace a tutti gli altri interrogativi che scandiscono il più lungo dei salmi dell'Antico Testamento ("Come renderà il giovane la sua via pura? Col badare ad essa secondo la tua parola") che termina con una dolente constatazione e un'invocazione d'aiuto: "Sono andato fuori strada come un agnello perso; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti".
In questo salmo il vero credente si riconosce come un Bar mitzwah, un figlio del precetto che non vede nella legge di Dio una mera prescrizione legalistica o ritualistica, ma il vero cammino che conduce alla Vita. "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva" (Deuteronomio 30, 15-16).
Nell'attuale e oltremodo salutare dibattito sul Concilio Vaticano II bisogna ripartire proprio dalle sapienziali domande del salmista, come per altro lo stesso Vaticano II insegna: "In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo" (Dei Verbum, 1). E aggiunge: "A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" (Ibidem, 5).
In questa sapienziale prospettiva, trascorsi ormai cinquantacinque anni dalla chiusura del Vaticano II, è legittimo porsi alcuni interrogativi.
Come, innanzi tutto, valutare gli esiti della tanto declamata "dimensione pastorale" del Concilio?
Se lo chiedeva nell'ormai lontano 7 dicembre 1965 lo stesso Paolo VI, chiudendo i lavori dell'assise conciliare: "Per valutarlo degnamente bisogna ricordare il tempo in cui esso si è compiuto; un tempo che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo in cui l'atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell'ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d'irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate".
Appare legittimo osservare che a distanza di più di mezzo secolo a nessuna delle problematiche così acutamente osservate e minuziosamente elencate dal pontefice bresciano la Chiesa cattolica con la sua "pastorale conciliare" ha saputo o potuto offrire non solo un rimedio, ma un'alternativa convincente e credibile! Anzi, l'analisi montiniana appare oggi ancor più drammaticamente profetica!
La Chiesa uscita dal Concilio – sempre secondo le parole di Paolo VI – avrebbe dovuto offrire al mondo una "concezione teocentrica e teologica dell'uomo e dell'universo, quasi sfidando l'accusa d'anacronismo e di estraneità che si è sollevata con questo Concilio in mezzo all'umanità, con delle pretese che il giudizio del mondo qualificherà dapprima come folli, poi, Noi lo speriamo, vorrà riconoscere come veramente umane, come sagge, come salutari; e cioè che Dio È. Sì, È reale, È vivo, È personale, È provvido, È infinitamente buono; anzi, non solo buono in sé, ma buono immensamente altresì per noi, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità, a tal punto che quello sforzo di fissare in Lui lo sguardo ed il cuore, che diciamo contemplazione, diventa l'atto più alto e più pieno dello spirito, l'atto che ancor oggi può e deve gerarchizzare l'immensa piramide dell'attività umana" (Paolo VI, Allocuzione all'ultima seduta del Concilio Vaticano II).
Ebbene, ci domandiamo, perché anziché avere una visione "teocentrica e teologica dell'uomo e dell'universo" abbiamo oggi – drammaticamente – la predicazione di un verbo pagano cosmocentrico e di un ateo neo-antropocentrismo, che hanno avuto e avranno il loro manifesto ideologico in documenti come l'enciclica Laudato sì, la Dichiarazione di Abu Dhabi e nell'accettazione del neoumanesimo totalitario che sarà certamente il leitmotiv dell'imminente Fratelli tutti?
Dobbiamo constatare che, dopo quel lontano 7 dicembre 1965, è prevalsa nella Chiesa un'ermeneutica conciliare dell'immanenza che, nel velleitario e blasfemo tentativo di trasformare il Vaticano II in "evento fondatore" della Chiesa stessa, l'ha pervertito privandolo della sua più intima ma essenziale dimensione e visione trascendente.
La Chiesa del post-concilio è stata sottoposta da molti suoi pastori alla logica mondana dell'hic et nunc (qui e ora), perdendo la sua essenziale e imprescindibile dimensione dell'ibi et semper (là e sempre).
Il Vaticano II aveva pur ribadito che "Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa" (Lumen gentium, 1). Di questa Luce Divina la Chiesa doveva essere il sacramentum, un segno efficace, ma forse – come già osservava Romano Guardini, proprio in riferimento alla stessa Chiesa – "viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduto la realtà da essi significata" (I santi segni, Brescia 1996, p. 117).
L'attuale pontificato è solo il naturale epigono di quel Concilio o, invece, solo una ben miserevole eterogenesi delle finalità per le quali quell'assise fu voluta e si tenne?
Tenendo ben presente la gerarchia magistrale interna ai testi del Concilio stesso, di cui solo tre dogmatici (Sacrosantum Concilium implicitamente per la materia trattata, Dei Verbum e Lumen gentium per espressa titolazione), e distinguendo attentamente da ciò che il Concilio veramente auspicò e le molte e assai discutibili e persino deprecabili applicazioni post-conciliari – in primis la cosiddetta riforma liturgica! – chiediamo ancora a Paolo VI di aiutarci nella risposta.
"Possiamo noi dire d'aver dato gloria a Dio, d'aver cercato la sua conoscenza ed il suo amore, d'aver progredito nello sforzo della sua contemplazione, nell'ansia della sua celebrazione, e nell'arte della sua proclamazione agli uomini che guardano a noi come a Pastori e Maestri delle vie di Dio? Noi crediamo candidamente che sì. Anche perché da questa iniziale e fondamentale intenzione scaturì il proposito informatore del celebrando Concilio. Risuonano ancora in questa Basilica le parole pronunciate nella Allocuzione inaugurale del Concilio medesimo dal Nostro venerato predecessore Giovanni XXIII, che possiamo ben dire autore del grande Sinodo. Egli allora ebbe a dire: 'Ciò che al Concilio Ecumenico massimamente interessa è questo: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e proposto con maggiore efficacia'" (Allocuzione all'ultima seduta del Concilio Vaticano II).
Quanto lontane, persino estranee, appaiano e siano queste parole non nel tempo ma dall'attuale direzione della Chiesa cattolica, rapidamente imboccata da oramai sette anni, è lapalissiano!
Dobbiamo coraggiosamente dirlo col il salmista: "Sono andato fuori strada come un agnello perso".
Un pontificato, quello attuale, "clinicamente morto" perché è "andato fuori strada", fuori dalla strada di Colui che solo è Via, Verità e Vita.
Gian Pietro Caliari
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