Domenica 26°
Un uomo in tutto l'arco della vita può sempre cambiare atteggiamento e questo può avvenire nelle due direzioni: da buoni si può diventare cattivi, da cattivi si può lasciarsi perdonare, ricreare. Riguardo a sé stessi non ritenersi mai arrivati se buoni, mai esclusi fino all'ultimo momento se prodighi. Nei confronti del prossimo mai giudicare la persona dalle azioni anche cattive perché la coscienza la vede soltanto Dio
Oggi la liturgia ci propone l'ascolto di Lui attraverso la parabola evangelica dei due figli invitati dal padre a lavorare nella sua vigna. Di questi, uno dice subito di sì, ma poi non va; l'altro invece sul momento rifiuta, poi, però, pentitosi, asseconda il desiderio paterno. Con questa parabola Gesù ribadisce la sua predilezione per i peccatori che si convertono, e ci insegna che ci vuole sempre umiltà senza vantarsi se buoni e senza scoraggiarsi se prodighi.
Il Vangelo è preparato dalla prima lettura di Ezechiele che parla di un giusto che si allontana dalla giustizia, e poi di un ingiusto che desiste dall'ingiustizia. Dice il Profeta, a nome di Dio, che l'atteggiamento assunto per ultimo merita la ricompensa o il castigo: se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l'iniquità e, senza pentirsi, tale si trova all'ultimo momento della vita è escluso per sempre dalla felicità; se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia commessa e ritorna ad agire con giustizia e rettitudine, fa vivere sé stesso nel tempo e nell'eternità se tale si trova il giorno natalizio al cielo. Questo passaggio può avvenire spesso nella vita ed è grande come la comunione eucaristica il perdono sacramentale della confessione mensile.
Anche san Paolo, nel brano della Lettera ai Filippesi che quest'oggi meditiamo non solo qui nella Messa ma anche, come è efficace avere il messalino, in famiglia, ci esorta al grande dono, al grande impegno dell'umiltà. "Non fate nulla per rivalità o vanagloria, vanto – egli scrive sotto ispirazione -, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso" (Fil 2,5-8) ed esperimenterete la vera fraternità che siamo in attesa di sentire nella prossima Enciclica il 3 ottobre ad Assisi. Sono questi i sentimenti di Gesù Cristo, che spogliatosi della gloria divina della sua Persona filiale del Padre nello Spirito Santo per essere nella natura umana vicino a noi, si è fatto uomo e si è abbassato, facendo sempre la volontà del Padre, fino a morire crocifisso (Fil 2,5-8). Il verbo utilizzato da san Paolo – ekenosen -significa letteralmente che Egli, Dio con noi, "svuotò sé stesso" e pone in chiara luce l'umiltà profonda e l'amore infinito di Gesù, il Servo umile per eccellenza fino a non escludere nessuno in vita e oggi da risorto dalla possibilità, pentiti, di perdono. In questa luce io penso al suo sguardo che non definiva nessuno in situazione di peccato. Per essere come Lui dobbiamo esaminarci per vedere se facciamo qualcosa per spirito di rivalità o vanagloria, nella ricerca dell'onore e della lode. Soprattutto, per la fraternità cristiana, dobbiamo vedere se consideriamo gli altri, di cui non cogliamo la coscienza e quindi le colpe pur cogliendo comportamenti sbagliati, superiori a noi stessi, migliori di noi stessi, invece, consapevoli delle nostre colpe. "Non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma piuttosto quello degli altri", comportamento cristiano improntato ad una carità generosa, disinteressata che non possiamo raggiungere con le nostre forze. Ma Gesù con la sua croce e la sua risurrezione ci ha meritato le grazie necessarie perché possiamo vivere così. E con l'Eucaristia, almeno dominicale, attualizzazione sacramentale del suo sacrificio ci comunica la forza per andare in questa direzione. In essa riceviamo Gesù nel momento, attualizzato in ogni messa e comunione, del suo più grande amore, nel momento in cui egli dona sé stesso, il suo corpo e il suo sangue per noi.
Riflettendo su questi testi biblici, ho pensato subito a uno dei più cari amici con cui ho collaborato come Direttore dello Studio teologico san Zeno Lui Vescovo di Vittorio Veneto e incaricato del rapporto dei Vescovi del Triveneto con i teologi, Papa Giovanni Paolo I, di cui domani ricorre il quarantaduesimo anniversario della morte. Una sola parola che sintetizza l'essenziale della vita cristiana e indica l'indispensabile virtù soprattutto di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell'autorità. Come motto episcopale ha scelto come san Carlo Borromeo: Humilitas. In una delle quattro Udienze generali tenute durante il suo brevissimo pontificato disse: "Mi limito raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore …Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili". E osservò: "Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra" (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, pp.5152). L'umiltà, che oggi la Sua parola ci ha ricordato perché gli dà la possibilità di agire in noi, può essere considerata il suo testamento spirituale. Grazie proprio a questa sua virtù, bastarono 33 giorni perché Papa Luciani entrasse nel cuore della gente. Nei discorsi usava esempi tratti da fatti di vita concreta, dai suoi ricordi di famiglia veneta e dalla saggezza popolare. La sua semplicità era veicolo di un insegnamento solido e ricco, che, grazie al dono di una memoria eccezionale e di una vasta cultura anche tra noi teologi, egli impreziosiva con numerose citazioni di scrittori ecclesiastici e profani. È stato così un impareggiabile catechista, sulle orme di san Pio X, suo conterraneo e predecessore prima sulla cattedra di san Marco a Venezia e poi su quella di san Pietro. "Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio per sentirlo grande", disse in quella medesima Udienza. E aggiunse: "Non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma, io credo al Signore, a quello che mi ha rivelato" (ivi p.49). Queste parole mostrano tutto lo spessore della sua fede che nella cooperazione e amicizia mi ha fatto sentire.
Mentre ringraziamo Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo, facciamo tesoro del suo esempio, impegnandoci a coltivare la sua stessa umiltà, che lo rese capace, come gli aveva preconizzato suor Lucia a Coimbra, di parlare a tutti, specialmente ai piccoli e ai così detti lontani mai da Cristo e quindi da noi, da Lui, come ci ricordava a noi teologi. Invochiamo per questo la Madonna di Fatima, la Madonna del Rosario, dell'Immacolato Cuore, umile serva del Signore.
Commenti
Posta un commento