Cent'anni senza prete e la gente finirà per adorare gli animali o il poprio corpo mortale
Il prete è l’uomo del sacro, è colui che fa da ponte, pontefice, al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo nella liturgia. Quando cade nella tentazione di protagonista della celebrazione, con troppi discorsi fa venir meno il prete e fa crescere l’umano mondanizzato
Aurelio Porfiri in “Duc in altum” 6 agosto 2020
Viviamo in un tempo di forte ed evidente crisi del sacerdozio cattolico, crisi numerica ma soprattutto di identità. Oggi molti sacerdoti si trovano a rincorrere l’uomo moderno, ma non per portarlo a Dio, bensì per cercare di somigliargli, nell’illusione che così le persone si possano avvicinare alla Chiesa. Illusione a tutti gli effetti, perché possiamo vedere che il risultato dell’operazione è tutt’altro che lusinghiero.
Un grande sacerdote come san Giovanni Maria Vianney (1786-1859) diceva: “Cent’anni senza prete e la gente finirà per adorare gli animali”. Che significa? Significa che, venendo a mancare la mediazione che il prete ben formato assicura fra il soprannaturale e il naturale, la gente sacralizza il naturale, adorando di tutto. Lo stiamo vedendo. Non solo perché molti in effetti sono arrivati ad adorare gli animali, ma anche perché assistiamo alla divinizzazione del corpo umano, fatto oggetto di attenzioni esagerate, in passato certamente non concepibili.
La crisi del sacerdozio è segno e simbolo della crisi della Chiesa stessa. Bisognerebbe domandarsi che cosa noi ci aspettiamo da un sacerdote, che cosa egli ci deve portare. Senz’altro non ci aspettiamo che il sacerdote diventi il centro dell’attenzione, togliendo spazio a ciò che è essenziale, cioè il fatto che lui è un mediatore, non l’oggetto del culto.
Quando il curato d’Ars dice “senza sacerdote” dobbiamo pensare non solo alla sua assenza fisica, ma soprattutto alla sua assenza morale. Lo stesso santo diceva: “Tutto quello che facciamo al di fuori [del servire Dio] è tempo perso”. Io penso che questa massima dovrebbe essere meditata da tutti quei sacerdoti che si impegnano in ogni tipo di attività sociale e culturale ma hanno dimenticato che il loro primo compito e ruolo è quello di portare Dio alle persone che tanto ne hanno bisogno. Al di fuori di questo compito, tutti gli obiettivi umani raggiunti sono comunque di secondaria importanza. Il cardinale Angelo Comastri ha detto: “C’è bisogno di qualcos’altro che può dare soltanto il prete come uomo di Dio. Alla fine, è Dio che manca all’uomo”. Alla fine, quello è proprio il nodo della questione.
Il futurista Filippo Tommaso Marinetti diceva: “Il prete odia il provvisorio, il momentaneo, la velocità, lo slancio, la passione. E in ciò cancella brutalmente l’essenza ardente, preziosa, della morale di Cristo che accordava tutti i diritti e tutti i perdoni e tutte le simpatie al fervore appassionato, alla fiamma volubile del cuore. Il prete dimentica la frase di Cristo alla Maddalena: molto sarà perdonato a chi molto ha amato. E quest’altra: colui che è senza peccato scagli la prima pietra. Sono due glorificazioni del libero amore e due calci all’indissolubilità del matrimonio”. Ecco come una certa cultura dominante vede il prete. Lo vede come il garante del provvisorio, come il guardiano del mondano, come l’alfiere del quotidiano. In realtà, se è vero che il prete agisce nel quotidiano e nel provvisorio, esso deve essere sempre il volto dell’eterno, deve tutto volgere all’eterno, e al di fuori di questo la sua funzione è veramente nulla.
Il prete è l’uomo del sacro, è colui che ci porta a Dio nella liturgia, ma non per suo merito, bensì per vocazione soprannaturale. Il prete deve sapersi fare da parte, deve sapersi diminuire quando un mistero più grande deve crescere per manifestarsi nei cuori di tutti. Purtroppo, gli abusi invalsi nella liturgia moderna hanno portato tanti sacerdoti a diventare protagonisti della celebrazione, soprattutto con i troppi discorsi. Questa tendenza è un tradimento della loro vocazione sacerdotale: significa far venir meno il prete e far crescere l’umano mondanizzato.
Il cardinale Beniamino Stella ha detto: “Non si diventa sacerdoti per amministrare o per gestire, né per un tornaconto personale, bensì per dispensare la vita soprannaturale, che viene da Dio solo; ecco la ricchezza della vocazione sacerdotale. Il sacerdote custodisce i fedeli che gli sono affidati, li mantiene in salute nella fede e, nel contempo, non si stanca di uscire a cercare le altre pecore, quelle che per le più diverse ragioni si sono allontanate”. Mi sembra un quadro abbastanza preciso di quello che è il ruolo del sacerdote. Egli non è lì per la propria promozione, ma per portare la vita soprannaturale, vita dispensata con le parole ma prima di tutto con l’esempio, segno di quel ruolo speciale che gli è affidato.
Aurelio Porfiri
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