Ddl,12 domande e rispose svelano l'inganno
Gianfranco Amato in "La Nuova Bussola" 7-7-2020
1. Esiste in Italia un fenomeno di discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, tale da giustificare l'approvazione di una legge?
I dati ufficiali rilasciati dall'OSCAD, l'Osservatorio per la Sicurezza contro gli atti discriminatori, reperibili nel sito del Ministero dell'Interno, ci dicono che, in otto anni e qualche mese, dal 10 settembre 2010 al 31 dicembre 2018 sono stati segnalati 197 casi di discriminazione per "orientamento sessuale" e 15 casi per "identità di genere", per un totale quindi di 212, che significa meno di 26 casi all'anno.
2. L'Italia si può considerare un Paese omofobo?
Uno dei più autorevoli e accreditati istituti americani d'indagine demoscopica, il Pew Research Center di Washington, ha pubblicato uno studio intitolato The Global Divide On Homosexuality contenente i risultati di un sondaggio sull'atteggiamento verso l'omosessualità nelle principali aree geografiche del mondo. Il dato davvero interessante è che l'Italia, secondo quello studio, si colloca nella top ten, tra le dieci nazioni più gay friendly a livello mondiale, con il 74% della popolazione che dichiara la propria non ostilità all'omosessualità, e un 18% che, invece, professa un atteggiamento contrario. Il nostro Paese si colloca un gradino sotto la liberalissima Gran Bretagna (76% a favore e 18% contro), anch'essa appena sotto la laicissima Francia (77% a favore e 22% contro). Quanto, poi, il clima italiano sia davvero gay friendly almeno in politica, lo dimostra anche un dato incontrovertibile. Nel Mezzogiorno del nostro Paese, che l'immaginario collettivo dipinge come una terra culturalmente arretrata e sacca della più becera omofobia, ben due presidenti delle due più importanti regioni, la Sicilia e la Puglia, sono stati eletti pur essendo omosessuali dichiarati e pubblicamente conviventi con i rispettivi partner. La circostanza, com'è noto, non ha impedito loro una brillante carriera culminata con l'elezione diretta da parte dei cittadini.
3. Esiste davvero un vuoto normativo e la necessità di tutelare le persone omosessuali e transessuali attraverso leggi che non ci sono?
Non esiste nessun vuoto normativo. Appare infatti più che sufficiente a tutelare ogni persona contro i deprecabili atti di violenza, di offesa, di discriminazione per ragioni di orientamento sessuale, il ricco armamentario penale dei delitti di ingiuria, di diffamazione, di minacce, di violenza privata, di atti persecutori, di maltrattamenti, di lesioni personali, di omicidio, eventualmente aggravati, se commessi per discriminazione dovuta proprio ad orientamento sessuale, dalla circostanza dei motivi «abietti», di cui all'art. 61, n. 1, del Codice penale.
4. In Italia già si utilizza questa aggravante?
Sì, basti ricordare il caso del Tribunale di Napoli, Sezione VII, Collegio C, che con la sentenza 11 dicembre 2014, n. 17473, condannò a dieci anni di reclusione tre aggressori di un ragazzo omosessuale, applicando la citata aggravante, proprio perché «l'inaudita e ingiustificata violenza» dei colpevoli era motivata dall'orientamento sessuale della vittima. Esiste, poi, un'ampia tutela normativa contro ogni forma di discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
5. Se già, quindi, esistono, tutte le tutele legali anche per i particolari casi legati all'omosessualità e alla transessualità, a che cosa servono nuove norme e a cosa puntano i promotori di tali norme?
In mancanza di reali esigenze concrete, qualunque ampliamento delle garanzie giuridiche già esistenti produrrebbe l'effetto paradossale di sconvolgere e rovesciare l'ordine etico della società umana. Infatti, l'inevitabile punto di approdo di qualunque intervento normativo in materia - com'è già avvenuto in altri Paesi europei - è costituito dal matrimonio omosessuale, dall'adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, nonché dalla loro "capacità di riproduzione" attraverso la tecnica vergognosa della fecondazione artificiale eterologa.
Non dobbiamo neppure dimenticare che la lobby omosessualista punta esplicitamente ad invocare la cosiddetta "affirmative action", ovvero lo strumento politico che mira a ristabilire e promuovere principi di equità razziale, etnica, di genere, sessuale e sociale. In altre parole, nel momento in cui si riconosce che la categoria degli omosessuali e transessuali è stata ingiustamente discriminata al punto da meritare una privilegiata tutela giuridica, occorre rimediare agli effetti della discriminazione attraverso misure compensative, quali ad esempio quote riservate. È ciò che è successo con gli afroamericani negli USA. Gli obiettivi dell'affirmative action sono raggiunti, normalmente, attraverso quote riservate nelle assunzioni, nelle cariche istituzionali, nell'assegnazione di alloggi pubblici, nell'erogazione di servizi e così via. Già qualcuno comincia a parlare di "quote arcobaleno", in analogia rispetto a quanto accaduto con le cosiddette "quote rosa" in materia di discriminazione femminile. Quindi lo Stato rischia non solo di offrire un modello comportamentale economicamente più vantaggioso, in un momento di grave crisi economica, ma finisce anche per discriminare, escludendoli dalle graduatorie, soggetti non appartenenti al gruppo privilegiato, che risultino in ipotesi più competenti e capaci. Con tale assurda discriminazione lo Stato renderebbe un pessimo servizio al nostro Paese.
6. La proposta di legge attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati intende punire la discriminazione, l'istigazione alla discriminazione, la violenza e la provocazione alla violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere. Cosa non va in questa proposta?
Premesso che, come si è visto, già esistono le tutele di legge previste per questi casi, e premesso che non appare opportuno creare una categoria "privilegiata" di soggetti svantaggiati rispetto ad altri oggetti come i disabili, gli anziani, i minori, eccetera, ci sono alcuni aspetti di questa proposta di legge che proprio non convincono.
Innanzitutto, occorre chiedersi cosa significhi discriminare. Non risulta, infatti, chiaro in cosa consisterebbe la "discriminazione", e in quali ambiti sarebbe vietata.
Giusto per restare in ambito religioso - viste le rassicurazioni fornite anche attraverso il quotidiano della CEI "Avvenire" - se, per esempio, il rettore di un seminario diocesano decidesse di non ammettere o di espellere un seminarista perché pratica l'omosessualità, integrerebbe evidentemente un atto di discriminazione sanzionabile ai sensi dell'art. 604 bis, lett. a) del Codice Penale, secondo la riforma in discussione alla Camera. Stessa cosa se un parroco decidesse di non dare un incarico pastorale a un omosessuale convivente e militante per i diritti Lgbt, o decidesse di non affidare i ragazzi dell'oratorio per un campo estivo a un responsabile scout che si trovasse nelle stesse condizioni. Nell'identica situazione si troverebbe un parroco che rifiutasse la provocazione di due lesbiche conviventi e militanti per i diritti Lgbt che chiedessero, per la strana coppia, una benedizione in chiesa. Discriminazione sarebbe considerata anche quella di un pasticciere cattolico che si rifiutasse di confezionare una torta "nuziale" per la cerimonia di un'unione civile tra due omosessuali. O un fotografo cattolico che rifiutasse di prestare il proprio servizio fotografico per un'analoga cerimonia. Le ipotesi potrebbero proseguire fino all'esclusione di un uomo che si "sente" donna dall'accesso ai bagni riservati alle donne, o dall'accesso agli spogliatoi femminili di una piscina. In questo caso la discriminazione avverrebbe sulla base dell'"identità di genere".
Sempre rispetto a questo tema, un istituto scolastico non potrebbe imporre un codice di abbigliamento a un insegnante transessuale o persino a un docente drag queen, perché il variopinto trucco e l'eccentrico costume costituirebbero un'espressione dell'identità di genere tutelata per legge. La scuola non potrebbe porre in essere una discriminazione nei confronti dell'insegnante come i genitori non potrebbero rifiutarsi di mandare i propri bimbi a scuola con una simile maestra. Raccogliere, poi, le firme per protestare contro l'istituto scolastico integrerebbe un'istigazione alla discriminazione. Né sarebbe, ovviamente, consentito ai genitori impedire che i propri figli partecipino ai cosiddetti "corsi gender", quelli appunto basati sul concetto di identità di genere.
7. Per quanto riguarda la violenza e la provocazione alla violenza, cosa c'è che non va?
Anche su questo punto possono sorgere dei problemi. Se è vero, infatti, che esistono già le leggi che reprimono ogni comportamento violento e persecutorio, è altrettanto vero che il mondo dell'omosessualismo militante tende a considerare qualunque manifestazione del pensiero che invita a differenziare in relazione all'orientamento sessuale e all'identità di genere come un discorso di odio che porta con sé l'incitamento alla violenza nei confronti degli omosessuali e transessuali. L'esperienza dei cosiddetti "reati d'odio" (hate crimes) introdotti soprattutto nei Paesi anglosassoni, mostra come sia oramai acquisita a livello legale e giudiziario l'equazione discriminazione/odio = violenza.
Anche in Italia, come nei citati Paesi anglosassoni, l'attività volta ad impedire che gli omosessuali o i transessuali possano sposarsi, o adottare figli, potrebbe essere considerata istigazione alla discriminazione e all'odio e, quindi, una forma di violenza.
8. Ci sono avvisaglie di questo clima anche in Italia?
Posso citare quello che io stesso ho potuto sperimentare personalmente. Durante un confronto avuto con l'on. Ivan Scalfarotto al Liceo Scientifico Cavour di Roma il 20 ottobre 2014, per esempio, mi sono sentito apostrofare come "violento" dal suddetto parlamentare, semplicemente per il fatto di aver ribadito la mia ferma contrarietà al fatto che gli omosessuali possano sposarsi o adottare figli. In quell'occasione Scalfarotto mi ricordò che esiste anche una «violenza verbale» e che «le parole sono pietre».
Recentemente un giornalista ha scritto di me la seguente frase: «Gianfranco Amato si chiede: "Sostenere pubblicamente che l'unica vera famiglia è quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna è omofobia?". E ovviamente la risposta è sì, dato che non esiste violenza più grande di un tizio che pretende che le altre famiglie siano considerate "false" solo perché lui erge a dogma i suoi pruriti sessuali». Se a questo aggiungiamo il fatto che un magistrato della Repubblica - il dott. Marco Gattuso, giudice del Tribunale di Bologna - ha definito sul suo profilo Facebook il Family Day del 20 giugno 2015 svoltosi a Roma come una manifestazione «di talebani che hanno riempito di odio una piazza», beh, sinceramente, qualche preoccupazione l'avverto.
E, poi, è sufficiente vedere come il quotidiano "Repubblica" abbia dedicato, lo scorso 28 giugno 2020, un'intera pagina al tema, pubblicando anche un'intervista a Simone Alliva che tra le varie risposte ha dato anche questa: «Ricordate lo spauracchio dell'inesistente "gender"? I libri messi al bando? I Pro-life che tuonavano contro i documenti con scritto genitore 1 e genitore 2? Tutto questo si è trasformato in un'istigazione all'odio». È chiarissimo il clima che ci attende qualora venisse approvata questa devastante proposta di legge.
Il problema è che concetti come discriminazione, odio, e violenza rischiano di diventare generici, e se non esattamente definiti, lasciano un margine di discrezionalità alla vittima e al giudice del tutto inaccettabili.
9. Quali sono le pene previste nella proposta di legge in discussione?
In caso di discriminazione o istigazione alla discriminazione, il malcapitato "discriminatore" rischierebbe la reclusione fino a un anno e sei mesi e la multa fino a 6.000 euro. In caso, invece, di violenza o provocazione alla violenza, la pena prevista è quella della reclusione da quattro a sei anni. In più, in entrambe le ipotesi, al giudice verrebbe concessa la facoltà di disporre a carico del condannato «l'obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un'ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno; la sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l'espatrio per un periodo non superiore ad un anno, il divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere e il divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni, nonché, se il condannato non si oppone, la pena accessoria dell'obbligo di prestare un'attività non retribuita in favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità», a favore di organizzazioni a tutela di omosessuali e transessuali.
Tra l'altro, occorre evidenziare che se un magistrato della pubblica accusa, sulla base di una denuncia, dovesse ravvisare che una comunità religiosa ha tra i propri scopi anche quello dell'incitamento alla discriminazione per motivi fondati sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere, si potrebbe ravvisare a carico del responsabile della comunità e dei relativi membri il reato di partecipazione ad un'associazione vietata dall'art. 604 bis del Codice penale. In questo caso, il semplice membro sarebbe punito, per il solo fatto della sua partecipazione alla comunità, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, mentre il responsabile e tutti coloro che dirigono la comunità incorrerebbero, per ciò solo, nella pena della reclusione da uno a sei anni. Circostanza quest'ultima che, tra l'altro, renderebbe possibili persino le intercettazioni telefoniche e ambientali.
10. Questa proposta di legge non rischia di apparire come uno strumento per diffondere l'ideologia omosessualista nella società italiana?
Ci sono alcuni indiscutibili elementi che confermano tale preoccupazione. Pensiamo, ad esempio, all'istituzione della «Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», con espressa previsione di organizzare «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», quindi anche per le scuole paritarie di ispirazione cristiana.
Ma a preoccupare è soprattutto la previsione che l'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale) elabori «con cadenza triennale una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per obiettivi e l'individuazione di misure relative all'educazione e istruzione, al lavoro, alla sicurezza, anche con riferimento alla situazione carceraria, alla comunicazione e ai media». Ciò significherebbe dare valore legale al documento dello stesso Unar già elaborato nel 2013 proprio con il titolo di "Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni", il quale si sarebbe dovuto articolare proprio secondo quattro "assi": (I) Educazione e Istruzione, (II) Lavoro, (III) Sicurezza e Carcere, (IV) Comunicazione e Media. Questo significa penetrare in maniera pervasiva in tutti i principali settori della società.
11. Si parla anche del rischio di legalizzare la prospettiva della cosiddetta ideologia gender. È un rischio reale?
Il testo parla espressamente di «identità di genere». Vorrei ricordare che in Italia esiste un documento intitolato Linee guida per una comunicazione rispettosa delle persone LGBT, redatto dall'Unar, ente governativo appartenente al Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che così definisce il concetto di identità di genere: «È il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: "Io sono uomo, io sono donna", indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». Questa idea è alla base della cosiddetta ideologia gender, oggetto di non poche critiche che sarà sempre più difficile continuare a sollevare nel caso in cui venisse approvata la proposta di legge in discussione.
12. Per la prima volta, cioè, si introdurrebbe nel nostro ordinamento giuridico il concetto di «identità di genere»? Quali conseguenze questo potrebbe comportare dal punto di vista giuridico?
L'idea che sta alla base di questa ideologia è che attraverso una mera autodichiarazione un individuo possa scegliere il proprio sesso, senza alcuna modificazione della sua struttura fisica che possa esternare in maniera evidente il sesso scelto. In definitiva, la percezione soggettiva deve prevalere sull'evidenza oggettiva. Ora, se questa singolare idea può, in astratto, essere presa in considerazione nell'ambito filosofico, come quello del post-strutturalismo e del decostruzionismo, nel concreto ambito giuridico può creare più di un problema.
Il diritto per attuare le funzioni regolatrici che gli sono proprie necessita di situazioni, fatti e dati definitivi, determinati e soprattutto comprovabili. Ci sono casi in cui la realtà si deve poter verificare e valutare con evidenza obiettiva. Questo vale, per esempio, con il fenomeno delle cosiddette "quote rosa", ovvero quel meccanismo legislativo con cui viene garantito un mimino di partecipazione femminile in determinati ambiti come quello politico o aziendale. Ora, può invocare tale diritto un uomo che si sente donna ma che non intende sottoporsi ad alcun trattamento chirurgico per modificare il suo aspetto fisico esteriore? Un uomo con i propri genitali intatti, con le proprie caratteristiche maschili totalmente integre può pretendere che gli vengano applicate le norme sulle quote rosa, se si sente donna? E coloro che sono tenuti ad interpretare e applicare la legge, come possono verificare e valutare una percezione soggettiva non comprovabile e indimostrabile? Altro esempio: se nel sistema legale di un Paese le donne vanno in pensione prima degli uomini, perché un uomo che si sente donna non potrebbe invocare il diritto delle donne a ritirarsi dal lavoro prima del raggiungimento dell'età prevista per gli uomini?
Questa pericolosa intromissione nel campo giuridico da parte della speculazione filosofica relativa al concetto gelatinoso e arbitrario di identità di genere rischia di mettere in crisi lo stesso funzionamento del diritto.
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