Vaticano II 50 anni dopo di don Enrico Finotti Editrice Fede&Cultura
Una proposta per la riforma della riforma della liturgia: cento pagine che don Enrico ci offre con il capitolo IX del suo volume
IX
La Liturgia nel postconcilio: tra rinnovamento e crisi
Le scelte conciliari e la conseguente riforma della liturgia furono fonte di un grande rinnovamento spirituale e furono accolte universalmente con grande adesione ed entusiasmo. I frutti di grazia non tardarono a manifestarsi lì dove l'applicazione della riforma liturgica fu coerente e fedele col magistero della Chiesa, che la guidava con saggezza e la garantiva con la sua autorità. È ciò che il papa Benedetto XVI ha affermato nel discorso prenatalizio alla Curia romana il 23 dicembre 2005:
Quarant'anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell'agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l'opera svolta dal Concilio.
Nella esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis del 22 febbraio 2007, il Papa riconosce insieme ai Padri sinodali l'indiscusso valore della riforma liturgica conciliare:
I Padri sinodali hanno constatato e ribadito il benefico influsso che la riforma liturgica attuata a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II ha avuto per la vita della Chiesa. Il Sinodo dei Vescovi ha avuto la possibilità di valutare la sua ricezione dopo l'Assise conciliare. Moltissimi sono stati gli apprezzamenti. Le difficoltà ed anche taluni abusi rilevati, è stato affermato, non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate. Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all'interno dell'unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture.
I Padri sinodali, inoltre, non mancano di indicare quale sia l'unico modo consentito per intendere la riforma liturgica, quello che riconosce la continuità storica e teologica con la liturgia della Chiesa di tutti i tempi:
Guardando alla storia bimillenaria della Chiesa di Dio, guidata dalla sapiente azione dello Spirito santo, ammiriamo, pieni di gratitudine, lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali in cui facciamo memoria dell'evento della nostra salvezza. Dalle molteplici forme dei primi secoli, che ancora splendono nei riti delle antiche Chiese di Oriente, fino alla diffusione del rito romano; dalle chiare indicazioni del Concilio di Trento e del Messale di san Pio V fino al rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II: in ogni tappa della storia della Chiesa la Celebrazione eucaristica, quale fonte e culmine della sua vita e missione, risplende nel rito liturgico in tutta la sua multiforme ricchezza. La XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, svoltasi dal 2 al 23 ottobre 2005 in Vaticano, ha espresso nei confronti di questa storia un profondo ringraziamento a Dio, riconoscendo operante in essa la guida dello Spirito Santo.
Benedetto XVI testimonia il senso esatto della tradizione e della continuità nell'intento dei Padri conciliari riguardo alla riforma liturgica, affermando:
Culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (SC 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa così la grande educatrice al primato della fede e della grazia. La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell'hodie delle vicende umane l'opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legittima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione include essa stessa in qualche modo il progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce .
Su queste inequivocabili dichiarazioni del magistero della Chiesa è evidente che si deve distinguere con cura i documenti autentici della liturgia riformata dalle loro interpretazioni e applicazioni abusive. E, mentre l'editio typica dei riti liturgici deve essere accolta con umile obbedienza e gioiosa fiducia nella Chiesa che l' ha promulgata, gli abusi, invece, devono essere individuati, diffidati e respinti. Purtroppo una diffusa e protratta mancanza di vera formazione liturgica espone molti a confondere la liturgia autentica stabilita dalla Chiesa con la sua realizzazione sommaria ed erronea, invalsa oramai nel costume celebrativo di molte comunità. In particolare deve essere contrastata quella mentalità sempre più diffusa che tende a rigettare, senza alcun discernimento, le forme abusive insieme a quelle autentiche. In tal modo si colpisce, a causa degli errori, l'insieme della riforma conciliare e addirittura le stesse dichiarazioni del Concilio e dei Sommi Pontefici successivi. È evidente che con questo modo di procedere si incrina gravemente il senso della Chiesa e il valore del suo magistero. Se, infatti, il magistero di un solo Concilio o anche quello un solo Pontefice viene rigettato, tutti i Concili e tutti i Pontefici vengono esposti al giudizio privato, dimenticando l'aspetto soprannaturale del magistero della Chiesa: la conseguenza è la messa a rischio della fiducia religiosa che i fedeli devono poter avere verso di esso per esercitare l'obbedienza autentica di figli della Chiesa. Stabilite queste coordinate fondamentali è certamente utile verificare le cause di un fenomeno palese: il crollo della liturgia nel postconcilio. Se la liturgia rinnovata è una fonte di benedizione per moltissimi fedeli semplici e umili comunità ecclesiali, è pur vero che il postconcilio ha anche esposto i fedeli stessi a forme indebite di culto, ad esagerazioni o creazioni soggettive non più conformi a ciò che era stabilito dalla Chiesa. L'esemplificazione è qui inutile, essendo un fenomeno conosciuto e alquanto dibattuto. Non pochi documenti del magistero se ne sono occupati e fin dall'inizio lo hanno contrastato.
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Gli abusi liturgici sono sempre esistiti e non è conforme a verità mitizzare il passato, quasi che esso sia stato indenne da pratiche abusive, e proporre di conseguenza un ritorno al precedente regime liturgico come terapia certa per superare ogni abuso. Infatti, basterebbe una semplice indagine storica, per rilevare come – purtroppo – l'abuso abbia caratterizzato, in differenti forme e intensità, anche altre epoche. Il campionario contenuto nei decreti tridentini contro gli abusi ne è eloquente esempio. Non basta quindi avere dalla Chiesa un buon rito, ma è necessario celebrarlo bene, con competenza e profondità spirituale e quindi con efficacia anche pastorale. Il messale può essere paragonato a uno spartito musicale: non basta averlo sotto gli occhi, né eseguirlo suonandone semplicemente le note, considerate nella loro altezza e durata. Si tratterebbe – limitandosi a ciò – di un semplice solfeggio che soffocherebbe il genio dell'autore, che attraverso e "dietro" le note s'esprime. Non si risolve il problema semplicemente mutando il rito, ma intraprendendo una seria formazione sia teologica, sia relativa all'ars celebrandi . Chi ben conosce il novus Ordo e chi lo celebra come è stabilito nel messale, celebra una Messa bella, degna, sacra. Ma se al rito stabilito dalla Chiesa si sostituisce l'invenzione e la soggettività creativa del momento, la colpa non è della Chiesa, né del novus Ordo, ma della incompetenza o anche della presunzione, magari in buona fede, dei ministri che celebrano. Si potrebbe inoltre constatare, che l'uso della lingua parlata e il rivolgersi verso il popolo, costituiscono stimoli notevoli ad un maggior controllo dell'arte del celebrare. Infatti, pronunziare le preci nella lingua del popolo, implica un saper parlare bene, formulare con espressione i termini e comunicare efficacemente i contenuti. La lingua parlata non consente una recitazione formale, veloce e incolore, ma esige correttezza sintattica e proprietà di linguaggio, mancando le quali non tarderebbe a farsi udire la critica e il disagio di chi ascolta. La lingua latina poteva più facilmente abbandonare le preci ad una recitazione formalistica, i cui contenuti il popolo non poteva controllare. Invece la celebrazione ad populum espone i gesti del sacerdote, l'espressione del suo volto, lo sguardo dei suoi occhi, il modo di trattare il sacramento, di elevarlo, di deporlo, di assumerlo, di purificare i vasi sacri, ecc. al giudizio e al controllo dell'intera assemblea. Ciò non succede quando tutto ciò è nascosto allo sguardo dei fedeli, perché il sacerdote lo copre dietro la sua persona. Da questo punto di vista la riforma liturgica porta un deterrente maggiore all'abuso e uno stimolo più efficace a ben celebrare. Ciò di fatto avviene nel caso di tutti quei sacerdoti, che percepiscono questa loro esposizione al popolo e sono coscienti della loro responsabilità nel celebrare in modo edificante. Si potrebbe dire che il novus Ordo è intollerante della mediocrità, ma esige una maggior preparazione e una più profonda e vigile spiritualità da parte del clero. Se queste vengono a mancare, il sacerdote ha oggi meno "difese" rispetto al vetus Ordo ed è più esposto alla valutazione del popolo circa i suoi atti liturgici. Una messa celebrata senza alcuna venerazione e pietà, oggi, è molto più palese che nel precedente Ordo: si pensi, per esempio, alla messa letta, detta sottovoce quasi nella sua integralità. La accresciuta possibilità dei fedeli di entrare nella comprensione del rito impone quindi la necessità di una maggiore perizia nella celebrazione da parte dei sacerdoti.
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Ciò che potrebbe sorprendere è il fatto che proprio quando la liturgia ebbe ricevuto una così solenne tematizzazione e 'consacrazione' a coronamento degli sforzi secolari del movimento liturgico e in una così solenne assise come un Concilio Ecumenico, si ritrovi, nella ormai nota crisi postconciliare, a percorrere sentieri così precari e a produrre frutti talora così sconcertanti. Ebbene le cause che stanno a monte del paraconcilio, analizzate in precedenza, paiono essere le medesime del crollo della liturgia nel periodo postconciliare. Sembra quindi opportuno riprendere le due formae mentis, discussione e pastorale, considerandone l'influenza in ambito liturgico.
1. La forma mentis 'discussione'
Il Concilio, per se stesso, come abbiamo visto in precedenza, ha suscitato nella Chiesa una forma mentis, che è divenuta abituale nel mentalità del popolo di Dio, quella di aprirsi a discutere i problemi in vista di nuove prospettive per la Chiesa nel mondo odierno. Tale atteggiamento ha investito pure la liturgia nell'intento di una sua necessaria e legittima riforma. Ciò avvenne puntualmente attraverso gli organi, i tempi e le modalità stabiliti dalla Chiesa. Tuttavia, promulgata la Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium e, successivamente, editi i libri liturgici riformati, la discussione avrebbe dovuto propriamente cessare o comunque assumere i limiti e le prerogative proprie di una situazione diversa da quella in cui la riforma era in fieri. Si trattava di orientare la discussione non più a definire le forme rituali, ora stabilite, ma a spiegarne le motivazioni e diffonderne l'attuazione. Invece si continuò a discutere come prima, come se la Chiesa non avesse scelto e i suoi libri liturgici costituissero delle pure linee orientative, prive di qualunque aspetto tassativo e vincolante. Si ritenne quindi conforme a verità esporre la liturgia ad un regime di permanente discussione, di ulteriore ricerca e di continua sperimentazione. Così essa fu abbandonata alla 'dittatura degli esperti'. Il popolo di Dio si trovò espropriato di quella sicurezza e di quella continuità nella tradizione che tanto era solida nell'esercizio del culto cattolico. Certamente il tempo del Concilio valorizzò la grande quantità delle ricerche storiche, teologiche e spirituali che valenti studiosi e eminenti periti portarono nel dibattito conciliare. Ciò fu un dono straordinario e una indispensabile fonte per la riforma liturgica. Ma voler tenere il cantiere sempre aperto, anzi erigere a norma questa apertura, senza prevedere il raggiungimento di una sintesi stabile e di una forma definita da consegnare al popolo di Dio, portò confusione e aprì la strada a una creatività senza alcun limite. Ne nacque così l'illusione che tutto dovesse essere permanentemente rivisitato alla luce della complessità storica emersa dagli studi e dalle ricerche. La liturgia però, in questo modo, venne tolta dal controllo dei Pastori e consegnata al giudizio delle diverse e discordanti scuole teologiche. Ma soprattutto il popolo di Dio, pastori e fedeli, si trovò privato del senso della liturgia come sua legittima 'proprietà'. Essa, invece gli venne espropriata e gestita dalla categoria dei 'competenti'. Su questa strada i fedeli si trovarono costretti a percorrere altre vie, più congeniali alla loro pietà, non potendo stare al passo né con gli studi e i dibattiti liturgici, né con le permanenti variazioni rituali che ne conseguono. Quella divaricazione tra liturgia e pietà popolare, che intervenne per altre cause storiche nel medioevo latino, si riproporrebbe oggi qualora la liturgia perdesse la sua identità, la sua forma stabile e la sua continuità nel tempo e fra le diverse comunità ecclesiali. È questo il motivo dell'insorgenza di tante forme alternative alla liturgia che escono da disparati gruppi e movimenti, ed espressioni soggettive della pietà, che portano divisione e vanificazione di progetti pastorali seri. Inoltre non potendo più confrontarsi con un rito dai contorni definiti, stabile nelle sue parti e nelle sue preci, non vi è più una base sicura di riferimento per la formazione liturgica, che diviene vaporosa, incolore e inconcludente. Infatti non si riconosce più con chiarezza la liturgia nella sua identità oggettiva: non si riesce più a distinguerla da un qualsiasi atto soggettivo di culto espresso da gruppi o da singoli. Celebrarla per molti oggi significa semplicemente fare un qualsiasi genere di preghiera, che è tanto maggiormente considerata quanto più è stata creata qui ed ora dagli operatori del momento. La definizione canonica della liturgia, «che è ritenuta l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale per mezzo di segni sensibili viene significata e realizzata, in modo proprio a ciascuno, la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto di Dio pubblico integrale» (Can. 834 § 1) é semplicemente sconosciuta. Ancor meno è tematizzata l'affermazione successiva del medesimo canone che dice: «Tale culto allora si realizza quando viene offerto in nome della Chiesa da persone legittimamente incaricate e mediante atti approvati dall'autorità della Chiesa» (Can. 834 § 2). Non si ritiene assolutamente che l'ambito liturgico possa essere definito ed individuato in criteri e limiti oggettivi, come invece determina il codice di diritto canonico: da queste definizioni è impossibile prescindere, se si vuole conoscere veramente quale sia e a quali condizioni si attui il culto di Cristo e della sua Chiesa. Si nota inoltre che questo clima di discussione è prevalentemente radicato in tutti coloro - sacerdoti, religiosi e laici - che possono esibire una particolare preparazione liturgica: quelli che magari hanno titoli accademici, che hanno frequentato corsi formativi, che si aggiornano negli studi e sulle riviste liturgiche, ecc. Infatti tutti costoro, messi a contatto con la grande ricchezza degli studi liturgici, valorizzata e impiegata dal Concilio, continuano in questo clima indubbiamente fascinoso. Occorre dire con chiarezza, che non si vuole qui estinguere o frenare la ricerca, tuttavia è necessario accettare serenamente le avvenute scelte della Chiesa in ordine alla rinnovata forma liturgica. Ed ecco allora verificarsi uno strano fenomeno: un sacerdote liturgista sembra essere esposto in misura maggiore di un semplice sacerdote alla manipolazione del culto; il gruppo liturgico di una parrocchia sente di dover cambiare qualche cosa nei riti per non riproporre, come si dice, la 'fissità rituale'; la gestione della liturgia da parte dei 'competenti' è diventata più problematica di quella dei 'semplici' che celebrano come è stabilito. La frequenza ai corsi di formazione liturgica rischia dunque di produrre dei manipolatori, anziché intelligenti e umili servitori della liturgia. Simili e altre contraddizione rivelano i danni di un approccio alla riforma liturgica in termini di permanente discussione e di costante e libera creatività. Certamente non mancano bravi e competenti liturgisti attraverso il cui lavoro la Chiesa riceve un indubbio e continuo beneficio, ma essi non fanno notizia e il loro valore non è noto. È allora fuori discussione che gli studi liturgici debbano continuare, le ricerche proseguire fino alle loro ultime conseguenze: l'entusiasmo della riscoperta di tante fonti cristiane deve essere tenuto in onore, la Chiesa deve camminare e il Regno di Dio deve poter irrompere sempre più nella storia degli uomini. Ma tale ricerca deve sempre avvenire nella Chiesa e con la Chiesa, nella fedeltà interiore ed esteriore al suo magistero, nell'obbedienza convinta ed umile alle disposizioni e alle leggi liturgiche stabilite, senza indulgere con impazienza ed insofferenza, sia ad archeologismi superati, sia a creazioni pericolose e incerte. La fedeltà ai riti, quali oggi la Chiesa li ha stabiliti, deve risplendere nei pastori e nei fedeli, nei teologi, nei liturgisti e nei pastoralisti e fra gli animatori delle nostre parrocchie. Non vi è una libertà maggiore per gli esperti rispetto agli altri fedeli, ma vi è un'unica obbedienza che pone tutti a contatto con le fonti liturgiche della grazia, gerarchia e fedeli, sapienti e semplici. L'unica liturgia è patrimonio di tutti e richiede che da tutti nella Chiesa sia rispettata e amata.
2. La forma mentis 'pastorale'
È a tutti noto come anche la riforma liturgica s'inscriva nel fondamentale intento pastorale del Vaticano II.
Alla vigilia del Concilio, infatti, appariva sempre più viva in campo liturgico l'urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati. D'altra parte, la forte esigenza pastorale che animava il movimento liturgico richiedeva che venisse favorita e suscitata una partecipazione più attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche attraverso l'uso delle lingue nazionali e che si approfondisse il tema dell'adattamento dei riti nelle varie culture, specie in terra di missione.
Infatti, mediante essa, la Chiesa vuole promuovere e consentire una partecipazione piena, consapevole e attiva da parte di tutti i fedeli alle azioni liturgiche:
è ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto» (1 Pt 2, 9; cfr. 2, 4-5), ha diritto e dovere in forza del Battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e dell'incremento della Liturgia: essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d'anime, in tutta la loro attività pastorale, devono sforzarsi di ottenerla attraverso un'adeguata formazione (SC 14).
È importante sottolineare che la partecipazione piena, attiva e consapevole dei fedeli non è una concessione temporanea che la benevolenza della Chiesa fa ai suoi figli, ma è un diritto-dovere costitutivo del cristiano in forza del battesimo. I fedeli sono convocati e chiamati ad assolvere gli atti liturgici abilitati dal carattere impresso dal battesimo e da quello perfettivo della confermazione. Battesimo e confermazione stanno a fondamento della partecipazione di tutti fedeli, secondo il ruolo specifico di ciascuno, alla liturgia della Chiesa. Tale coscienza teologica e fondamento dogmatico sono più che sufficienti per stornare ogni ipotesi riduzionistica nei riguardi della partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia. Partecipare convenientemente all'azione liturgica non può essere ritenuto un optional e un accessorio - quasi che una attuazione essenzialmente valida degli atti liturgici fosse da considerare bastevole e potesse essere assunta come norma - ma la partecipazione attiva deve invece costituire un permanente assillo della pastorale della Chiesa per raggiungere efficacemente, con quanto maggior frutto possibile, il fine stesso della Liturgia e dei sacramenti nel cuore dei fedeli, ossia la santificazione. Se la riforma liturgica, quindi, si muove sul piano pastorale, ciò non significa che la sua azione si riduca ad essere contingente e marginale, ma assolve in realtà ad esigenze che scaturiscono dal dogma e portano ad esso. Infatti, la partecipazione attiva affonda le sue radici nello statuto ontologico creato nel fedele dal battesimo e contrassegnato dal sigillo crismale. Per questo le modalità di partecipazione attiva dei fedeli alla Liturgia potranno essere diversamente definite dalla Chiesa in varie epoche e contesti storici, potranno pure essere anche estese o ridotte secondo il bene proprio di situazioni e contingenze diverse, ma mai potranno essere, almeno a livello di principio, estinte. I molteplici modi di partecipazione liturgica si trovano ad essere intermedi e a realizzare un ruolo di ponte tra il battesimo che li esige e la santificazione che ne è il fine. Il valore delle modalità contingenti di partecipazione attiva sarà commisurato dalla loro congruenza sia con la natura battesimale del cristiano, che con la sua santificazione finale. Come si potrà ora concludere, la partecipazione fruttuosa alla Liturgia e nel grado massimo possibile da parte dei ministri e dei fedeli non è questione laterale e facoltativa, ma esigenza intrinseca ad essa, in quanto la finalità dell'azione liturgica nel tempo della Chiesa è quella di attuare il mistero pasquale di Cristo per coinvolgere in esso tutti gli uomini e salvarli. L'allora professor J. Ratzinger scriveva:
[La liturgia] appare forse anche la questione meno importante a chi sta fuori ed è un po' tentato di vedervi una specie di estetismo, un gioco di specialisti e di storici che vogliono creare un campo conveniente alle loro scoperte. Ma la liturgia è questione di vita o di morte per la Chiesa che, se non riesce a portarvi i fedeli e in modo che siano essi stessi a compierla, ha fallito il suo compito ed ha perso il suo diritto ad esistere. Ora proprio in questo punto, c'era nella vita della Chiesa una crisi profonda, le cui radici risalgono molto lontane. Nel tardo medioevo era andata sempre più scomparendo la conoscenza della vera essenza della liturgia cristiana. Le esteriorità passarono in primo piano e avvolsero tutto l'insieme. L'antica sostanza cristiana, rimasta integra nei testi, era talmente ricoperta da pii accessori da non giungere più a portare frutto.
Il Papa Paolo VI si fa catechista e introduce egli stesso, come Pastore supremo, il popolo di Dio nella partecipazione attiva alle azioni liturgiche:
E se nel nuovo rito troverete collocata in migliore chiarezza la relazione fra Liturgia della Parola e Liturgia propriamente eucaristica, quasi questa risposta realizzatrice di quella, o se osserverete quanto sia reclamata alla celebrazione del Sacrificio eucaristico l'assistenza dell'assemblea dei fedeli, i quali alla Messa sono e si sentono pienamente 'Chiesa', ovvero vedrete illustrare altre meravigliose proprietà della nostra Messa, non crediate che ciò intenda alterare la genuina e tradizionale essenza; sappiate piuttosto apprezzare come la Chiesa, mediante questo nuovo e diffuso linguaggio, desidera dare maggiore efficacia al suo messaggio liturgico, e voglia in maniera più diretta e pastorale avvicinarlo a ciascuno dei suoi figli ed a tutto l'insieme del Popolo di Dio. […] Le conseguenze previste, o meglio desiderate, sono quelle della più intelligente, più pratica, più goduta, più santificante partecipazione dei fedeli al mistero liturgico, cioè alla ascoltazione della Parola di Dio, viva e risonante nei secoli e nella storia delle nostre singole anime, e alla realtà mistica del sacrifici sacramentale e propiziatorio di Cristo. Non diciamo dunque 'nuova Messa', ma piuttosto 'nuova epoca' della vita della Chiesa.
Stabilito il fondamento della partecipazione attiva, non si può non constatare come nella storia della Chiesa si possano riscontrare disposizioni diverse in ordine ad essa, che a un primo sguardo potrebbero apparire contraddittorie e incoerenti. Non è qui possibile un'indagine sul vastissimo campo della storia della liturgia, ma basteranno alcuni brevi accenni. Il Concilio Tridentino, ad esempio, sembrò chiudere ai fedeli ogni partecipazione alla liturgia, quando decise sia riguardo alla lingua latina escludendo le lingue volgari, sia quando dispose per gli anni avvenire una fissità rituale intoccabile. In realtà salvò il contenuto del mistero nell'involucro sigillato del Messale tridentino, definito e imposto a tutta la Chiesa. Come un genitore blocca temporaneamente il conto al figlio dilapidatore, per ridonarglielo integro in tempi migliori, così la madre Chiesa chiuse il mistero sacramentale nello scrigno di una liturgia presidiata per riconsegnarlo ai suoi figli integro, dopo il ciclone dell'eresia, che avrebbe minacciato di svuotarlo. Questa operazione fu in realtà di giovamento per i fedeli di allora e delle successive generazioni a difesa del loro diritto di poter ricevere indenne il deposito della Fede e pure le sorgenti sacramentali della Grazia. Ma anche in questa situazione estrema la Chiesa manifestò il suo insopprimibile anelito pastorale e dispose che i pastori spiegassero in lingua volgare nel corso stesso della celebrazione il significato di quello che compiva nella sacralità dei suoi riti. Dichiarava in tal modo ciò che mai avrebbe potuto abbandonare, mostrava la premura per il fatto che i figli potessero avere sempre chi spezzasse loro il pane e venir così irrorati da quella grazia, che apparentemente poteva sembrare loro negata.
Anche se la messa contiene abbondante materia per l'istruzione del popolo cristiano, tuttavia non è sembrato opportuno ai padri che fosse celebrata ovunque nella lingua del popolo. Così, pur conservando dappertutto l'antico rito di ogni Chiesa, approvato dalla santa Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese, il santo concilio, per evitare che le pecore di Cristo muoiano di fame e i fanciulli chiedano il pane senza che vi sia chi lo spezzi loro (Lm 4, 4), comanda ai pastori e a tutti quelli che hanno cura d'anime di spiegare spesso personalmente o di far spiegare da altri, durante la celebrazione delle Messe, qualche cosa di quel che ivi si legge e, tra l'altro, qualche cosa del mistero di questo santissimo sacrificio, specie nelle domeniche e nei giorni di festa.
Durante l'amministrazione dei Sacramenti, se sarà possibile ed agevole si curerà di spiegare l'efficacia, l'uso, l'utilità nonché il significato della cerimonia, come prescrive il Concilio Tridentino, in base all'insegnamento dei Padri e del Catechismo Romano.
Ma anche prima del Concilio tridentino e per l'intero arco del Medioevo, la Chiesa non depose mai l'intento pastorale e, ormai lontana dall'epoca in cui la liturgia classica romana conobbe la sua strutturazione (dal IV al VI sec.) e non avendo ormai più la conoscenza precisa del significato di molti riti e segni tramandati dalla tradizione, volle trovare comunque in essi un significato spirituale e mistico da comunicare ai fedeli. Si trattò del fenomeno dell'allegoria, le cui propaggini giunsero fino alla soglia del Vaticano II. Certo questo procedimento non poteva soddisfare pienamente, in quanto i riti liturgici ricevevano una interpretazione fantasiosa, non coerente con il loro valore oggettivo e difforme dalla realtà del loro sviluppo storico. Tuttavia si affermava in tal modo che ad essa si doveva partecipare e in essa si doveva trovare un senso spirituale che allontanasse da una esecuzione puramente materiale e da una formalità priva di contenuto interiore. In tal senso, anche nelle epoche più buie e confuse, si affermò la necessità di una liturgia partecipata e fruttuosa. Sarà tuttavia il movimento liturgico degli ultimi secoli (XVII – XX sec.) che, ricorrendo alle indagini della ricerca storica e all'analisi delle fonti liturgiche più antiche, potrà comprenderne la sua forma rituale e i suoi contenuti eucologici alla luce di come essa effettivamente si sviluppò nel processo storico e teologico della vita della Chiesa. In questa più ampia prospettiva sarà possibile offrire ai fedeli studi di valore e preparare quegli interventi di riforma che saranno attuati dagli ultimi Sommi Pontefici (da San Pio X a Paolo VI). Il movimento liturgico esordì quindi con un rinnovato interesse per la Liturgia e con un programma mirato alla riscoperta della sua forma classica in vista di una riconsegna al popolo cristiano quale fonte primaria della sua spiritualità. In questo contesto si diffusero i messalini bilingui, si promosse la predicazione e la catechesi liturgica e vennero pure ammessi i canti popolari, almeno nella Messa letta. Si arrivò poi alla messa dialogata e alla stessa proclamazione in lingua volgare del Vangelo. Ma tutti questi intenti crescenti nei secoli recenti erano in verità ancora esterni alla Liturgia, che rimaneva in se stessa sigillata e per lo più intoccabile. Queste lodevoli forme di partecipazione, infatti, erano esterne al rito liturgico: di esso si parlava, ad esso si guardava, ma davanti ad esso ci si arrestava e il suo messaggio raggiungeva i fedeli in modo indiretto, mediante le varie forme di preparazione, di commento e di approfondimento. Anche il beato Antonio Rosmini qui ebbe ad arrestarsi. Infatti, pur avendo egli proposto diversi modi per superare l'impreparazione liturgica del clero e del popolo, egli senza ambagi considerava necessario che la liturgia in se stessa rimanesse presidiata e intoccabile, non vedendo utili, anzi ritenendo pericolosi gli ulteriori tentativi di entrare nel santuario del culto per operare interventi di mutamento, anche riguardo alla lingua latina. Di contro, il genio della riforma liturgica del Vaticano II s'espresse in una scelta coraggiosa, che superò in modo sostanziale i precedenti tentativi di comprensione della liturgia e della conseguente partecipazione ad essa. Tale genio ha la sua sintetica espressione nel motto «per ritus et preces». Infatti in Sacrosanctum Concilium 48 si afferma:
La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente…
I fedeli, da quel momento in poi, avrebbero partecipato alla liturgia non in modo mediato e indiretto, esclusivamente attraverso strumenti esteriori al rito, ma immediato, dal momento che l'azione liturgica stessa, mediante i riti e le preci, avrebbe parlato direttamente ai fedeli e il suo linguaggio rinnovato e tradotto avrebbe comunicato con immediatezza all'assemblea i contenuti del mistero celebrato. Già san Pio X ebbe a tal proposito un' espressione efficace:
Non bisogna cantare né pregare durante la Messa, ma bisogna cantare e pregare la Messa
Tramite questa operazione si ritorna alle origini, quando l'azione liturgica comunicava con immediatezza con i fedeli: in tal modo essa si rivela nella sua più autentica identità e nella sua più potente efficacia.
Si vedrà che il disegno fondamentale della Messa rimane quello tradizionale, non solo nel suo significato teologico, ma altresì in quello spirituale; questo anzi, se il rito sarà eseguito come si deve, manifesterà una sua maggiore ricchezza, resa evidente dalla maggiore semplicità delle cerimonie, dalla varietà e dall'abbondanza dei testi scritturali, dall'azione combinata dei vari ministri, dai silenzi che scandiscono il rito in momenti diversamente profondi, e soprattutto dall'esigenza di due requisiti indispensabili: l'intima partecipazione d'ogni singolo assistente, e l'effusione degli animi nella carità comunitaria; requisiti che devono fare della Messa più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana. Il rapporto dell'anima con Cristo e con i fratelli raggiunge la sua nuova e vitale intensità. Cristo, vittima e sacerdote, rinnova ed offre, mediante il ministero della Chiesa, il suo Sacrificio redentore, nel rito simbolico della sua ultima cena, che lascia noi, sotto le apparenze del pane del vino, il corpo e il suo sangue, per nostro personale e spirituale alimento, e per la nostra fusione nell'unità del suo amore redentore e della sua vita immortale.
Per ottenere con frutto questo processo comunicativo, la riforma conciliare da un lato permise l'uso delle lingue parlate, dall'altro procedette alla semplificazione dei riti e delle preci. Infatti non bastava tradurre in lingua volgare, soltanto infatti se i riti si fossero imposti nei loro significati con immediatezza e semplicità avrebbero potuto comunicare senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Allo stesso modo le preci avrebbero trasmesso i loro contenuti se fossero state relativamente brevi, incisive ed essenziali. La semplificazione della liturgia allora non è un suo impoverimento, ma una necessità interna per renderla efficace nella comunicazione dei misteri. Con riti eccessivi, ridondanti, complicati e con preci interminabili e troppo articolate, la sola traduzione in lingua parlata, non risolve il problema, ma lo complica ulteriormente e l'educazione dei fedeli sarebbe nuovamente stornata dall'essenziale e abbisognerebbe di nuove spiegazioni. Per questo la disposizione conciliare recita:
I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni (SC 34).
È altresì indispensabile mettere debitamente in luce che la validità delle azioni liturgiche e la stessa loro efficacia davanti a Dio e agli uomini non è condizionata in assoluto e sempre dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli. Quest'ultima è raccomandata «dove ciò è possibile», come si afferma nel Can. 837 - § 2. «Le azioni liturgiche, per il fatto che comportano per loro natura una celebrazione comunitaria, vengano celebrate, dove ciò è possibile, con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli». È su questa base che il Concilio Tridentino poté affermare il valore della 'Messa senza il popolo': «il Concilio non condanna come private e illecite quelle messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, ma le approva e le raccomanda, perché anche quelle messe devono essere considerate come veramente comuni, sia perché il popolo in esse si comunica spiritualmente, sia perché sono celebrate dal pubblico ministro della Chiesa, non solo per sé, ma anche per tutti fedeli che appartengono al corpo di Cristo». La partecipazione attiva dei fedeli quindi va tenuta in grande onore e perseguita in ogni modo con cura e vero senso pastorale, ma non deve essere mitizzata a tal punto da non tener più conto dell'efficacia soprannaturale della liturgia al di là della situazione sociologica in cui si celebra. La perdita di questo orizzonte teologico suscitò un richiamo importante del papa Paolo VI il quale, nell'enciclica Mysterium fidei, ebbe a ribadire l'indole pubblica e sociale di ogni messa:
Giacché ogni messa, anche se privatamente celebrata da un sacerdote, non è tuttavia cosa privata, ma azione di Cristo e della Chiesa, la quale nel sacrificio che offre, ha imparato ad offrire se medesima come sacrificio universale, applicando per la salute del mondo intero l'unica e infinita virtù redentrice del sacrificio della croce. Poiché ogni messa celebrata viene offerta non solo per la salvezza di alcuni, ma anche per la salvezza di tutto il mondo. Ne consegue che se è sommamente conveniente, che alla celebrazione della messa partecipi attivamente gran numero di fedeli, tuttavia non è da riprovarsi, anzi da approvarsi, la messa celebrata privatamente, secondo le prescrizioni e le tradizioni della santa Chiesa, da un sacerdote col solo ministro inserviente; perché da tale messa deriva grande abbondanza di particolari grazie, a vantaggio sia dello stesso sacerdote, sia del popolo fedele e di tutta la Chiesa, anzi di tutto il mondo, grazie che non si possono ottenere in uguale misura mediante la sola comunione. Raccomando dunque con paterne insistenza ai sacerdoti, che sono in modo particolare nostro gaudio e nostra corona nel Signore, affinché memori del potere ricevuto dal vescovo consacrante, di offrire cioè a Dio il sacrificio, di celebrare messe sia per i vivi che per i defunti nel nome del Signore, celebrino la messa ogni giorno degnamente e con devozione, perché essi stessi e gli altri fedeli cristiani usufruiscano dell'applicazione dei copiosi frutti provenienti dal sacrificio della croce. In tal modo contribuiranno molto anche alla salvezza del genere umano.
È chiaro allora che l'espressione oggi corrente 'più Messa e meno messe' deve essere intesa nel dovuto modo. Il senso corretto di questo slogan è quello di assicurare che le celebrazioni delle Messe siano quanto più possibile nobili e decorose e che non si scada in un ritualismo formalistico, senza alcun riguardo per le condizioni pastorali in cui vengono celebrate. Non è invece conforme a verità intenderla come promozione di un programma pastorale di riduzione delle Messe, considerando queste ultime giustificate ed efficaci soltanto nella misura di una presenza più o meno estesa dei fedeli. Se, infatti, in una serie eccessiva di messe d'orario in rapporto ad una comunità si riducono le Messe, in modo che le celebrazioni siano veramente più espressive della Chiesa popolo di Dio, più nobili nella loro forma, efficaci nei riti e più fruttuose per gli stessi singoli fedeli, ciò è raccomandabile. Non è infatti educativo per il fedele indulgere ad un individualismo di comodo. Ciò però deve essere realizzato in modo da non mettere i fedeli in serie difficoltà per partecipare alla Messa a causa di una riduzione troppo drastica e senza reale necessità. Ma se, al contrario, si nega la Messa in una comunità con pochi fedeli soltanto perché il numero è ridotto, ciò è da escludere. Infatti, anche per un solo fedele, mancando altre possibilità, si deve celebrare la Messa, soprattutto quella festiva. Lì, infatti, si realizza l'intero e universale mistero della Chiesa. Se i fedeli hanno il diritto di poter assolvere il precetto festivo, hanno pure quello di poter partecipare ogni giorno al Sacrificio divino come regola per la crescita nella loro vita spirituale: la Chiesa, infatti, ogni giorno celebra l'eucaristia. I sacerdoti sono tenuti ad offrire un servizio per quanto possibile diversificato di celebrazioni per consentire la partecipazione alla Messa quotidiana al maggior numero di fedeli. Tale servizio non può essere ridotto, né in nome di un'unica concelebrazione, né in nome del fatto che la Messa quotidiana non è di precetto.
Non poca confusione ingenera anche un errato concetto di 'Assemblea celebrante', che pone l'assemblea liturgica, qui convocata, al rango di elemento essenziale per l'attuazione del Sacrificio, quasi che, senza il suo concorso attivo non fosse valida la celebrazione eucaristica. Invece la Messa è l'atto sacrificale di Cristo stesso, che agisce mediante il ministero del sacerdote. L'elemento essenziale è quindi il sacerdote, che opera in persona Christi: «Egli solo fra gli uomini si trova perfetto in ogni bene. A lui lo Spirito fu dato senza misura, perché da solo potesse adempiere ogni giustizia. La sua giustizia, infatti, è sufficiente per tutti i popoli». L'assemblea quindi non aggiunge niente di essenziale all'atto sacrificale del Signore, ma vi si unisce per appropriarsi di tale sacrificio e riceverne i frutti. Solo su questa base dottrinale è possibile collocare ogni cosa al suo posto e stabilire la natura della partecipazione attiva dei fedeli nelle azioni liturgiche, che hanno come soggetto primario e sufficiente il Signore Gesù, il quale tuttavia non cessa mai di unire a sé, in gradi e modalità diverse, la Chiesa, come sua sposa indissolubile.
Al termine di questa trattazione storica relativa alla partecipazione liturgica, si comprende in maniera chiara come il Vaticano II rappresenti il vertice di un cammino secolare che portò i fedeli ad esercitare in modo solare il loro diritto-dovere battesimale nel culto pubblico della Chiesa.
è la volontà di Cristo, è il soffio dello Spirito Santo, che chiama la Chiesa a questa mutazione. Dobbiamo ravvisarvi il momento profetico, che passa nel Corpo mistico di Cristo, che è appunto la Chiesa, e che la scuote, la risveglia e la obbliga a rinnovare l'arte misteriosa della sua preghiera, con un intento, che costituisce, come è stato detto, l'altro motivo della riforma: associare in maniera più prossima ed efficace l'assemblea dei fedeli, essi pure rivestiti del 'sacerdozio regale', cioè dell'abilitazione alla conversazione soprannaturale con Dio, al rito ufficiale sia della Parola di Dio, sia del Sacrificio eucaristico, donde risulta composta la Messa.
Ma è a questo punto, che proprio questa mirabile e insopprimibile tensione pastorale, dopo aver sperimentato in un primo tempo i frutti di una efficace ed entusiasta partecipazione liturgica da parte del clero e del popolo, ha manifestato i sintomi di un male opposto, che si espresse con l'idolatria del linguaggio e della metodologia pastorale, l'oscuramento del contenuto oggettivo del mistero, la perdita dell'orientamento a Dio e la caduta del senso del sacro. Lo 'sguardo pastorale ad homines' divenne prevalente, anzi vibrante, insistente e quasi assillante. Essere in tal senso 'pastorali' a tutti i costi e ad ogni prezzo significò disporre della cifra indispensabile per operare nel tessuto ecclesiale, per poter essere ascoltati, venir accettati e ritenuti 'figli del Concilio'. Sennonché questa immersione a tutto campo nella società degli uomini occupò a tal punto l'attenzione, la riflessione e le energie, da divenire totalizzante. In essa il mistero di Dio si stava ritirando e il silenzio su di Lui era gradualmente riempito dai clamori del quotidiano. Più che assicurare l'integrità dei misteri celebrati nei sacri riti, ci si preoccupava di parlare con efficacia e modernità ad ogni categoria di uomini. Ne nacque una irrefrenabile corsa verso ogni situazione esistenziale e una ricerca quasi spasmodica di linguaggi diversificati ed accattivanti per interessare e conquistare ogni variabile culturale. La forma dei riti dell'editio typica dei libri liturgici promulgati dall'autorità della Chiesa fu abbandonata e si teorizzò una sua permanente interpretazione e una sua necessaria rielaborazione alla luce dell'esperienza sempre fluida della cronaca quotidiana e della tipologia variegata delle categorie sociali. La liturgia fu ridotta a linguaggio e il linguaggio fu solo quello mutevole e flessibile della soggettività. I contenuti oggettivi e immutabili del Mistero creavano disagio e la protezione sacra del linguaggio della tradizione fu giudicata inadeguata. Sfuocato il mistero, restava una pastorale priva di contenuto, che si risolveva in una metodologia fine a se stessa e che si rivolgeva all'uomo con la massima disponibilità ad ascoltarlo, senza offrirgli con altrettanto vigore la grazia per salvarlo. Così, nella celebrazione l'attenzione dei ministri è totalmente rivolta verso il popolo, i loro occhi ne scrutano ogni movimento, il loro cuore ne respira ogni sensazione, la loro voce riempie ogni pausa e nel loro sguardo vi è l'assillo di non capire a sufficienza, di non fare fino in fondo e di dover ancora e sempre ricercare, inventare, inseguire e sempre più dibattersi nell'affanno vorticoso dell'oggi. Infatti si giustifica un tale atteggiamento con l'immagine del pastore che viene 'mangiato' dai fedeli, volendo richiamare il pane eucaristico: in un tale abbandono e disponibilità, si crede di realizzare il vertice del servizio ministeriale e la più compiuta manifestazione della carità pastorale. Di fronte ad essi stanno i fedeli, blanditi in mille modi, fatti oggetti di infinite attenzioni, uniformati dall'imposizione di un buonismo ormai capillare. In realtà essi non vedono più i loro sacerdoti pregare, li subiscono in un estenuante incalzare di commenti e li osservano con stupore in improvvisazioni impensate. Essi, che vengono dal tumulto della strada per cercare la pausa, la sobrietà delle sensazioni e il sollievo del silenzio, si ritrovano in un nuovo vortice di distrazione, in cui la partecipazione attiva è ridotta a 'ginnastica' fisica e vocale e a socializzazione fraterna, dimenticando la profondità dello spirito, la devozione del cuore e il riposo dell'anima. Sembra assente nei ministri sacri l'estasi orante e il rapimento nel mistero. Non si vede più il pastore che precede il popolo davanti a Dio e non si ammira più in lui il modello orante di chi presiede estraniandosi. Il sacerdote stesso indugia a fatica nella devozione personale e nel silenzio meditativo. Le preci private previste dal rito per il solo sacerdote sono omesse, decurtate o velocizzate senza partecipazione interiore. Il celebrante sembra dover affrettare quei momenti intimi e quasi scusarsi per essersi estraniato. Egli deve agire, ha un'assemblea da presiedere: con essa deve comunicare, non può permettersi di abbassare la vigilanza, nulla gli deve sfuggire e deve essere pronto ad ogni caduta di ritmo. Tutto questo sembra virtù e in questo orizzonte deve muoversi un buon celebrante. Ma è proprio vero? La presidenza liturgica ormai è soltanto frontale: di fronte al popolo alla sede, di fronte al popolo all'ambone, di fronte al popolo all'altare. Anzi molte volte l'intera celebrazione eucaristica è celebrata esclusivamente all'altare, sempre e solo all'altare. Esso è diventato un tavolo da conferenza, talvolta così ingombro da essere simile a un tavolo da lavoro. La sede è il luogo fisico per sedere, non il luogo simbolico della presidenza. L'ambone è diventato il leggio per ogni genere di comunicazione, strumento di praticità, non luogo sacro dal quale Dio parla al suo popolo. Non vi è alcuna differenza con una comune sala di conferenze e nessun senso del sacro spira, ma solo una agghiacciante funzionalità. Anche lo svolgersi del rito è dominato inconsciamente da questo 'masso pastorale'. Nella processione introitale è difficile tener la mira interiore ed esteriore verso l'altare e stare rivolti al mistero verso il quale si procede, ma sembra d'obbligo guardarsi attorno, sorridere, ammiccare, salutare, sostare con i fedeli, schivi da ogni formalismo. Sì, perché si celebra per loro ed essi sono l'assemblea celebrante, la visibilità del volto di Cristo. Essi talvolta rispondono con l'applauso, convinto o perplesso, e la celebrazione sembra dichiarare la sua riuscita e la sua più vera partecipazione, ma in tutto questo l'altare scompare, il 'Presidente' svanisce e l'obiettivo proprio del rito iniziale fallisce nel suo stesso esordio. E così nel corteo di congedo. Lì la libertà è ancora maggiore, l'ambiente sacro della chiesa diventa piazza e il raccoglimento interiore, così avaro oggi e conquistato a caro prezzo, crolla nell'improvviso tumulto dell'effimero. Potremmo continuare nell'analisi delle diverse parti del rito e vi troveremmo dovunque i connotati di questa 'pastorale a senso unico', che, deposto ogni ruolo di mediazione ad invisibilia, si risolve in una permanente comunicazione ad visibilia. Il sacerdote ha ormai dimenticato che è anche lui prima degli altri un fedele e che anche a lui, e soprattutto su di lui, incombe il dovere di entrare nella dimensione del mistero, di accedere alla contemplazione adorante e di ricevere il flusso divino della grazia celeste. Invece egli sembra estraneo e giustificato nella sua distrazione proprio dall'impegno della continua animazione. Così non appare più l'uomo di Dio che sta alla testa del popolo adorante in esercizio sacerdotale, ma il solerte pedagogo totalmente sciolto nelle dinamiche dell'assemblea. Ancora più problematica appare la giustificazione teologica di questo stile del celebrare. Si afferma talvolta la coincidenza del mistero con il fatto sociologico della comunità, quasi che oltre al volto dei fratelli non vi sia altra realtà e che al di là e al di sopra di quest'ultima sia pericoloso individuare un orizzonte soprannaturale. Ciò viene affermato ricorrendo al dogma della Incarnazione, inteso in senso riduzionistico: Dio coincide con l'uomo e il Cristo si confonde col fratello. Oscurando questa necessaria distinzione – Dio e uomo, Capo e corpo – ne esce una pastorale intrisa di contingenza, soffocata nel cerchio chiuso del 'noi qui radunati', priva del respiro universale e dell'ossigeno soprannaturale. In tal modo la liturgia, in nome della pastorale, ha perduto un suo movimento costitutivo, il moto ascendente, l'orientamento ad Patrem, l'attesa del Veniente, la processione verso il non ancora, la disponibilità all'azione gratuita e santificante che scende dal cielo, il guardar fuori dal visibile e il rompere i limiti dell'esperibile: l'accoglienza insomma della salvezza che non insorge in noi e da noi, ma viene da fuori e da un Altro, Dio, l'Eterno che in Cristo irrompe nel tempo. La liturgia in tal modo si presenta zoppa, come l'altare ridotto a sola mensa e l'eucaristia ridotta al solo convito. Sia l'altare, quale simbolo, come l'eucaristia, in quanto realtà, sono invece, al contempo, ascesa sacrificale, oblazione saliente, scala verso il cielo, sacrificio a Dio gradito. Parlare a Dio e stare davanti a Lui, contemplandone il mistero sotto i veli sacramentali, deve ricomporsi con il comunicare col popolo e porsi alla sua giuda. I due atteggiamenti sono insopprimibili e non si possono elidere o confondere. Anzi, proprio quando il primo raggiunge il suo vertice, si realizza il secondo con maggior efficacia e quando il secondo perde il primo, si trova privo della sua stessa finalità.
Si comprende allora come la forma mentis di una pastorale impazzita, sia fra le cause del crollo della liturgia nel postconcilio. Una causa ancora più incisiva della forma mentis di una discussione fuori da ogni limite, in quanto 'essere pastorali' ha contagiato tutti, anche coloro che non hanno una specifica formazione liturgica e non sono in grado di argomentare in tale materia. Oggi si respira nell'aria che tutto deve essere relazionato alla comprensione immediata e alla accettazione e condivisione di ciò che si celebra: niente difatti deve essere lasciato nella sospensione del mistero incomprensibile. Tale atteggiamento è diventato comune, spontaneo, inconscio, non riflesso. Di qui scaturisce l'allergia ai monumenti della tradizione, allo stile della solennità, al linguaggio e ai simboli che, propri della universalità della liturgia della Chiesa, non sono recepiti dal piccolo ambiente contingente. Tutto tende ad essere ridimensionato, reinterpretato, riscritto e rielaborato. Il ristretto ambito del particolare spegne le dimensioni maestose dell'universale e del trascendente. È questo il vicolo cieco a cui porta un concetto di 'pastorale liturgica', che, se non verrà superato in tempo, condurrà inevitabilmente a banalizzare la fede e la sua più alta espressione, la liturgia.
È evidente che tutti coloro che con serenità e spirito di fede hanno seguito le indicazioni della Chiesa, codificate nell'editio typica dei libri liturgici riformati a norma del Concilio Vaticano II, hanno ascoltato con continuità e accolto con docilità le correzioni impartite in vari momenti dal magistero - in particolare del Sommo Pontefice - hanno sperimentato una celebrazione liturgica equilibrata, graduale, sicura ed essenziale, in grado di edificare. Soprattutto hanno sentito la pace e la gioia che il Signore dona a chi obbedisce con umiltà, con fede e con generosità. Il Signore, infatti, guida la sua Chiesa, e non permette che, in materia così essenziale e delicata - quale è la liturgia - , il popolo cristiano possa deragliare e le fonti della grazia vengano inquinate. Insinuare che la riforma liturgica possa aver compromesso la validità del divin Sacrificio o dei Sacramenti, sarebbe come prospettare il collasso totale della Chiesa cattolica, che dal Sacrificio e dai Sacramenti riceve esistenza, energia e vita. Lungi da noi anche solo il sospetto di una simile evenienza, ma, al contrario, la serena certezza che il Signore custodisce i Misteri sacramentali con la grazia dell'indefettibilità e dell'infallibilità, assicurando, oggi e nei secoli, la loro validità ed efficacia sostanziale. Fatta questa necessaria e preliminare dichiarazione, occorre anche ammettere che la riforma, come ogni altra opera umana, salve le parti di istituzione divina, è perfettibile ed è normale che, ormai a cinquant'anni dalla sua attuazione, ci si interroghi sul suo valore e sulla sua reale incidenza sulla vita della Chiesa. In questa luce è doveroso dibattere, anche in vista di un suo ulteriore miglioramento. Si intende, tuttavia, che nessuna opinione che insorge nel dibattito, per quanto ragguardevole, abbia facoltà di passare immediatamente all'atto celebrativo. Sarebbe una babele insopportabile. Il nuovo dibattito liturgico, invece, mira a suscitare una mentalità e offrire anche elementi interessanti, che solo il magistero della Chiesa potrà nel futuro assumere per operare eventuali interventi giuridici adeguati ad un modo diverso di celebrare i riti. In questa prospettiva si propongono ora le seguenti considerazioni, che si inseriscono nell'attuale questione liturgica. In particolare si delineano tre ambiti, nei quali una falsa interpretazione della pastorale potrebbe aver portato a conseguenze deleterie, strumentalizzando scelte legittime e improrogabili che la Chiesa ha ritenuto di fare, ma che nelle contingenze concrete potrebbero essersi prestate a derive estreme e devianti.
Questa 'pastorale' spinta all'estremo potrebbe avere modo di insinuarsi anche in alcune strutture dei riti riformati e in taluni concetti connessi alla stessa riforma liturgica. Possiamo distinguere tra cause interne ai riti, ovvero il rito riformato stesso, il novus Ordo, e cause esterne, quali l'inculturazione e la modernità.
a. La pastorale e il Novus Ordo
Vi sono infatti nei nuovi riti delle modalità che, senza un vigilante e intelligente equilibrio, si prestano facilmente ad una gestione della celebrazione in senso eccessivamente sociologico ed orizzontale, nel senso della secolarizzazione. Eccone alcune:
1. Le monizioni
Le monizioni e la loro libertà di formulazione «con queste o simili parole» sono effettivamente previste dal dettato conciliare: «negli stessi riti siano previste, quando è necessario, brevi didascalie da farsi con formule prestabilite o simili, dal sacerdote o dal ministro competente, ma solo nei momenti più opportuni» (SC 35). Alla luce della prassi liturgica postconciliare questi interventi si sono rivelati eccessivi e non sempre conformi alla natura del momento rituale. Interventi prolissi e fragili nel contenuto e nella forma stanno compromettendo l'edificio dei riti, la sua misura, la sua forma architettonica e il valore delle sue parti. Non sempre le monizioni sono utili e necessarie e non sempre i celebranti sono in grado di una decorosa formulazione pertinente al contesto del rito e al senso del mistero celebrato. Spesso esse vengono sopportate dai fedeli e diventano per gli stessi ministri un flusso di parole ormai trite e banali. È stata dimenticata la regola d'oro della riforma liturgica, «per ritus et preces» (SC 48), e con tali interventi si è ripresa la vecchia strada dello spiegare di nuovo tutto e in continuazione, vanificando l'indicazione conciliare «i riti […] non abbiano bisogno di molte spiegazioni» (SC 34). I riti iniziali e finali sono generalmente caricati di eccessive comunicazioni o per accogliere o per congedare, ma sempre per complicare quella nobile sobrietà e quel senso del sacro che mai dovrebbe venir meno. Se poi, come succede, ai misurati spazi consentiti, si sostituisce una più larga libertà monitoria lasciata alla mercé dei vari operatori liturgici, allora la logorrea delle parole travolge ogni momento e insorge in ogni snodo rituale. Le monizioni sono strumenti delicatissimi, ma pericolosi e molti cadono facilmente nella loro trappola, suscitando la noia dei fedeli.
2. Le eccessive parti opzionali nei riti e nell'eucologia
Molti riti rischiano di perdere la loro identità, riducendosi ad un insieme di indicazioni senza più struttura propria. Sembra che talvolta il rito, per le eccessive possibilità di scelta, sia ridotto piuttosto ad un orientamento, demandato sostanzialmente al sacerdote per quanto riguarda la sua composizione e formulazione, soprattutto quando, oltre a precise alternative stabilite nel libro liturgico, se ne permettono altre lasciate all'invenzione del celebrante. In questo modo la tipicità di taluni riti è scomparsa e ad essi si è sostituita una continua variazione che non può creare tradizione, né costituire identità nel popolo di Dio. Attraverso questo cuneo la 'pastorale sociologica e orizzontale' trova un terreno assolutamente fecondo. Ma così l'oggettività della liturgia si scioglie nel ventaglio fluido dei soggettivismi. Queste possibilità e libertà hanno di fatto offerto il destro ad una gestione di fatto totalmente senza norme, ispirata al bisogno del momento e configurata unicamente alle richieste dei presenti. Ne è nato così uno stile improntato al peggior clericalismo, per cui la liturgia non risulta quale deve essere, ovverosia un patrimonio pubblico e comune del popolo di Dio, che lo precede nella tradizione dei secoli, lo caratterizza nell'oggi e viene trasmesso alle generazioni cristiane di domani.
3. I canti
Il settore del canto e della musica sacra è certamente quello più segnato dalla quasi totalità di espressione soggettiva. Nella attuale situazione celebrativa possiamo rilevare che di fatto il canto liturgico, come canto assunto e approvato dalla Chiesa, è pressoché scomparso. In qualche modo succede questo: mentre i riti e le eucologie sono ancora definite e codificate dalla Chiesa, i canti, soprattutto del proprio, sono lasciati totalmente alla mercé dei privati. È vero che sono riportate nel messale le antifone di ingresso e di comunione, tuttavia si permette che altri canti vi si sostituiscano, naturalmente - si insiste ancora - approvati dall'autorità delle Chiese locali. In realtà succede che quasi ovunque i canti, sia quanto ai testi che alle musiche, sono stabiliti e creati dai gruppi che animano le liturgie. Così si esegue di tutto e si propone un materiale talmente vario il cui valore artistico o liturgico, se ancora resiste, è relativo alla preparazione più o meno qualificata dei loro autori. I repertori nazionali, regionali, diocesani e parrocchiali sono puramente indicativi ed è scomparsa ogni intimazione precettiva, lasciando il campo ad una totale creatività e ad una permanente mobilità. Soltanto i canti dell'Ordinario sono a testo fisso, ma proprio questi vengono normalmente recitati. Solo il Sanctus e qualche acclamazione vengono di solito cantati. Si può allora delineare questa situazione: la Chiesa, giunta al momento del canto, sospende il suo intervento ed 'appalta' a privati i testi e le musiche dei suoi canti. In tal modo afferma la inadeguatezza del suo patrimonio musicale tradizionale e riconosce la sua inabilità ad operare nel settore col ricorso alla sua ufficialità. Se una tale radicalità dovesse essere applicata ai riti e all'eucologia oggi non avremmo più un'azione liturgica, ma una mera occasione per trovarci a celebrare riempita in realtà da interventi del tutto privati e locali. La solenne dichiarazione conciliare sul primato del canto gregoriano e della polifonia classica è normalmente lettera morta e ritenuta un relitto archeologico. È evidente come da una zona così indifesa e senza argini, quale è quella del canto liturgico, possa introdursi nei riti la quintessenza di un pastoralismo sociologico, soggettivo e secolaristico. Contenuti banali e fuorvianti, non certo interpreti del mistero oggettivo, uniti a musiche d'uso commerciali ed effimere, divengono strumenti di un avvicinamento alla gente illusorio, apparente e inconcludente, che ha contribuito non poco allo svilimento della riforma liturgica.
4. L'eccesso del parlato
È pure in nome della 'pastoralità' che oggi, nella celebrazione liturgica, tutto debba essere detto a voce alta e niente venir nascosto nel silenzio. Si è passati da una precedente 'Messa letta', totalmente estranea ad ogni parlato ad alta voce, ad una Messa tutta e solo ad alta voce. Ciò viene giustificato sulla base del principio della partecipazione attiva di tutti. Ma in realtà vi è qui un concetto riduttivo di partecipazione, quasi che il silenzio e la pausa siano segni di passività. In verità la partecipazione ha due dimensioni, quella esteriore della parola e dei gesti e quella interiore, che si esprime col silenzio e l'immobilità. La liturgia le considera ambedue, non esclude i dovuti silenzi e raccomanda la devozione necessaria nel compiere i gesti rituali e nel pronunziare la sacre parole. Tuttavia un certo modo quotidiano di celebrare tende a elidere lo spazio per l'interiorità e una proclamazione sempre a tono sostenuto danneggia i moti del cuore, che si vorrebbe aprire all'adorazione. Non è facile trovare modalità soddisfacenti per assicurare l'equilibrio delle due componenti, tuttavia potrebbe essere un campo di indagine quello di riconsiderare come arricchire i riti riformati in tal senso. La valorizzazione, non sempre conosciuta e attuata, degli spazi di silenzio già previsti dalla liturgia, è una strada da percorrere con maggior decisione, formando i fedeli ad un loro impiego fruttuoso. Ma non è da escludere che altri passaggi del rito o taluni elementi possano trovare una loro realizzazione maggiormente ispirata alla contemplazione. Soprattutto si dovrà valutare il logorio di certe parti sempre identiche e ripetitive, che potrebbero trovare una attuazione più sobria e in fin dei conti più incisiva in ordine alla partecipazione interiore. Occorre non dimenticare mai che ciò che può essere detto con un gesto non deve essere complicato con la parola e ciò che può ottenere il silenzio non può essere appesantito dal commento. Anche il tono della voce ha gradi diversi: cantato, proclamato, recitato, sussurrato, ecc. Tener conto di questo ventaglio di possibilità è qualificare il linguaggio della comunicazione rituale. Una voce solare ad alto tono dal segno della croce iniziale al congedo finale può far saltare anche i nervi più saldi. Una recitazione più nobile e sobria del canone rispetto ad una proclamazione più canora e sostenuta del prefazio potrebbe esprimere meglio l'evento misterico nei suoi diversi aspetti. Il tono scandito e aperto del Pater in rapporto ad una recitazione più 'ancillare' del suo embolismo potrebbe dare differenti evidenze. È comunque certo che la riduzione del silenzio ha provocato una sofferenza e una difficoltà maggiore nella percezione del moto ascendente e adorante della liturgia. Infatti sia il comunicare, sia l'ascoltare, provocano in chi parla e in chi ascolta una estraniazione dalla propria intimità che costringe a porsi continuamente fuori di sé, sia per dare che per ricevere il messaggio. È allora al contempo necessario avere altrettanti momenti di raccoglimento interiore nei quali tale messaggio possa venir elaborato dalle facoltà spirituali, consentendo così una partecipazione vera, personale e fruttuosa. Forse è questo che oggi viene a mancare nei nostri riti. Teorizzare questo momento personale come elemento da porsi fuori della celebrazione sarebbe come affermare che l'adorazione del Sacramento debba essere esterna alla celebrazione del Sacrificio e relegata alla pietà privata. La completezza della liturgia esige che nell'atto stesso del suo svolgersi vi siano compresenti le componenti essenziali di un celebrare umano. Ciò richiede che, mentre i fedeli emettono all'unisono la voce e compiono i gesti liturgici comuni, sappiano e abbiano sufficiente agio nel porre in sintonia con i gesti corporei la corrispondenza interiore dello spirito:
è necessario che i fedeli si accostino alla sacra Liturgia con le disposizioni di un animo retto, conformino la loro mente alle parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano (SC 11).
La partecipazione interiore e la devozione del cuore non possono essere relegate fuori dell'azione liturgica, ma, se da un lato è lodevole che preparino e approfondiscano il rito comune, non possono, dall'altro, essere assolutamente sospese nel corso del suo svolgimento. Riti più attenti all'adorazione e capaci di suscitare l'orazione assicurerebbero certamente con frutto l'equilibrio di una riforma liturgica, che pur attenta all'uomo, non si perda in lui, ma lo elevi potentemente a Dio che lo salva.
5. I deboli segni liturgici della reale presenza
Ci si deve interrogare con urgenza sulle conseguenze del Novus Ordo riguardo alla tutela del dogma eucaristico. Ci si chiede se i fedeli oggi siano sufficientemente richiamati al senso della presenza reale nella ss. eucaristia e adeguatamente introdotti all'adorazione, attraverso la mediazioni dei riti rinnovati. Una domanda legittima, soprattutto in considerazione del vasto calo della pietà eucaristica anche nelle sue espressioni cultuali. Certamente il Novus Ordo presenta caratteristiche di nobile semplicità e illuminata essenzialità. Tuttavia le rubriche vigenti, alla luce della concreta esperienza celebrativa, sembrano presentare caratteri troppo indefiniti e non sono perciò in grado di guidare con precisione il sacerdote nel porre atti rituali completi, degni e uniformi. L'indeterminatezza rubricale, infatti, favorisce una personalizzazione soggettiva troppo difforme da un sacerdote all'altro e una debole manifestazione dei contenuti intrinseci del dogma eucaristico. Si tratta di valutare, in particolare, le rubriche relative alla consacrazione e all' elevazione; quelle relative alla comunione del sacerdote e dei fedeli; e riflettere sull'esercizio del ministero straordinario della comunione, concesso ai fedeli laici. Molti sacerdoti consacrano l'eucaristia nel contesto di un linguaggio narrativo, senza porre quello stacco rituale, che immette nel diverso modo di pronunziare le parole del Signore, a carattere performativo. Debole o inesistente è l'inchinarsi e il pronunziare 'con somma pietà' le parole dell'Istituzione. Ciò produce nei fedeli l'impressione di un semplice racconto, senza percepire il Mistero che, qui ed ora, si realizza nell'evento sacramentale. L'elevazione delle sacre specie, solo indicata, ma non descritta dalle rubriche, viene compiuta in modo insufficiente, inespressivo e talvolta indegno. Un'elevazione veloce, bassa, a una sola mano, quasi impercettibile e subito travolta dal flusso delle parole successive del Canone, distoglie chiunque da un minimo di attenzione orante e sembra invocarne la sua soppressione. Occorre che le rubriche ne definiscano con precisione le modalità: elevare le Specie con le due mani, fin sopra il capo, sostando nell'esposizione adorante, deponendo con pietà, genuflettendo con dignità. E questo deve valere per ogni sacerdote e non solo per i più zelanti. Considerando il modus celebrandi degli anni postconciliari, sembra che non sia possibile lasciare queste parti delicate e centrali del rito all'indeterminazione e alla libera creatività del sacerdote, presupponendo una sua formazione liturgico-spirituale, che purtroppo non sempre è manifesta. Infatti, sembra che coloro che consacrano ed elevano ancora nel modo dovuto, lo attingano dal ricordo del rito precedente, che parrebbe quasi essere dato per scontato nel novus Ordo. In realtà le rubriche del Messale vigente dovrebbero descrivere con precisione i riti, per consentire che le nuove generazioni - che con questo Messale sono cresciute - non abbiano deficit nel celebrare il Mistero. Il problema deve riproporsi anche nel rito della comunione. L'abitudinarietà e il grande afflusso di fedeli alla comunione ha portato ad elidere il primo tempo di questo gesto liturgico. Infatti, l'esposizione dell'ostia davanti agli occhi del fedele e l'atto adorante che egli deve poter emettere, è travolto dall'atto del comunicare, diventato meccanico e veloce. Se si aggiunge, poi, che si accede al Sacramento stando in piedi e ricevendolo sulla mano, ci si interroga come possa ancora permanere lo stimolo all'adorazione del Corpo di Cristo, che sempre deve precedere la sua assunzione. Anche la comunione al Corpo e al Sangue del Signore da parte del sacerdote non deve essere seguita da un immediato passaggio alla funzione del distribuire la comunione ai fedeli, senza alcuna previa sosta adorante. Ma questo la rubrica lo deve dire, altrimenti il 'non comandato' viene giustificato. In tal senso vi sono delle lacune rubricali, che dovrebbero essere colmate, superando quella mentalità imperante nell'immediato postconcilio, che aborriva il cosiddetto 'rubricismo'. Vi è pure una certa tendenza, che in parte ha condizionato i nuovi libri liturgici, che vuole una qualche indeterminatezza delle rubriche in nome di una maggior libertà espressiva e una minore rigidità rituale. Ma, alla luce delle conseguenze che si verificano nel modo concreto di celebrare, tale impostazione dovrebbe essere ripensata per non indulgere ad una ulteriore proliferazione dell'autoinvenzione e dei soggettivismi. Se ben si pensa, senza note non si fa musica, così senza rubriche, mirate e pertinenti, non è possibile celebrare in modo oggettivo e conforme al dogma della fede.
Anche l'intervento ormai stabile e sempre più diffuso dei ministri straordinari della comunione pone dei problemi in ordine al senso della sacralità dell'eucaristia. Fedeli, in abito civile, che si accostano all'altare e distribuiscono dovunque la comunione, a livello dell'incidenza del segno, incrinano la trasparenza sul mistero - che tende ad essere obliato - e il riconoscimento del SS. Sacramento quale vera, reale e sostanziale, presenza del Signore subisce remore, aprendo insensibilmente la via ad una sua riduzione simbolica e ad un suo accesso superficiale senza discernere il Corpo del Signore. Non si discute certamente sulla dignità e preparazione di tali ministri, ma ci si pone il problema in ordine all'efficacia psicologica del segno liturgico, che si rivela povero e inadeguato rispetto al Mistero posto nelle loro mani. La cosa dev'essere viepiù considerata nel caso dell'eucaristia, che essi portano nelle case: la qualità della teca eucaristica, la sua posizione conveniente nel trasporto, il vestiario, il tragitto verso le case degli infermi, il clima sacro nel rito domestico, ecc.
Se questo insieme di problemi, a riguardo della disciplina attuale in materia, non è affrontato per tempo e con intelligente dibattito, ci potremo trovare in un tempo non lontano a perdere di fatto nell'espressione liturgica le coordinate essenziali del dogma eucaristico. Si intende che il dogma della fede, anche se fosse ben spiegato nella catechesi ma non convenientemente espresso e celebrato nei riti liturgici, verrebbe compromesso nella sua più ordinaria ed efficace trasmissione.
6. Il duplice orientamento
Ogni sacerdote, almeno a livello di principio, può celebrare l'eucaristia volgendosi all'assemblea dei fedeli, oppure stando rivolto all'altare nel modo tradizionale. La riforma liturgica non ha imposto un modo rispetto all'altro. Vi è quindi libertà di scegliere tra le due modalità. Questo è un dato importante che deve essere affermato, per non attribuire alla riforma liturgica scelte che non fece. Tuttavia abbiamo assistito in tutto l'arco degli anni postconciliari, fino ad oggi, ad una corsa univoca a celebrare rivolti al popolo, giustificando tale posizione come norma tassativa del Concilio. Come mai l'orientamento al popolo ebbe un'accoglienza così plebiscitaria e una diffusione tanto repentina e universale? Perché ancor oggi tale orientamento sembra essere quasi un dogma indiscutibile e una componente irrinunciabile nell'attuazione della riforma liturgica? La risposta sta ancora nella impostazione pastorale, che, propria dell'intero Concilio Vaticano II, informa in modo determinante la liturgia rinnovata. Infatti, l'obiettivo di questa è fondamentalmente di natura pastorale: si tratta di far partecipare più coscientemente i fedeli al divin Sacrificio e a tutti gli altri atti liturgici. La pastorale è quindi la chiave interpretativa della riforma conciliare della liturgia. La celebrazione verso il popolo consentiva al sacerdote una conduzione dell'assemblea più efficace e immediata e offriva una molteplicità di condizioni e strumenti adatti a questo scopo. Egli così è in grado di presiedere l'azione liturgica con gesti diretti, con l'espressione del suo volto, lo sguardo, l'elevazione delle sue mani, i movimenti del suo corpo. Inoltre i fedeli hanno l'accesso visivo a tutta la ritualità della liturgia sacrificale: osservano la preparazione delle oblate, vedono la patena e il calice, l'infusione dell'acqua e i riti accessori; seguono il rito consacratorio, i momenti in cui il sacerdote stende le mani all'epiclesi, prende il pane, si china e pronunzia le parola del Signore e così con il calice; infine partecipano visivamente alla fractio panis. Tutto questo consente di esprimere maggiormente da parte dei fedeli il loro sacerdozio battesimale, che li unisce, secondo il modo loro proprio, al divin Sacrificio, che il sacerdote compie in persona Christi Capitis. Questo insieme di opportunità appare come una riscoperta prima impensata e del tutto conforme all'intento pastorale della riforma liturgica. Nel vetus Ordo, infatti, tutto questo scompariva dietro la persona del sacerdote e l'intera ritualità era velata allo sguardo del popolo. Da ciò conseguiva una difficoltà catechistica maggiore, che non permetteva quella mistagogia sulla Messa che parte dalla stessa celebrazione dei Misteri. Non si poteva dire, alla maniera dei Padri: «Hai visto questo gesto o questo segno … ciò significa». Al contempo, il sacerdote rivolto all'altare non percepiva con altrettanta sicurezza se i fedeli lo stavano seguendo, soprattutto nelle assemblee parrocchiali così varie, con la presenza dei bambini e dei ragazzi. Poter guidare l'assemblea in modo diretto fu certamente allettante e, di fatto, vincente. Certo, questa percezione la poteva esibire un parroco o un sacerdote in cura d'anime, non chi abitualmente celebrava senza il popolo, per il quale l'orientamento all'altare era ovvio e normale. Si può quindi dire che la Messa verso il popolo fu una 'vittoria' dei parroci. Essa è fondamentalmente, per così dire, un 'prodotto pastorale'. L'elemento dottrinale, se intervenne per evidenziare taluni aspetti del nuovo orientamento, giustificandolo in riferimento alla dimensione 'conviviale', al senso della 'mensa' e al contesto del 'cenacolo', sembra essere successivo, non primario, rispetto alle motivazioni pastorali, che hanno decisamente motivato e imposto di fatto l'orientamento al popolo.
Naturalmente questa 'conquista pastorale' ebbe anche delle derive abusive, che hanno portato a presiedere non più al modo del sacerdos, che, pur di fronte al popolo, sta rivolto al mistero e in atto ascendente, ma al modo dell'animatore sociale, livellato alla comunità qui convocata e ormai privo della dimensione trascendente. Ricuperare questo difficile, ma non impossibile equilibrio, è questione di formazione ad una autentica ars celebrandi.
È necessario realisticamente ammettere che, dopo l'esperienza ormai cinquantennale della 'Messa verso il popolo', ritornare al precedente orientamento pone alcuni problemi. Infatti, è intervenuto un elemento nuovo: la cura che il popolo partecipi anche visivamente all'azione liturgica. Prima del Vaticano II il sacerdote poteva essere totalmente dedito all'offerta del divin Sacrificio senza alcuna distrazione, in quanto volgeva il dorso al popolo. I fedeli poi erano lasciati liberi nella loro partecipazione, affidati prevalentemente, quando anche non esclusivamente, ai pii esercizi e a pratiche spirituali soggettive: un'assistenza certamente buona e devota, ma oggettivamente staccata dallo svolgimento dell'azione sacra. Oggi, al contrario, il sacerdote porta con sé il popolo e la preoccupazione pastorale di farlo partecipare all'azione sacra non solo in modo vago, ma 'attraverso i riti e le preghiere', che costituiscono la stessa azione liturgica. Volgendo di nuovo le spalle egli potrà sentire un certo attrito, un'inquietudine, non avendo la percezione che l'assemblea veramente lo stia seguendo. In un certo modo non è più 'solo' e 'in pace' all'altare di Dio, è, invece, continuamente sollecitato da un popolo, che ormai vuole partecipare e non assistere in modo estraneo. Questo fatto deve ricevere la dovuta considerazione, qualora si scegliesse di celebrare nel modo tradizionale. Non si tratta più di salire e stare all'altare 'portando' il popolo solo 'teologicamente' - come altrimenti non può essere, essendo la Messa sempre un atto pubblico e comune – ma di stare all'altare 'portando' con sé il popolo anche 'pastoralmente': un popolo che segue il sacerdote, gli risponde e corrisponde alla sua azione sacra, educato in ciò dall'esperienza del novus Ordo. Mentre precedentemente il popolo 'delegava' il sacerdote ad entrare 'da solo' nel 'Santo dei santi', oggi il popolo di Dio segue il sacerdote per ritus et preces, pur senza mai usurparne il ruolo. Da questo fatto potrebbe insorgere oggi una maggiore difficoltà pastorale nel ritornare al precedente orientamento.
Ma ecco che, dopo oltre quattro decenni dal Concilio, si assiste ad una ripresa del dibattito liturgico, segnato anche da una mentalità revisionistica di ciò che fino ad oggi sembrava essere assodato e indiscutibile. Diverse voci si levano a proporre una lettura critica della riforma liturgica e si raccolgono nel motto 'riforma della riforma', auspicando un nuovo movimento liturgico, che sia in grado di rivedere i punti problematici del novus Ordo e di prospettare una migliore sintesi. Il movimento è in se stesso buono e, nella misura in cui eviterà forme fanatiche e ideologiche di contrasto, potrebbe veramente far nascere una nuova e benefica stagione liturgica, più ricca, completa e sedimentata di quella che seguì immediatamente il Concilio.
In questo contesto si ripropone anche il valore dell'orientamento tradizionale nella parte sacrificale della Messa. Questa prospettiva nasce su basi teologiche, a differenza dell'altra che, senza escluderle, assecondava in prima istanza l'efficacia pastorale. Infatti, il volgersi a oriente, o comunque alla Croce, stando verso l'altare, nella stessa direzione in cui guardano i fedeli, evidenzia l'aspetto contemplativo, ascendente ed escatologico della Messa: tutti rivolti al Signore, guardando insieme ad oriente, trasmette un senso di sacro certamente più immediato, che lo stare di fronte l'uno all'altro, ministri e fedeli. Il rimando al mistero, che tutto trascende, emerge maggiormente, e il coinvolgimento del moto orante dello stesso sacerdote è certamente più forte. Egli, infatti, è sollevato dall'animazione diretta dell'assemblea ed appare a tutti come il primo orante, colui che precede il popolo sacerdotale nell'accedere al 'Santo dei santi'. La dimensione sacrificale della Messa, intesa nella sua spinta ascendente e di moto ascensionale ad Patrem, assume forma plastica e l'elevazione, che opera il senso del sacro nel condurre tutti ad Deum, è palese. La 'signoria' soprannaturale del Kyrios adombra sovrana e l'unione di tutti in un punto esterno e soprannaturale, che tutti attira, è palpabile. Tutto questo processo orante e sacrificale è conforme alla natura profonda della prece eucaristica e ne esprime con efficacia il suo orientamento connaturale. Ecco perché la Chiesa da secoli, nel rito romano, ma anche negli altri riti, ha percepito tale orientamento, come confacente al mistero che celebrava e, senza difficoltà, saliva su altari costruiti secondo tale criterio, impostati per ascendere e 'guardare' oltre il visibile, nell' 'oriente' della gloria di Dio. La teologia del sacrificio e la dimensione mistica dell'orante hanno certamente in questo orientamento un'espressione più congrua ed incisiva. Anche la tensione escatologica della Chiesa che guarda al Signore e lo attende continuamente nel suo venire escatologico è in tal modo bene espressa. Di fronte a significati tanto consistenti e davanti a un segno collaudato da tanti secoli nella totalità dei diversi riti, non è assolutamente possibile non prendere in adeguata considerazione l'orientamento, dichiararlo superato o irridere tale modo di celebrare. È quindi con cognizione di causa, con profondo senso spirituale e con una esperienza rituale secolare che la Chiesa ha celebrato in tale modo il divin Sacrificio e ciò fonda un atteggiamento di grande ascolto, di rispetto, di verifica e di nuovo dibattito.
Ma, se tale orientamento è sempre stato possibile, di fatto è impossibile da attuarsi: chi procedesse in tale direzione subirebbe l'inesorabile appellativo di anticonciliare. Occorre allora pazientemente creare una mentalità, che consenta di comprendere le motivazioni e di aprirsi ad una visione più libera e serena in questa materia.
È bene valutare i pro e i contra anche nel caso dell'orientamento ad Patrem, così come vi sono aspetti positivi e negativi nel volgersi al popolo, esaminati in precedenza. Se il volgersi a oriente o alla croce consente un più forte senso del sacro e il sacerdote è maggiormente aiutato ad essere sacerdos e meno animatore, evitando quel fastidioso parlare continuamente ed interrompere il ritmo del rito, è anche vero che l'orientamento nasconderebbe di nuovo ai fedeli i riti eucaristici e la fragilità di molti dei presenti avrebbe un minor sostegno nel seguire con attenzione l'azione liturgica. La dimensione didattica dei riti e la presa psicologica del pastore sui presenti sarebbe certamente minore; ciò va messo in conto soprattutto dopo l'abitudine ormai invalsa di celebrare verso il popolo.
Un aspetto da non trascurare è pure quello estetico. La celebrazione ad orientem, infatti, presenterebbe un maggior impatto estetico e la visione solenne e ordinata dei ministri, che agiscono nel rito, assumerebbe certamente una nobile maestà. I ministri, rivestiti degli abiti liturgici, sarebbero visibili nella totalità della persona, nelle pieghe ampie e solenni dei loro paramenti e nella preziosità di essi. I ricchi apparati classici furono appunto pensati per esibire la loro forza simbolica, proprio negli elementi dorsali. Ma anche la disposizione graduata e ascendente dei vari ministri, che servono all'altare, costituirebbero una visione venerabile e sacra all'occhio dei fedeli. Tutto questo fu l'eredità del precedente modo di celebrare. Nella celebrazione verso il popolo l'elemento estetico sembra essere più debole ed aver meno opportunità: i ministri sono parzialmente nascosti dall'altare stesso, i gesti di adorazione (genuflessioni, inchini, ecc.) spariscono dietro l'altare. Non raramente anche sulla mensa dell'altare molti oggetti (microfoni, leggio, e altre cose) disturbano una visione nobile e libera della mensa. Anche la croce e i candelabri fanno barriera alla visione dei ministri e delle azioni sacre. Qualora essi fossero, invece, posti nei pressi dell'altare, susciterebbero la perplessità di molte attuali soluzioni in cu l'altare è 'divorziato' dai suoi arredi, che non rivelano più con immediatezza il loro rapporto essenziale con l'ara del sacrificio. Sull'altare classico, invece, la croce e i candelabri possono mantenere fissa la loro posizione, sovrastando i ministri senza nasconderli.
Perciò, al termine di questa argomentazione, possiamo affermare che il dibattito sul ritorno a questa forma è, per così dire, una 'riscossa' dei teologi e degli esteti, come l'aver ammesso la celebrazione verso il popolo fu una 'conquista' dei parroci e dei pastoralisti.
A questo punto occorre trovare una sintesi e giungere a delle conclusioni.
È necessario saper comporre insieme le esigenze legittime della teologia, dell'estetica e della pastorale, accettare cordialmente e coordinare intelligentemente i due orientamenti in uso nella Chiesa: quello recente ad populum e quello antico e secolare ad orientem. La riforma liturgica ha sempre lasciato libertà e la serena continuità nella tradizione dei secoli offre nobili e differenziate modalità. Occorre oggi l'apertura mentale verso la ricchezza dei due modi del celebrare e una rinnovata riconciliazione fra le diverse prospettive della liturgia.
Una prima realizzazione concreta è offerta dal principio dell'unicità e nobiltà dell'altare. Si deve ormai superare la situazione, fin troppo protrattasi nel tempo, dell'altare posticcio, che stona nel contesto di grandi basiliche e splendide chiese. Non si può continuare ancora a celebrare su un altare provvisorio, lì dove lo splendore dell'altar maggiore e della zona presbiterale si impongono mirabilmente allo sguardo ammirato dei fedeli e dei visitatori. Ciò non è conforme alla dignità del divin Sacrificio, del sacerdote e della stessa assemblea. Non è possibile continuare ad attribuire inadeguatezza all'alto profilo artistico e secolare delle nostre chiese con le meravigliose opere d'arte che contengono. Bisogna ritornare a rispettare la loro natura, conforme al genio teologico, liturgico e artistico della loro epoca, senza elidere con superficialità il messaggio dei secoli, in nome della breve e ancora inesperta sensibilità dell'attuale modalità liturgica. Per altare provvisorio si intendono anche quelle strutture inamovibili che, talvolta malauguratamente, hanno sostituito gli altari mobili, ma rimangono comunque sempre estranei, in ambienti non adatti a loro ed esibiscono l'errore di porre altare contro altare, 'ferendo' il principio dell'unicità dell'altare. In virtù di questo principio, sostenuto esplicitamente fin dall'inizio della riforma liturgica, si dovrebbe procedere, rimosso ogni altare posticcio (mobile o fisso) alla celebrazione sull'altare maggiore di sempre. Quello è l'altare, lì si celebra il divin Sacrificio. Il Santo Padre Benedetto XVI, celebrando sull'altare storico della cappella Sistina non fa che richiamare a quel buon senso liturgico e a quella serenità di giudizio che sa coniugare nova et vetera nella continuità storica, rispettando la natura e l'architettura tipica di ogni chiesa.
Se tale buon senso avesse ispirato le scelte postconciliari, non si sarebbe avuta l'emarginazione e anche la distruzione di altari monumentali con i loro preziosi arredi, né la rimozione fanatica della balaustra, né sarebbero trascorsi tanti anni di celebrazioni su altarini fragili e fuori luogo, incapaci di reggere alla dignità e talora alla funzionalità stessa dei riti, come ancor oggi si continua a fare. È evidente che nelle chiese di nuova costruzione si dovrà realizzare un altare adatto ai due usi.
7. La crisi dell'altare nei riti iniziali della Messa
L'attenzione antropocentrica e la forte spinta pastorale hanno segnato profondamente i riti di inizio della Messa nel novus Ordo. Il rivolgersi immediatamente all'assemblea, conversando con essa, ha provocato una notevole riduzione degli atti di venerazione all'altare e ha cancellato la necessaria sosta adorante davanti alla maestà di Dio. Negli attuali riti iniziali, infatti, predomina l'intento di suscitare nei fedeli un'accoglienza reciproca a carattere umanitario. Si possono evidenziare vari elementi che rivelano una tale inadeguatezza. La processione col canto introitale, a esempio, dovrebbe portare all'altare quale sua meta naturale e lì, processione e canto, dovrebbero terminare. In realtà la meta, sia della processione come del canto, è la sede. L'altare è venerato di passaggio, senza sosta, con la stessa incensazione sempre resa facoltativa, e il sacerdote lo abbandona subito per raggiungere la sede. Solo allora la processione e il canto hanno termine. Ma in tal modo l'altare non è più il centro, ma un luogo di passaggio, e la liturgia, alla sede, inizia con un dialogo reciproco, fronte a fronte, e non con un atto di adorazione e di comune orientamento a Dio e al suo mistero. Ciò provoca un'incisiva deriva sociologica proprio all'esordio della celebrazione. Da questa impostazione si evince che l'elemento primario dei riti di inizio non è entrare in orazione e prostrarsi in adorazione, ma salutarsi e accogliersi a vicenda. Ora, tale incontro e accoglienza fraterna sono attività importanti, ma da realizzare nel sagrato, nell'atrio di passaggio tra la 'città' e il santuario. Il rito iniziale, invece, ha come scopo vero l'entrata dell'Assemblea liturgica con i suoi ministri nel mistero e la percezione sacra della divina presenza. Tutto ciò era espresso nella prolungata prostrazione silente del Pontefice ai piedi dell'altare nella liturgia antica di Roma. Vi è stata quindi una indebita sostituzione di scopi e una trasposizione del sagrato all'interno della celebrazione. Da ciò i saluti, i discorsi di circostanza e di accoglienza, gli applausi e ogni genere di intervento che oggi si vedono con tanta frequenza; ma anche la notevole distrazione dal mistero e la difficoltà, sia a riprendere la preghiera, sia ad ascoltare con frutto la Parola di Dio successiva. Un esordio celebrativo così compromesso provoca il collasso del sacro in tutta la celebrazione. Il vetus Ordo, invece, presenta il vero carattere dei riti iniziali e ad esso dobbiamo nuovamente ispirarci per una integrazione di questa parte delicata della Messa. Il canto introitale deve terminare appena il sacerdote è giunto ai piedi dell'altare: la vera meta liturgica e il luogo sacro della stasi. Lì inizia la celebrazione, tutti rivolti ad esso e proni davanti al segno sacro dell'invisibile Preside, Cristo, che è altare, vittima e sacerdote. L'altare quindi rappresenta il fulcro, attorno al quale tutto ruota. E' il segno più eloquente di Cristo, che va al di là sia del sacerdote che dell'Assemblea, in modo che ogni clericalismo o personalismo individuale e comunitario svaniscano davanti alla 'maestà dell'altare'. Poi il sacerdote sale all'altare e il rito della venerazione assume un carattere autonomo e completo in se stesso: l'altare è baciato e incensato, mentre si eseguono i nove Kyrie-Christe, eleison. L'incenso saliente si unisce alla grande invocazione, esprimendo, con ulteriore potenza simbolica, sia la dossologia trinitaria, come l'acclamazione al Kyrios, immolato e glorioso. I riti di inizio, quindi, sono relativi all'altare ed hanno l'altare come icona centrale e luogo della trascendenza. Poi, alla sede, il sacerdote rivolge il saluto liturgico e, raccolte nel silenzio le intenzioni dei cuori, eleva l'orazione. Tutto questo nel novus Ordo si è alquanto oscurato: all'altare non si sosta, né vi si sale, ma è abbordato in piano con un accesso facile e veloce, lo si lascia con un bacio furtivo e, quasi 'dimenticandolo', si ripiega alla sede e si inizia il rito. Il canto di acclamazione, proprio della venerazione dell'altare (il Kyrie eleison), ha mutato il suo ruolo ed è diventato, nel caso più frequente, una possibile invocazione dell'atto penitenziale. Dove lo si esegue ancora nella forma a sé stante, pure prevista, appare un elemento di sovraccarico, che, precedendo immediatamente l'inno angelico, lo sembra duplicare, senza una sua giustificazione e per questo è normalmente preferito nell'atto penitenziale, ma è praticamente abbandonato nella sua forma tipica e nel suo ruolo classico e solenne. Tutto questo stimola ad un ripensamento. L'altare deve riconquistare la sua centralità e ricevere gli onori che gli competono e così il Kyrie eleison troverà di nuovo la sua classica collocazione e la sua connaturale solennità. In tal modo il senso del sacro sarà evidente, l'orientamento alla trascendenza palese, il sentimento dell'adorazione riporterà l'assemblea liturgica allo scopo più vero dei riti iniziali e tutta la celebrazione si svolgerà in modo più conscio ed efficace come entrata nel 'Santo dei santi'.
Possiamo così individuare un progetto di emendamento:
L'altare deve essere posto in alto e ad esso si dovrebbe poter accedere salendo alcuni gradini. La posizione alta dell'altare, oggi quasi scomparsa, evidenzia la dimensione sacrificale, propria dell'azione eucaristica. Si dovrebbe poi assicurare una zona antistante, che consenta la sosta dei ministri e l'orazione ai piedi dell'altare. Intorno all'altare dovrebbe scorrere sui quattro lati una pedana sufficientemente ampia, per consentire la circuizione completa nell'incensazione. La croce dovrebbe tassativamente ritornare al centro della mensa con i candelabri ai lati. Ogni deroga a tale legge porterebbe all'inevitabile e attuale emigrazione di questi arredi, senza più alcun rapporto immediato con l'altare stesso.
Il segno della croce, l'atto penitenziale col confiteor, recitato profondamente inchinati, dovrebbero aver luogo nel contesto delle preci ai piedi dell'altare, nel comune orientamento dei ministri e del popolo verso l'altare stesso. Un atto penitenziale realizzato in posizione frontale al popolo non esprime adeguatamente la natura propria e il referente interiore di tale atto.
Gli atti connessi con la salita e la venerazione dell'altare - l'inchino, il bacio e l'incensazione - dovrebbero ritornare ad essere accompagnati dal canto classico loro proprio, il Kyrie eleison, così come nel crogiolo dei secoli si venne gradualmente formando nella definizione simbolica e artistica oggi assunta. Esso diventerebbe di nuovo il canto tipico di venerazione all'altare e ritroverebbe la sua più vera e autentica giustificazione e la posizione rituale più idonea. Acquisterebbe inoltre quell'identità dossologica e acclamatoria che gli fu tolta con la sua riduzione ad atto penitenziale. Anche le grandi composizioni musicali potrebbero aver motivo e agio di esprimersi nuovamente, accompagnando un atto veramente degno e prolungato di venerazione all'altare. Tutti questi emendamenti offrirebbero certamente una sicura ed incisiva carica adorante e contemplativa all'intera assemblea liturgica, che in tal modo verrebbe efficacemente e qualitativamente introdotta nel mistero.
8. La processione offertoriale
La riscoperta della solenne processione con le oblate nei riti di offertorio è indubbiamente un dono del novus Ordo. Passando in mezzo ai fedeli, la processione raccoglie simbolicamente l'offerta sacrificale intima di ognuno, e, insieme alle oblate, sale all'altare l'offerta spirituale di tutti i presenti. Per questo è un vero arricchimento preferire ad una veloce preparazione funzionale della mensa una processione solenne con i santi doni, che vengono presentati all'altare. Ne è pure testimonianza la liturgia orientale col rito del grande ingresso accompagnato dall'inno dei Cherubini. Durante il lento avanzare della processione i fedeli sono facilitati ad esprimere con più efficacia e maggior disponibilità di tempo l'offerta di se stessi, delle loro azioni e di tutta la loro vita: la processione è fatta appunto per suscitare il dono di sé nel cuore dei fedeli, per esprimerlo realmente e per saldarlo simbolicamente con le oblate, che ontologicamente mutate nella transustanziazione, trasformeranno i comunicati in sacrificio vivente e gradito a Dio. Durante la processione anche l'offerta in denaro afferma che l'autentico sacrificio a Dio implica sempre l'apertura del cuore alla carità fraterna. In tal modo la consegna sacrificale di sé stessi a Dio, indissolubilmente legata al dono della carità reciproca, trova nei riti offertoriali un'adeguata espressione. Il trasporto solenne delle oblate è fatto inoltre per dare onore ad esse, in quanto scelte per diventare il Corpo e il Sangue del Signore e, per questo, fatte oggetto di particolare venerazione e di una degna accoglienza nell'assemblea liturgica, come si accoglie con sacra attenzione il libro dei Vangeli, la Croce e i ministri sacri. Questo ultimo elemento sembra però essere del tutto sottaciuto, mentre nella tradizione classica, soprattutto orientale, esso è primario. L'incedere delle oblate verso l'altare richiama anche il movimento cosmico dell'intera creazione, che ancora 'geme e soffre nelle doglie del parto', verso la sua trasformazione nella nuova creazione. Tale evento è già in atto nella transustanziazione eucaristica delle oblate stesse. Così anche il travaglio della vicenda storica dell'umanità è orientato all'altare, e, assunto dalle mani del Sommo Sacerdote, Cristo Gesù, è destinato alla sua trasformazione gloriosa nel Regno di Dio. Le oblate sono, infatti, 'il frutto della terra e del lavoro umano'. Creazione e storia vanno verso il Kyrios e da Lui sono gradualmente, irresistibilmente e misteriosamente rigenerate ed elevate. Tutti questi significati sono contenuti nel movimento rituale della processione offertoriale e tutto questo già si compie, sotto il velo del mistero, nella consacrazione eucaristica ed è a noi effettivamente donato nella comunione sacramentale.
In questo prezioso orizzonte teologico e splendido recupero rituale, si è insinuato, nel comune modo di celebrare delle nostre parrocchie, una forte deriva abusiva, che ha esposto, nel costume ormai corrente, la processione offertoriale alle espressioni più estreme della secolarizzazione. E questo in nome della pastorale, ossia del coinvolgimento maggiore della comunità nella celebrazione eucaristica di una partecipazione sempre più attiva ad essa. Il pertugio è offerto dalla concessione del novus Ordo di far intervenire nella processione offertoriale 'altri doni', diversi dalle oblate e di concedere a chiunque, e non solo ai ministri a ciò deputati - gli accoliti - il compito di presentarle all'altare. Da questa apertura, che potrebbe essere ritenuta logica e innocua, è entrata nella liturgia una voragine di banalità, che sta compromettendo non solo il senso del sacro, ma anche l'identità propria dell'offertorio, insieme all'equilibrio generale della celebrazione. Vengono portati all'altare oggetti di ogni genere: buste con denaro, regali (per sacerdoti, sposi, ospiti, ecc.), simboli e insegne di categoria, generi alimentari, strumenti di lavoro, attrezzi sportivi, libri e manufatti della catechesi, giocattoli, prodotti agricoli, ecc. La processione offertoriale è in molte circostanze diventata una sfilata folcloristica con l'obiettivo di colpire l'attenzione e la curiosità dei presenti. Spesso tali oggetti vengono commentati dall'ambone e, non raramente, applauditi. Anche le persone cooptate, non sempre vestono in modo adeguato, né contribuiscono a rispettare e promuovere il clima di preghiera. Questa situazione così variegata, ormai estesa e che si verifica soprattutto nelle celebrazioni più sensibili e importanti (prima comunione, cresima, matrimoni, feste patronali, giornate speciali, ecc.) viene giustificata sul piano storico rifacendosi ai doni in natura che in antico venivano portati all'altare, ma soprattutto è sostenuta da motivi 'pastorali', affinché tutti possano partecipare ed essere il più possibile protagonisti nel rito. Il costume assume forme del tutto libere e impensate soprattutto nei convegni giovanili, nelle messe per gruppi particolari e in circostanze anniversarie. Questa congerie di cose è poi deposta in parte sulla mensa dell'altare e in parte presso di esso, in modo però da ledere la dignità dell'altare stesso e farlo apparire come un tavolo ingombro di mille cose, un deposito di oggettistica che debilita l'ambiente in cui si svolge il divin Sacrificio. Purtroppo da parte di molti si crede che tutto ciò sia sintomo di liturgia viva, partecipata e autentica. Il senso della nobiltà che deve avvolgere l'altare e i riti liturgici non è più compreso, anzi è ritenuto un retaggio dell'antico formalismo, che deve lasciare il posto ad uno spontaneismo libero, totalmente omologato al linguaggio, ai gesti e ai simboli della vita ordinaria e della sua ferialità. In tale contesto e con tale pregiudizio non è possibile un dialogo, una verifica e un serio cammino di formazione liturgica. Anche un altro abuso va contestato: è quello di rivestire l'altare, lasciato fin dall'inizio spoglio, portando la tovaglia e i ceri nella processione offertoriale. In questo caso si dimentica che l'altare, completo nelle sue insegne (croce, ceri, tovaglia), è il segno di Cristo, che presiede fin dall'inizio la celebrazione. Sarebbe infatti un controsenso venerare e incensare un altare spoglio nei riti introitali. I riti offertoriali, infatti, non sono fatti per allestire l'altare, ma per portarvi le oblate e predisporle al sacrificio. Inoltre non è secondo la natura delle cose aggiungere altri ceri e mettere i fiori nel momento offertoriale: l' icona dell'altare si deve presentare nobile da subito e per l'intera estensione del rito deve risplendere nella sua dignità completezza e solennità. Fondare questi usi abusivi nelle fasi storiche dello sviluppo della liturgia o riferirsi al rito della 'dedicazione dell'altare' non è corretto e non conforme all'uso attuale della Chiesa.
A questo punto, se si vuole ritornare alla dignità dell'azione liturgica, è necessario intraprendere dei coraggiosi emendamenti.
Occorre innanzitutto riconoscere che questa apertura indiscriminata e abusiva ha portato a compromettere totalmente lo scopo essenziale della processione offertoriale, che consiste nel duplice intento di accogliere e presentare con venerazione le oblate e di suscitare nei cuori l'offerta di se stessi, che dalle stesse oblate è significata ed espressa. Ora, nella molteplicità e curiosità di tutta l'oggettistica sopra descritta, le oblate passano inosservate, come un'appendice insignificante, troppo scontata e ordinaria, mentre tutto il resto assurge ad un protagonismo eccessivo, indebito e fuorviante. È evidente che l'aura sacra che dovrebbe circondare le oblate, precedute dall'incenso e riguardate come offerte degne e nobili, destinate alla transustanziazione - per questo venerate - , scompare totalmente, travolta dalla 'teoria' chiassosa e secolarizzata di una molteplicità di doni, estranei all'azione liturgica e al senso profondo e sacro del Sacrificio divino che sta per compiersi. Nel rito offertoriale non può intervenire la banalità distratta e superficiale della cronaca quotidiana; almeno se se vuole che non sia totalmente estinto il senso della maestà divina, che non può mai essere congedata da un'autentica celebrazione liturgica. A tale visione urge oggi una nuova educazione, che si trova a partire dai primi rudimenti, tanto ci si è allontanati dal senso della maestà di Dio in nome di un buonismo dissacrante e letale, motivo di grande sofferenza per chiunque ancora avesse il senso delle cose di Dio.
Anche l'intima offerta sacrificale dei fedeli si è estinta nel cumulo delle distrazioni che passano davanti ai loro occhi. La partecipazione attiva vera e necessaria è l'offerta di se stessi in Cristo e questo deve essere rinvigorito ed espresso nella processione delle offerte. È quindi necessario un clima di sobrietà e di devozione, di interiore concentrazione per fare dei riti di offertorio un dono del cuore e una presentazione di se stessi, della propria vita e delle proprie sofferenze all'altare di Dio. Più i colori e le forme secolaristiche invadono i riti offertoriali, meno emerge e si addensa l'offerta del cuore: un culto estroverso si sostituisce a quello interiore dell'anima. Si tratta qui di scendere alle radici più autentiche della partecipazione attiva e non indulgere ancora ad un surrogato superficiale di essa, che finisce per risolversi ed estinguersi in un attivismo solo esteriore. Nella tipologia poi di molte 'offerte' si realizza un ricercato protagonismo di persone, di categorie sociali, di gruppi e di associazioni varie, che attirano eccessivamente l'attenzione, stornando la considerazione dal divin Sacrificio, che esigerebbe che tutti fossero umili e dimessi, con lo sguardo comune all'unico Protagonista, che qui agisce per la nostra salvezza, il Sommo nostro Sacerdote, Cristo Gesù. In tale contesto, invece, il gesto offertoriale diventa esorbitante ed invadente, turbando notevolmente sia l'equilibrio del rito, sia la centralità della presenza eucaristica, sia l'attenzione psicologica dei fedeli.
Deve essere affrontata anche la questione dei ministri addetti a portare le oblate. Essi sono gli accoliti, che già nel rito della loro istituzione, ricevono esplicitamente il calice e la patena. Ciò significa che, tra gli uffici propri degli accoliti, è primario quello di portare le oblate all'altare e di aiutare il diacono a disporle sulla mensa. Dopo la comunione essi hanno il compito di portare i vasi sacri alla credenza e di procedere, eventualmente, alla loro purificazione. Gli accoliti sono a stretto contatto con le oblate, sia nella loro preparazione, sia nella loro rimozione e purificazione. Per questo ricevono una specifica istituzione, mediante un apposito ministero: l'accolitato. Aver di fatto concesso a chiunque dei presenti in assemblea di intervenire nel trasporto rituale delle oblate, ha colpito al cuore il ministero degli accoliti, i quali si trovano ad esercitare un servizio decapitato proprio nella sua più alta espressione, il rapporto immediato con le oblate. Essi in realtà sono quei fedeli a cui la Chiesa affida il ministero offertoriale, sia che abbiano l'istituzione, sia che esercitino di fatto tale servizio. Occorre dunque formare una schola di accoliti adulti, anziché indulgere a sostituirli con fedeli improvvisati. Gli accoliti rivestiti con la tunica liturgica sono in grado di svolgere un ministero degno, nobile anche allo sguardo e pregno del senso sacro. Infatti, non tutti nell'assemblea devono svolgere un qualche servizio, ma solo quelli che ne sono abilitati. La partecipazione di tutti i fedeli all'atto liturgico della presentazione delle offerte è ritualmente espressa da quei fedeli che sono gli accoliti, così come il canto è guidato da quei fedeli che formano la schola cantorum e le letture sono proclamate da quei fedeli che formano la schola lectorum, ecc. Non tutti devono far tutto e ad ogni prezzo. Solo su questi principi e con questi intendimenti è possibile riportare il rito alla sua più vera identità e nobiltà.
In conclusione si potrebbe prospettare una soluzione che, nel costume ormai invalso e assodato, potrebbe certamente essere giudicata drastica e troppo determinata. La processione offertoriale dovrebbe essere fatta dai soli accoliti, rivestiti con l'alba, che portano esclusivamente le oblate necessarie al sacrificio, escludendo ogni altro oggetto profano. Il rito dovrebbe assumere il suo carattere sacro con quei simboli che esprimono la dignità e la finalità delle oblate, che si stanno avviando a diventare nella transustanziazione il Corpo e il Sangue gloriosi del Signore ed a salire al cospetto di Dio quale sacrificio puro e santo. Infatti l'incenso e i ceri che, almeno nella forma solenne, potrebbero precedere la processione offertoriale, intendono già venerare in esse quell'identità sacramentale e sacrificale che sono in procinto di ricevere.
Non prendere posizione in tale materia significa continuare ad ammettere quel costume ormai dirompente, ma non da tutti pacificamente accettato, che oggi possiamo osservare nelle nostre chiese. Ma una diffusione esponenziale e incontrollata su questo versante liturgico abbasserà sempre più il tono spirituale dell'eucaristia ed esporrà i fedeli ad una spiritualità fragile e superficiale, priva di interiorità.
9. La preghiera universale o dei fedeli
L' oratio universalis seu fidelium è un arricchimento apportato dal novus ordo, attingendo alle tradizioni più antiche (S. Giustino, martire II sec.). La Chiesa, convocata nell'assemblea liturgica, dopo aver ascoltato la Parola di Dio, eleva a Lui un'orazione accorata dalle dimensioni universali e che, proprio sui contenuti della Parola proclamata, dovrebbe impostare il suo orizzonte orante e la sua più vera ispirazione. È uno dei momenti forti dell'esercizio del sacerdozio regale di tutti i fedeli, clero e laici, che innalzano il loro atto di supplica e di intercessione in Cristo, unico mediatore. Per questo, in antico, prima di procedere all'oratio universalis, venivano congedati i catecumeni, che non erano ancora investiti del sacerdozio battesimale e quindi inabili all'esercizio proprio del sacerdozio comune dei fedeli. In questa prospettiva se da un lato la preghiera universale è legata alla liturgia della Parola e ne assume i temi, dall'altro è già sul versante della liturgia del Sacrificio, costituendo con le oblate una parte del rito offertoriale: col pane e col vino si presentano a Dio anche le intenzioni di preghiera di tutta la Chiesa. Questa ambivalenza dell'oratio fidelium è espressa dalle diverse scelte dei riti liturgici nella storia. Propriamente possiamo dire che l'oratio fidelium è una cerniera di passaggio e di collegamento tra la liturgia della Parola e la liturgia del Sacrificio. Tale ruolo lo testimoniava in modo elastico la classica litania, che era cantata nel passaggio tra le letture profetiche e la liturgia sacrificale nella Veglia pasquale romana. Se alla luce dei principi l'oratio universalis presenta la sua eccellenza, nel modo concreto di celebrare, essa rivela una grande fragilità, in quanto costituisce una breccia attraverso cui possono entrare nella liturgia espressioni creative fuori contesto: infatti in nome della "pastorale" e della partecipazione attiva dei fedeli, si apre il campo a forme di creatività illecite e a strumentalizzazioni banali. Occorre quindi una verifica e un ripensamento serio su ciò che in concreto ha prodotto e produce l'impostazione dell'oratio fidelium nelle celebrazioni reali delle nostre comunità cristiane. Bisogna riflettere e dibattere sui diversi aspetti e liberare il campo da molteplici equivoci, ormai comuni e acriticamente accettati. Possiamo raccogliere l'indagine in ordine a queste voci: il nome, il soggetto, i contenuti, le forme e il ministro della preghiera universale.
Il nome. La Chiesa usa due espressioni: 'preghiera dei fedeli o preghiera universale'. Il fatto ha creato un equivoco: si crede che questa preghiera sia propria dei fedeli laici, rispetto ai ministri sacri. Si dice: «finora hanno parlato i sacerdoti, ora è la volta dei laici, che esprimono la loro preghiera». Ma in tal modo la oratio universalis è intesa come atto di una categoria di fronte all'altra, non è più la preghiera comune del popolo di Dio, clero e popolo. Da ciò il subentrare di un clima di rivendicazione e l'insistenza che tale preghiera debba essere rigorosamente composta e pronunziata dai fedeli laici e per di più permanentemente variata a seconda della composizione, così mutevole e diversificata, delle assemblee liturgiche. Non si coglie più la dimensione storica dell' espressione linguistica oratio fidelium, ossia, preghiera dei fedeli battezzati rispetto ai catecumeni, non ancora battezzati. Senza il riferimento alla storia il termine oratio fidelium è inevitabilmente equivocato e inteso nel senso di una contrapposizione tra le due categorie interne all'assemblea liturgica, i laici e i ministri sacri.
Il soggetto. La questione del nome apre ad una seconda questione, quella del soggetto della prece universale. Soggetto di tale preghiera non è l'individuo o il gruppo che la formula o la pronunzia e neppure l'assemblea, qui convocata, nella sua semplice dimensione sociologica, ma è la Chiesa in quanto tale, ossia l'Ecclesia universalis. Infatti ogni atto liturgico è tale perché ha quest'ultima come soggetto. Anche le intenzioni formulate localmente e con contenuti a favore di eventi e persone private, sono assunte dalla Chiesa, che le fa proprie e le presenta a suo nome al Padre in Cristo. Questo è certo a livello di principio, ma di fatto viene troppo spesso dimenticato e, sia nei contenuti, sia nella forma, la creatività soggettiva riduce l'oratio universalis ad una preghiera del tutto privata e abbassata totalmente alle urgenze immediate dei presenti. Succede all'oratio universalis quello che avviene per i canti: la Chiesa abbandona alla gestione dei fedeli le intenzioni di preghiera ed apre così una larga possibilità ad ogni intemperanza soggettivistica. Così l'oggettività e l'ufficialità della azione liturgica cedono il posto agli individui e non è più possibile affermare: la Chiesa oggi prega per… Non si può accettare permanentemente la finzione per cui, a livello di principio l'oratio universalis è ritenuta parte della liturgia, ma di fatto è preghiera privata.
I contenuti. Il problema emerge in tutta evidenza qualora se ne esaminino i contenuti. A causa di una totale libertà, anzi del continuo stimolo a creare di volta in volta la serie delle intenzioni, si è aperta la strada ad ogni libera espressione. La tipologia è estremamente varia: intenzioni eccessive e prolisse, piccole riflessioni e commenti, elogi di persone (es. matrimoni e funerali) e tematiche estranee, eccentriche, indebite e di parte. In particolare si perde il genere letterario dell'oratio universalis, che è preghiera di domanda e di supplica, non propriamente atto penitenziale, preghiera di ringraziamento e quant'altro. Anche se le rubriche indicano i quattro temi da tener sempre presenti, in realtà tutto è relazionato alla circostanza o alla persona festeggiata o a categorie protagoniste della celebrazione e le intenzioni universali sono dimenticate o sepolte da una serie eccessiva di intenzioni di circostanza. Siccome tuttavia la creatività richiede impegno e costanza, essa è stata da tempo sostituita col ricorso a schemi già preparati, quali il foglietto domenicale e le raccolte di preci acquistate in libreria. Sicché oggi si finisce per proporre alla comunità cristiana composizioni del tutto private, non sempre aliene da visioni di parte, sul piano politico, sociale, religioso, culturale, folcloristico, economico, ecc. Ci si chiede se questa totale libertà di contenuto possa reggere con l'esigenza del rispetto di ciò che è oggettivamente stabilito dalla Chiesa.
La forma. Il novus ordo ha scelto per l'oratio universalis di ricorrere sostanzialmente alla forma della solenne prece universale del venerdì santo. Questa forma, rispetto a quella più breve della litania, è discorsiva, e se consente una più completa formulazione dei motivi della preghiera, non possiede però l'efficacia contemplativa della litania e non suscita con altrettanta forza il moto orante dell'assemblea. La forma discorsiva tende ad essere prolissa e a trasformare l'intenzione di preghiera in un piccolo discorso sul tema proposto. Di qui la problematicità di molti schemi di oratio universalis e la fatica nel tener vivo nell'assemblea liturgica il moto ascensionale della supplica. La breve intenzione della litania è immediatamente compresa da tutti e può essere cantata o proclamata da una voce fuori campo, mentre tutti stanno rivolti al Signore; invece l'intenzione dell'oratio universalis, come è attualmente impostata, è articolata nella sua formulazione e necessita di essere proclamata verso il popolo all'ambone: pertanto deve essere ben pronunziata, in modo più simile ad una comunicazione, piuttosto che a una essenziale indicazione di preghiera. Dovrà essere valutata maggiormente la natura di orazione dell'oratio universalis, trovando un'espressione formale a ciò adatta. A tal proposito il ricorso alla forma antica e classica della litania potrebbe essere una soluzione.
Il ministro. Il ministro al quale la Chiesa affida il compito di pronunziare le intenzioni della oratio universalis dall'ambone è propriamente e storicamente il Diacono. Anche nel rito bizantino compete al Diacono cantare le litanie nei diversi momenti della Divina Liturgia. Proclamare il santo Vangelo e l'oratio universalis sono i due compiti eminenti, che il Diacono svolge nella liturgia della Parola. Infatti, se si considera la dignità dell'oratio universalis, quale preghiera pubblica e ufficiale della Chiesa universale, che si attua nella celebrazione locale della liturgia, si comprende in modo chiaro come sia competenza propria del Diacono un atto così importante. Privare il Diacono di questo compito per assegnarlo ad altri fedeli può essere paragonato al togliere agli accoliti il trasporto solenne delle oblate nei riti offertoriali. Questa convinzione tuttavia, oggi è alquanto precaria a causa della mentalità ormai molto diffusa: se la preghiera è dei fedeli, si dice, ai fedeli deve essere assegnata e dai fedeli deve essere formulata. Sulla base di questo equivoco, quindi, anche il Diacono viene facilmente congedato da uno dei servizi tipici del suo ministero liturgico. Anche il concetto riduttivo di partecipazione attiva riveste il ruolo debole di far credere che tale partecipazione sia più efficace nel coinvolgimento fisico di molteplici lettori, anziché di curare che tutti i fedeli abbiano una interiore adesione alla preghiera pubblica e solenne di tutta la Chiesa.
Alla luce di queste riflessioni l'oratio fidelium seu universalis deve essere ripensata e maggiormente definita. È necessario innanzi tutto partire da una teologia dell'oratio universalis, che ne assicuri i principi sui quali attinge l'identità sua propria, che la configura come autentico elemento della liturgia della Chiesa. Senza una teologia previa, non è possibile creare forme rituali stabili e di alta qualità. Su base teologica sarà quindi necessario fondare l'unica espressione priva di equivoci, l'oratio universalis, eliminando altre espressioni quali oratio fidelium e oratio communis. Essa è infatti la preghiera dell'intera Chiesa, che allarga il suo sguardo orante all'orizzonte universale nel tempo e nello spazio, senza dimenticare le contingenze del presente. In seguito si dovrà liberare l'oratio universalis dalla totale creatività soggettiva, priva di regole. Per questo sarebbe opportuno che venissero compilati degli schemi adatti ad esprimere la preghiera della Chiesa nel contesto delle feste, delle solennità, dei tempi sacri e in sintonia con la Parola proclamata. Tali schemi potranno offrire quell'oggettività, che la liturgia richiede, in modo tale da essere espressione autentica della Chiesa, che li avrà approvati con la sua autorità. Almeno sia possibile poter scegliere tra ciò che la Chiesa offre e le tante produzioni private, che non soddisfano e non danno garanzia liturgica. Se i formulari delle Intercessioni previsti nella Liturgia delle Ore (Lodi e Vespri) avessero avuto quella libertà di formulazione che attualmente vige per la preghiera universale della Messa, cosa sarebbe della qualità, dei contenuti, dello stile e della dignità di queste parti dell'Ufficio divino? Forse oggi è necessario fissare anche per l'oratio universalis della Messa dei formulari adatti che ne garantiscano la retta esecuzione nel contesto del suo vero significato, pur con il dovuto margine di adattamento.
10. Il segno della pace
Il rito mediante il quale ci si scambia il segno della pace è certamente molto significativo e conforme all'antica e costante tradizione della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente. Esso è testimoniato dai primissimi documenti che ci informano sull'ordo Missae (S. Giustino + 165). Inoltre nella forma solenne della celebrazione della Messa latina il bacio di pace fu sempre presente nell'abbraccio che i ministri sacri si scambiavano e nell'uso di strumenti liturgici, detti pace, con cui tale pace veniva partecipata a prelati e ad autorità presenti. La novità quindi è aver reso tale rito proprio della Messa ordinaria e quotidiana ed averlo esteso a tutti i fedeli. Tuttavia il problema si pone con la breve e del tutto indeterminata monizione diaconale Offerte vobis pacem, la quale ha spalancato la porta ad espressioni del tutto secolarizzate e conformi all'uso profano del comunicare. La 'pastorale' più secolarizzata ha introdotto in questo momento delicato e sacro della liturgia le modalità più correnti e, non raramente banali, del socializzare. Il monito di S. Cirillo di Gerusalemme si rivela di grande attualità:
Non pensare che questo bacio sia l'abituale di quelli che avvengono sulla piazza tra amici comuni. Non è nulla del genere. Questo bacio unisce le anime tra loro e le induce ad ogni perdono. Il bacio è segno dunque che le anime si uniscono e cacciano ogni rancore.
Il sagrato viene ancora una volta a turbare l'azione liturgica, entrando violentemente in essa e togliendo al segno della pace la sua specifica natura di atto sacro e di comunicazione di un dono soprannaturale: la pace, «frutto della giustizia, che viene dall'alto» (Gc 3, 18). In tal modo quell'irruzione secolaristica che tende ad invadere i riti iniziali e quelli di congedo, turba pure il momento tanto raccolto e solenne dello scambio della pace. Anche questo viene naturalmente giustificato in nome della pastorale, che vorrebbe rendere 'viva' la celebrazione. Anzi, proprio la sua forma del tutto uniforme al costume profano e ordinario del comunicare, attesterebbe la sua 'verità' e la sua 'autenticità'. Ecco allora che gli elementi costitutivi del segno della pace, la forma, le parole e i destinatari, subiscono una totale secolarizzazione. Il 'darsi la mano', che è il gesto più ordinario e orizzontale, ha ormai sostituito totalmente l'abbraccio di pace, anche tra i sacerdoti concelebranti e gli altri ministri sacri. Chi ancora tenta di farlo sente il disagio e talvolta subisce il sorriso dei confratelli, travolti dal turbine dello scambio gestuale. Non è raro assistere a gesti plateali, come abbracci travolgenti o motti eccentrici per raggiungere i lontani. Il saluto sobrio Pax tecum è ritenuto insufficiente, povero e soprattutto formale, un residuo dei rubricisti. Al suo posto un ventaglio totalmente sciolto di ciò che si dice sempre e negli ambienti quotidiani. Tra i più spigliati ci si appella con battute spiritose. Poi il gran movimento nel dare la pace a quante più persone possibili, davanti, dietro, destra, sinistra, cercando di raggiungere con lo sguardo o le espressioni del volto l'orizzonte più lontano. A questo punto è lecito porsi la domanda: se tutto questo è già avvenuto sulla piazza prima della celebrazione e se si ripeterà anche dopo a celebrazione conclusa, che senso può avere riproporlo, forse un po' più sobrio, durante la liturgia? Si intende allora che anche per il segno della pace è necessaria una previa teologia. Senza di essa non lo si comprende, né lo si conosce e sul piano rituale si finisce per sostituirlo, incrinando radicalmente la sua identità vera. Ora nel rito liturgico della pace, la Chiesa riceve da Cristo Gesù, il Signore, quella pace che il mondo non può dare (cfr. Gv 14,27). Il segno della pace allora non trasmette un semplice sentimento umanitario, che scaturisce unicamente dalla nostra natura ed esprime la sincera buona volontà di comporci l'un l'altro nella concordia e nell'accoglienza reciproca. Non si tratta quindi di un'esperienza sul piano psicologico e sociologico, come avviene nella comune rete dei rapporti umani, che intesse il tessuto quotidiano delle nostre giornate. Non è una pace che insorge in noi e che da noi si diffonde, non è un nostro 'prodotto', né l'espressione di quella filantropia congenita che abbiamo bisogno di esprimere e di attuare sul piano naturale. Nel rito liturgico il Signore risorto e presente elargisce alla sua Chiesa il dono pasquale della pace, che scaturisce dal suo Sacrificio e che Egli già comunicò agli Apostoli la sera di Pasqua, quando disse: «Pace a voi!» (Gv 20, 19). Questo medesimo saluto è oggi rivolto a noi dal medesimo Signore, presente e operante nell'azione sacra dei suoi ministri. Essi infatti rivolgono alla Chiesa convocata l'identico saluto: Pax Domini sit semper vobiscum. È quella medesima Sua pace che si estende fino a noi e ci avvolge. Si realizza quindi un evento di grazia, che scende dall'alto ed è di natura soprannaturale, un dono celeste che fa irruzione dolce nella Chiesa peregrinante e ne fortifica il cammino. Siamo messi in mistica comunione con la pace dei Santi e il riposo dei Beati, già riceviamo in dono l'anticipo della beatitudine e della carità trinitaria. È un evento celeste che qui si realizza e proprio per questo vi è il fascino del 'nuovo' e l'incontro con una realtà che non troviamo nel mondo, per quanto possa essere nobile ed elevata la filantropia degli uomini. Questa pace, generata da una sapienza che viene dall'alto, viene ben descritta dall'apostolo Giacomo: «La sapienza che viene dall'alto è anzitutto pura; poi pacifica, mite arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti […] Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3, 17-18). È allora evidente che un tale mistero deve essere adeguatamente espresso dai riti, altrimenti rimane sepolto o anche viene profanato con manifestazioni indegne o comunque non all'altezza di ciò che debbono trasmettere. Non basta la retta teologia del 'gesto di pace', occorre anche una retta e adatta liturgia, che lo esprima ritualmente e lo trasmetta 'sacramentalmente'. È questo il collasso che oggi si verifica nella quasi totale secolarizzazione del segno di pace: il mistero sotteso è svuotato dai modi secolari e la sua trasmissione ne è interrotta. Vi è la sostituzione del contenuto: invece della pace che viene dall'alto e che il Risorto ci dona, vi è quella naturale della nostra amabilità; al posto della sobria ebbrezza dello Spirito, che inonda il cuore, vi è la chiassosa espressione e la superficialità dei nostri rapporti. Purtroppo oggi ci si è omologati al gesto più ordinario e ricorrente, quale è il darsi la mano. Ciò finisce per livellare il sacro al profano e non distinguere più gli ambiti, né affermare il diverso contenuto che i due ambiti sono chiamati a comunicare. È necessario in questo stato di cose procedere tramite alcuni emendamenti riguardo al gesto, alle parole e ai destinatari del segno di pace. Riguardo al gesto tutti i ministri sacri rivestiti con abiti liturgici e agenti nel presbiterio (concelebranti, diaconi, accoliti, lettori, ecc.) dovrebbero adottare rigorosamente l'abbraccio di pace, ricevuto e dato unicamente alla propria destra e sinistra. Anche le parole dovrebbero essere tassative, quelle stabilite dal rito, Pax tecum. Et cum spiritu tuo. In tal modo il segno della pace acquista ordine, dignità e sacralità. Una buona soluzione sarebbe poter realizzare una trasmissione a catena, tramite cui la pace, attinta dall'altare, è consegnata dal sacerdote al diacono e da questo trasmessa a tutti gli altri ministri. Il significato della pace che viene dall'alto sarebbe in tal modo eloquente. Tuttavia si comprende che in grandi concelebrazioni questa modalità richiederebbe un tempo eccessivo, ma sarebbe comunque attuabile nelle celebrazioni ordinarie e contenute nel numero dei ministri. Ai fedeli nell'assemblea si dovrà consentire che il segno della pace possa essere scambiato subito, appena ne è dato l'annunzio dal diacono. Tuttavia tutti i fedeli dovrebbero essere introdotti all'abbraccio di pace, accompagnato dalla parole liturgiche, offerto soltanto alla destra e alla sinistra di ciascuno. Tutto ciò non riduce assolutamente la 'vitalità' dell'assemblea e della celebrazione, ma la conterrebbe in quei limiti di sobrietà ed elevatezza spirituale che assicurerebbero il vero senso interiore e la profondità sacra del dono soprannaturale della pace, che il Signore risorto manda su di noi. In tal modo il fedele sarebbe facilitato a capire che quella pace che dona al fratello non è semplicemente l'espressione di una simpatia e benevolenza umana, ma un dono celeste, che ricevuto dall'alto è scambiato tra i fratelli, che diventano l'uno per l'altro sacramento della pace di Cristo.
11. L'ingresso corale, il sagrato e l'oratorio
Si sta sempre più diffondendo il costume di contenere nella celebrazione liturgica altre manifestazioni ecclesiali, che dovrebbero esserne distinte. Non è infrequente che in occasione dell'ingresso di un parroco, nella visita pastorale del vescovo, in una prima messa o in altre analoghe circostanze, l'ingresso corale sul sagrato venga del tutto inserito nei riti di inizio della Messa, in modo tale da fondere e confondere i due momenti. Il sagrato, come luogo antistante ed esterno alla chiesa, viene escluso e tutto avviene nel presbiterio, dove già i ministri sacri attendono rivestiti con gli abiti liturgici. Così gli applausi si fanno in chiesa, i discorsi delle autorità civili ed ecclesiastiche e dei rappresentanti delle associazioni sono tenuti dall'ambone e le varie espressioni folcloristiche di saluto e accoglienza si inseriscono in questo contesto. Dopo questo rito, tipico del sagrato, si passa all'atto penitenziale e alle successive sequenze dei riti iniziali della messa. Con l'abbandono del sagrato e l'elisione dell'ingresso corale vi è pure quello dell'abito corale, che ormai è direttamente sostituito dagli indumenti liturgici. Si passa spesso dall'abito civile (o semplice clergyman) all'assunzione dei paramenti sacri. Anche l'aspersione rituale in tal modo viene impartita con abiti civili, mentre un lungo applauso accompagna l'ingresso in chiesa. L'abbandono dell'abito corale, oltre che per funzionalismo e comodità, è facilitato dalla concessione di poter sostituire la talare con l'alba. Ma in tal modo non si distingue più il sacerdote concelebrante dal sacerdote assistente, che si limita a non pronunziare la prece eucaristica e a non stendere le mani alla consacrazione. Ma di tale differenza nessuno s'accorge. In realtà questa difficoltà sarebbe superata se si osservasse la disposizione del vigente Cerimoniale dei Vescovi. Con l'eclissi dell'abito corale si accompagna spesso anche quella dell'abito ecclesiastico, in modo tale che si realizza un corto circuito tra l'abito civile e quello liturgico. La caduta sia dell'abito ecclesiastico, sia dell'abito corale, ha di fatto portato ad un passaggio senza mediazioni dalla vita e dall'attività profana alla liturgia e il suo ambito sacro. Questo passaggio drastico è in realtà un impoverimento e una dannosa riduzione simbolica. Ciò ha portato ad usare la tunica e la stola liturgiche, uniche superstiti, per presiedere azioni sacre come i pii esercizi e anche per presenziare ad altre azioni che richiedono il decoro di un abito specifico. Ma in questo stato di cose la liturgia è esposta ad accogliere al suo interno una molteplicità di atti ecclesiali e sociali, che in realtà dovrebbero essere distinti. In tal modo la secolarizzazione entra con irruenza nel recinto sacro.
Nella processione offertoriale l'ampia e diversificata natura dei doni, talvolta ingombranti e non in sintonia col carattere sacro dell'azione liturgica, finisce per portare in chiesa e all'interno della celebrazione il ruolo della casa sociale o dell'oratorio. In questi altri ambienti, infatti, si dovrebbero consegnare regali e doni di vario genere, commentandoli e applaudendoli.
Infine, nei riti di congedo, si apre alla possibilità di tanti altri interventi, come ringraziamenti, saluti, complimenti, piccole recite e quant'altro, che avrebbero pure dovuto aver luogo nei locali dell'oratorio. La benedizione finale, in questo stato di confusione e quasi di allegria, sembra addirittura fuori luogo e le fotografie d'obbligo, all'altare e nel presbiterio, concludono nel tumulto la celebrazione. Rimangono al loro posto soltanto il brindisi per tutti e il pranzo, che vengono allestiti nei luoghi dovuti. Di solito tutto così si conclude, ma, lì dove si programmi anche uno spettacolo pomeridiano, basterà che esso abbia un qualche richiamo sacro per scegliere di nuovo la chiesa come luogo della sua realizzazione. Ed ecco che sagrato, oratorio e teatro entrano in chiesa e in essa assolvono tutte le loro funzioni in un clima generale di panliturgismo, che svuota la liturgia e sacralizza il profano. Si comprende allora perché nell'erigere una nuova parrocchia si pensi ad una grande sala multiuso, nella quale possano realizzarsi con la massima funzionalità queste eterogenee manifestazioni. Ma, con una tale scelta, quale potrà essere il futuro del sacro e che senso potrà avere la Dedicazione di una chiesa?
Non sembra che questo costume sia un progresso, non contribuendo assolutamente ad una pastorale di qualità. Perciò occorrono dei seri correttivi, distinguendo gli ambienti (chiesa, sagrato, oratorio, teatro), variando gli abiti (liturgico, corale, ecclesiastico), definendo i confini delle diverse azioni ecclesiali e civili (liturgia, spettacolo, socializzazione, protocolli, folclore, ecc.). è inevitabile che ciò richieda maggior impegno e preparazione, tuttavia potrà garantire il frutto di una più sicura maturazione, di una più nobile celebrazione e di una più degna testimonianza.
12. La sagrestia e la Praeparatio ad Missam
San Carlo Borromeo interroga il suo clero ponendo questa domanda: «Ci sarà magari chi si lamenta che, quando entra in coro per salmodiare, o quando va a celebrare la Messa, la sua mente si popoli di mille distrazioni. Ma prima di accedere al coro o di iniziare la Messa, come si è comportato in sagrestia, come si è preparato, quali mezzi ha predisposto e usato per conservare il raccoglimento?» . Nella migliore tradizione liturgica e storico-artistica la sagrestia si presenta come un luogo sacro, che introduce alla preghiera e favorisce il raccoglimento dello spirito. Infatti la configurazione monumentale dell'architettura e la disposizione e lo stile dell'arredo sono ispirati all'arte sacra e propongono quelle medesime forme e soggetti che ricorrono pure nella chiesa e nel complesso dei suoi elementi artistici. Un grande senso di stupore e bellezza pervade l'animo di chi entra e sosta in tante splendide sagrestie delle nostre cattedrali, basiliche, santuari e chiese in genere. Anche la legge del silenzio, sempre praticata in sagrestia e richiamata dalla immancabile didascalia Silentium, concorreva a fare della sacrestia un luogo sacro adatto alla calma interiore: in essa, infatti, si parlava sottovoce e ci si muoveva con una certa circospezione. La sagrestia era dunque una parte dell'edificio sacro adibita alla decorosa conservazione degli arredi e degli abiti sacri, alla loro preparazione e assunzione e alla predisposizione degli animi per una degna celebrazione. La liturgia orientale, ancor più della latina, offre a questo luogo (Protesi) una posizione ancor più degna e in stretto contatto con l'altare in cui si celebrano i divini misteri: qui si svolge l'ampio rito della preparazione (Proscomidia).
Oggi, invece, si tende a realizzare sagrestie del tutto e solo funzionali, senza i caratteri propri del luogo sacro e quindi inabili a suscitare il necessario raccoglimento. La sola funzionalità rende la sagrestia un luogo simile ad un deposito o nel migliore dei casi ad un salotto di accoglienza e di conversazione. Si comprende come in un ambiente così concepito non vi siano i necessari stimoli alla preghiera, al silenzio e alla sobrietà dei movimenti e la preparazione ai riti tende inevitabilmente al tumulto, all'affanno o comunque ad una indebita socializzazione. Succede così per la sagrestia quello che avviene – come abbiamo visto in precedenza - per la chiesa e per lo stesso presbiterio, ossia vi è in essa l'irruzione del sagrato e il passaggio tra sacro e profano è bruciato dall'assenza di un luogo di mediazione, che dovrebbe offrire la necessaria e graduale introduzione all'azione liturgica.
Vi era poi la tradizione rituale della Praeparatio ad Missam che dava contenuto a quel silenzio che tutti accomunava. Essa offriva delle preghiere prolungate che il sacerdote poteva recitare sull'inginocchiatoio leggendole sulle apposite tabelle; vi era poi la lavanda quasi rituale delle mani che disponeva ad una purificazione spirituale presso fonti d'acqua mirabili per arte; infine l'assunzione degli abiti liturgici era accompagnata da preci, che invocavano quella grazia, che i singoli paramenti esprimevano nelle loro forme simboliche. In tal modo l'unione tra simbolo e prece portava a capire la legge tipica della liturgia, che ha una struttura sacramentale: mediante il simbolo visibile si accede, si invoca e si riceve la grazia interiore nell'anima. Rivestiti degli abiti liturgici al contempo sia esteriormente, sia interiormente, con le facoltà spirituali pervase di preghiera, i ministri sacri sostavano in silenzio fino all'invito: Procedamus. Così già si era entrati nel rito e l'anima e il corpo erano circonfusi da quella grazia interna ed esterna che doveva risplendere sul volto e nei movimenti dei ministri dell'altare.
Tutto questo oggi sembra scomparso. Il sacerdote, i concelebranti, i diaconi e con loro tutti gli altri ministri, rivestono gli abiti liturgici conversando, senza devozione, col medesimo tratto che ebbero nel deporre il cappotto ed appendere il cappello: un puro gesto funzionale col cuore pervaso delle distrazioni della strada e con una preoccupazione del tutto incentrata sul funzionamento esteriore della celebrazione. Quando tutti sono rivestiti si attende continuando a chiacchierare con le braccia conserte e nell'atteggiamento più ordinario e usuale del proprio corpo. Giunto il momento dell'uscita, ci si dispone in ordine e gradualmente cala il brusio e la distrazione. Solo in alcune circostanze sembra ritornare il silenzio austero in sagrestia, come ad esempio in occasioni di esequie particolarmente drammatiche o casi analoghi.
C'è chi giustifica questo clima di scambio e di comunicazione in sagrestia e nei momenti immediatamente precedenti alla celebrazione come un costume da preferire rispetto al raccoglimento personale, in quanto il 'presidente' prende gli accordi con i ministri che lo coadiuvano nella conduzione del rito. Si dice, infatti, che esso non è, propriamente, un'azione di pietà personale, ma una espressione comunitaria e pubblica dell' intera assemblea. Non quindi un clima di riserbo e di orazione, ma un cordiale rapporto di comunicazione e di coordinamento, che avrebbe pure una valenza di mutua fraternità. In tal senso si giustifica pure la conversazione che i ministri, già parati in sacris, e gli operatori liturgici continuano ad esternare fin alla soglia della sagrestia e all'uscita per la celebrazione. Così lo sguardo ad homines ha già il suo esordio in sagrestia e nella praeparatio ad missam. San Carlo tuttavia risponde: «Eserciti la cura d'anime? Non trascurare per questo la cura di stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi aver certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso».
La sagrestia, come luogo sacro, e la preparazione alla Messa, come momento prossimo che precede la sua celebrazione, devono oggi ricevere una nuova considerazione.
La normativa attuale è debole e le Premesse al Messale si limitano a raccomandazioni troppo generiche, lasciando libero il campo ad una totale facoltatività, che, di fatto, si risolve in una totale omissione. Infatti nella terza edizione del Messale Romano (2000), percependo la problematica, si tenta di riesumare un certo richiamo, ma in modo ancora insufficiente e indefinito: «Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione».
È necessario riproporre sia il criterio sacro riguardo all'edificio e all'arredo della sagrestia, sia la regola del silenzio, sia un sobrio, ma ben definito rito della Preparatio ad Missam e della vestizione. Iniziare, ad esempio, l'assunzione degli abiti sacri col segno della croce e accompagnare almeno i tre indumenti principali (camice, stola e casula) con apposite preghiere, potrebbe essere un passo opportuno per superare l'attuale secolarizzazione dell'ante Missam. Così ricuperare al termine della Messa una preghiera di ringraziamento che tutti i ministri, giunti in sagrestia, recitano coralmente, deporre poi in silenzio i paramenti e concludere la svestizione col segno della croce, potrebbe aiutare a non dissipare violentemente e prematuramente il frutto spirituale della celebrazione. Venendo meno il clima della devozione in sagrestia e il senso del sacro nel trattare gli abiti liturgici, si comprende come possa facilmente essere screditata ed omessa la benedizione che la Chiesa raccomanda ancora per paramenti ed arredi nuovi prima del loro uso: «Per la benedizione dei vasi sacri, si osservino i riti prescritti nei libri liturgici» e «Le vesti che indossano i sacerdoti e i diaconi e gli altri ministri laici, prima di essere destinate all'uso liturgico, vengono opportunamente benedette secondo il rito descritto nel Rituale Romano».
Su questo versante si apre anche la problematica della praeparatio ad Missam dei fedeli in chiesa prima delle celebrazioni. Quella indisciplina che vi è in sagrestia si è ormai diffusa anche in molte chiese, che non sono più luoghi di silenzio e di sacralità. I fedeli, infatti, da molte parti entrano ed escono senza devozione e conversano con la massima libertà. Solo l'ingresso dei ministri li induce al silenzio, che con estrema facilità rompono appena terminata la celebrazione. Anche a questo proposito alcuni teorizzano una giustificazione nell'orizzonte sociologico della chiesa come casa del popolo di Dio e luogo del tutto idoneo allo scambio fraterno. Ne consegue così ancora una volta la confusione degli ambienti e la mancanza di distinzione tra i momenti diversi e complementari della vita ecclesiale. Tuttavia la praeparatio ad Missam non è del tutto estinta, ma, se nella cappella papale si esprime sovente con il meraviglioso canto delle Laudes regiae, nelle nostre comunità si esprime in talune circostanze con la recita del santo Rosario o la proposta di canti e meditazioni adatte. Si tratta di dare stabilità ad una tale preparazione per favorire l'efficacia spirituale dei santi misteri e non abbandonare con superficialità l'indispensabile ruolo di una qualche forma di praeparatio ad Missam, che preveda almeno quel silenzio religioso che sempre deve precedere e seguire l'azione liturgica.
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L'analisi di questi alcuni settori della liturgia, così come oggi tende ad essere celebrata, non è, si intende, completa, ma, mettendo in luce alcuni aspetti, da un lato riconosce e valorizza le peculiarità e le potenzialità del novus ordo, e dall'altro, indica quegli elementi di fragilità che possono prestarsi a realizzazioni deficitarie ed abusive, che producono un ribasso del tono sacro e dell'identità propria della liturgia. Per evitare questi pericoli e risanare l'equilibrio di una celebrazione degna e santa, occorre ripartire dalla teologia sottesa alle varie sequenze rituali, che formano il complesso liturgico. Solo su una rinnovata e seria base teologica si potranno realizzare con cognizione di causa e con fedeltà i riti stabiliti dalla Chiesa. La teologia, quindi sta alla base della riforma della riforma, che, se ben si osserva, non fa che ricondurre le comunità cristiane con i loro pastori ad attuare il novus ordo nella sua forma più vera e più nobile, ancora alquanto disattesa.
b. La pastorale e l' inculturazione
Si sono qui presentate alcune cause che, inerenti alla struttura stessa dei riti riformati, potrebbero prestarsi a forme di secolarizzazione della liturgia. Ma vi sono pure concetti più generali che hanno ispirato la riforma liturgica e che, male interpretati o portati a conseguenze estreme, potrebbero portare la liturgia a un'attenzione esorbitante ai dati sociologici a danno dell'integrità del mistero soprannaturale e della sua espressione visibile.
Si tratta innanzitutto del concetto e del processo di inculturazione. Il Concilio lo assume e lo esprime così: «Salva la sostanziale unità del Rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici, si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli,soprattutto nelle Missioni, e ciò si tenga opportunamente presente nella struttura dei riti e nell'ordinamento delle rubriche» (SC 38).
La formulazione prevista dal Concilio è esatta ed é definita nel suo equilibrio più autentico. Si parte dal principio dell'uniformità della liturgia, che deve mantenere il più possibile la sostanziale unità del Rito romano, per passare poi, per necessità e nell'orizzonte dell'unità e mai fuori di esso, ai legittimi adattamenti relativi ai vari popoli. Si tratta di capire la logica sottesa al concetto di inculturazione espresso dal Concilio. La liturgia è al contempo l'attuazione ontologica e la celebrazione simbolica dell'unità. Nessuna altra attività ecclesiale la supera nella realizzazione misterica dell'unità e nessuna ha titolo superiore per esprimere nei simboli tale unità. Soprattutto l'eucaristia è il sacramento dell'unità della Chiesa. Da ciò nasce che normalmente l'unità ontologica nel mistero di Cristo e della Chiesa - che costituisce il contenuto interiore della liturgia e mai può essere perduto - deve trovare pure la sua espressione anche esteriore nell'uniformità di tanti elementi, che hanno tuttavia diverso valore. Infatti la liturgia «consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche devono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti alla intima natura della stessa Liturgia, o si fossero resi meno opportuni» (SC21). Ed è proprio in forza di questa unità e per realizzarla più compiutamente e profondamente che la Chiesa si apre alla diversità, ed assume, dopo un'attenta verifica, le diverse autentiche espressioni della retta cultura dei popoli. In altri termini, la liturgia porta sempre e necessariamente verso l'unità e, pur raccogliendo nei secoli e nelle culture la diversità, la eleva in una superiore sintesi di unità. Occorre allora affermare con chiarezza che la meta genetica ed interiore, sempre insorgente nella liturgia, è l'unità non la diversità. La liturgia è per il suo stesso essere proiettata verso l'orizzonte dell'unità. La diversità è invece una necessità intermedia che chiede di intervenire ed essere assunta nel processo verso l'unità. Mentre l'unità è nell'ordine dei fini, la diversità è in quello dei mezzi: non é quindi fine a se stessa. La diversità deve essere una nota dell'unità, non un'alternativa. Ogni diversità infatti deve tendere ad essere una 'nota' nell'armonia del concerto dell'unità, che sarà perfetto nel Regno di Dio. Quando invece la diversità perdesse il rapporto con l'unità e venisse 'idolatrata' in se stessa, mancherebbe miseramente al suo fine e comprometterebbe il piano di Dio che è uno e unico. Infatti quando le diversità assurgono a valori assoluti e si chiudono all'orizzonte aperto e universale del piano divino della salvezza, provocano un arresto e generano un processo di decomposizione nella Chiesa e nella storia umana.
Questo è l'effetto dell'opera di Dio: l'unità; perciò l'unità è il segno di riconoscimento, il 'biglietto da visita' della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall'inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e di universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane. Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con essa. Ciò non significa che l'unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l'imposizione di una cultura dell'unità che potremmo definire 'tecnica'. La Bibbia, infatti,ci dice che a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L'unità dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e molteplice, destinata com'è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere segno e strumento di unità di tutto il genere umano, solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni luogo la Chiesa deve essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti in cui ciascuno si può ritrovare.
Ma l'unità esige anche di essere adeguatamente espressa e di assumere forma visibile. Non si può ritenere che la sola diversità abbia diritto all'espressione rituale, senza difendere la altrettanto necessaria visibilità dell'unità. Per questo occorre pure affermare la compresenza dell'uniformità rituale, come segno visibile dell'unità stessa. Infatti, l'uniformità è l'espressione corporea dell'interiore unità e diventa tanto più urgente quanto maggiore è il vincolo di unità che unisce. Coloro che si sentono in profonda sintonia nello spirito tendono con spontaneità naturale a tradurre tale unione in strutture esterne, visibili e comunicabili di tale rapporto interiore. Più cresce la sintonia del cuore, più si ricercano, si creano e si trovano forme esterne, che la manifestano e la alimentano. È questo un moto naturale, in assenza del quale vi è da dubitare dello stesso processo interiore dell'unità. È così che si fonda la legittimità dell'uniformità rituale e che essa costituisce un aspetto necessario e non eludibile nella struttura dei riti liturgici. Riti totalmente difformi gli uni dagli altri rivelano una fragile o comunque non immediata attestazione di unità e creano con maggior facilità occasioni di incomprensione e senso di estraneità religiosa e culturale. La legge liturgica dell'uniformità quindi non può essere rifiutata per principio, né ritenuta incompatibile con il processo di inculturazione della liturgia. L'espressione conciliare 'salva la sostanziale unità del Rito romano' non si riferisce perciò unicamente alla sostanza interiore dell'unità nella fede e nel culto, ma esige anche il mantenimento di forme uniformi, che costituiscono, proprio nella loro espressione visibile, l'identità e le linee basilari del Rito romano. Uniformità e diversità sono due valori che devono coesistere nel dovuto equilibrio nei riti liturgici. Essi, infatti, sono l'espressione visibile rispettivamente dell'universalità e della particolarità dell'unico mistero della fede. L'elisione indebita e pregiudiziale di uno dei due termini provoca l'incrinatura dell'edificio liturgico. Infatti, senza un'adeguata uniformità si decade nel soggettivismo e nella dittatura del particolarismo; senza una sufficiente assunzione di diversità si compromette la comprensione e la fruttuosità delle azioni liturgiche. Tuttavia nell'intendere l'inculturazione nel contesto odierno è scattato un corto circuito: si passa dall'unità propria e interiore del mistero, alla sua immediata diversificazione rituale, senza più passare attraverso espressioni uniformi del medesimo, che sempre devono, si dice, essere ritenute provvisorie. Si teorizza in tal modo una liturgia totalmente diversificata e il meno possibile uniformata. Ogni uniformità è per principio aborrita o comunque tollerata, in attesa di essere superata. La liturgia, si afferma, deve il più possibile rivestirsi della diversità. In tale prospettiva l'unità del mistero non si deve mai fermare a strutture uniformi, ma deve continuamente forgiarsi nelle forme proprie delle diverse culture e sensibilità. Si teorizza così l'unità soltanto sul piano invisibile e spirituale, e si dichiara l'illegittimità della sua traduzione nelle forme tradizionali e storiche. Pur essendo vero che l'unità si compone anche nella diversità e in essa si manifesta la ricchezza dei suoi aspetti, è altrettanto vero che la riduzione alla sola diversità impoverisce la sintesi dell'unità e non ne fornisce una adeguata espressione esteriore. L'uniformità delle strutture, invece, difende l'unità, la alimenta e la purifica dalla dittatura dei particolarismi. E' pur vero che tante incomprensioni e divisioni sono nate e alimentate non dall'identico contenuto della fede, ma dalle diverse sue espressioni, storiche e culturali. Non è possibile, data la costituzione della natura umana, spirituale e corporea, realizzare l'unità liturgica senza la sua espressione formale nell'uniformità che accoglie pure, senza quindi eliminarla, l'apporto della diversità. Possiamo allora osservare come la definizione di inculturazione data dal Concilio sia stata rovesciata. È stata spostata dall'ordine dei mezzi a quello dei fini: l'inculturazione come fine anziché come mezzo per realizzare in sintesi più ampia l'unità. La diversità, da mezzo in vista dell'unità, si è tradotta in un fine. Si dimentica che la liturgia tende naturalmente e in prima istanza a uniformare e successivamente per necessità a diversificare. Invece si invertono i termini: si diversifica il più possibile senza reale necessità e lo si giustifica sul piano dei principi. In realtà non si opera inculturazione senza vera necessità e senza uno sviluppo coerente e organico dalle forme precedenti e lì dove l'unità è messa in pericolo, cessano i motivi stessi di un processo di inculturazione, che si rivelerebbe deleterio per la stessa unità (si vedano i criteri della riforma liturgica al concilio di Trento). È in questo contesto che oggi si tende a tradurre in volgare assolutamente tutto e ad eliminare sistematicamente il latino; si rincorrono le necessità di inculturazione, anziché recepirle con cautela; si vuole evitare sul nascere la formazione all'uniformità e la si riguarda con sospetto, come sempre inadeguata e strada da non percorrere. Questa spinta eccentrica si rinnova ogni volta che si cura una nuova edizione dei libri liturgici: si passa così delle prime edizioni sobrie e fedeli alla forma tipica ad edizioni successive preoccupate di diversificare anche senza una reale necessità. Si teorizza questo percorso come conciliare senza tuttavia prospettare dove si arriverà di questo passo e quale potrà essere la sorte della sostanziale unità del Rito romano, prevista dal Concilio. In tal modo si è entrati in una instabilità permanente nella quale la metodologia è considerata più importante del contenuto liturgico e i particolarismi delle Chiese locali più venerabili della tradizione dell'unità della Chiesa. Un simile concetto e processo di inculturazione non è quello previsto dal Concilio e neppure quello che interpreta il sentire della Chiesa nello sviluppo della sua liturgia. «Non si introducano innovazioni se non quando lo richiede una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti» (SC 23). Interprete autentico della sintonia tra uniformità e diversità liturgica è il papa Paolo VI, quando afferma:
Riunendosi in preghiera, i fedeli esprimono ad un tempo la varietà di un popolo radunato «da ogni tribù, lingua e nazione», e la sua unità nella fede e nella carità. La varietà è evidenziata dalla molteplicità delle lingue legittimamente ammesse nella liturgia e dei relativi canti in volgare, mediante i quali, insieme al contenuto dell'identica fede comune, si trasmette anche il sentimento religioso di un popolo e si manifestano le forme musicali rispondenti alla sua cultura e alla sua tradizione. L'unità è sottolineata in maniera particolare, direi sensibile, dall'uso del latino e del canto gregoriano, che per tanti secoli ha accompagnato le celebrazioni sacre nel rito romano, ha nutrito la fede e alimentato la pietà, ha raggiunto una perfezione artistica tale da essere meritatamente considerato dalla Chiesa come un suo patrimonio di inestimabile valore, ed è stato riconosciuto dal concilio «come canto proprio della liturgia romana» (SC 116).
Si nota allora che l'uniformità nel rito liturgico ha il primato sulla diversità, un primato storico e teologico. Storico in quanto ogni Chiesa riceve la liturgia nella sua forma tradizionale, antica, universale e comune, che poi alle debite condizioni, nella dovuta misura e nei limiti consentiti adatta alla propria cultura. Teologico nel senso che l'uniformità è più prossima all'unità, aderisce maggiormente al suo essere e con maggior eloquenza la esprime in forma visibile. Essa infatti ne è quasi visibile sacramento. E mentre la diversità nel cammino storico della liturgia della Chiesa assume o depone con grande mobilità tante forme contingenti, l'uniformità si solidifica in forme sempre più purificate, semplici, nobili e per ciò stesso stabili, condivise, universali, aldilà delle culture e permanenti nelle successive generazioni cristiane. L'uniformità liturgica perciò annunzia già ora in forme visibili quel mistero dell'unità che, dopo aver assunto ogni diversità e averla sanata da ogni difformità, si manifesterà pienamente nel Regno di Dio. Il papa Paolo VI, parlando al Consilium liturgico il 14 ottobre 1968, espresse con parole accorate l'eccellenza della tradizione romana:
Ci sia lecito farvi un'ultima raccomandazione, che molto Ci sta a cuore. Fate in modo che il vostro lavoro non si discosti troppo dalla tradizione romana, dove la liturgia latina ha avuto la sua origine, si è sviluppata e ha raggiunto il suo fastigio. È una raccomandazione che non siamo spinti a fare per interesse storico e locale, e neppure Ci muove la brama di potere; ma perché essa deriva da ragioni teologiche e costituzionali della Chiesa, che ha in Roma il centro della sua unità e della sua cattolicità. Al riguardo, piuttosto che la Nostra voce, si ascolti quella di due insigni cultori della liturgia. Uno dell'Ordine Benedettino, padre Gabriele M. Brasò, così si esprime: «Chi non si sente romano, difficilmente potrà assimilare tutto lo spirito della liturgia. La romanità è la salvaguardia della purezza dello spirito liturgico. Le deviazioni in materia di liturgia, come in tanti altri campi del pensiero e della pratica della vita cristiana, hanno di solito come base la mancanza di romanità. Un eccessivo e chiuso patriottismo fa vedere come un rivale l'amore a Roma, e qualifica d'incomprensione le sue norme, e come dispotiche imposizioni le sue leggi. La romanità è la base della nostra cattolicità» (Liturgia e Spiritualità, Edizioni Liturgiche, Roma, 1958, p. 307-308). L'altra testimonianza, di cui vogliamo servirCi, è di E. Bishof, rimasto celebre come eminente studioso nel campo degli studi liturgici, il quale ancora ci ammonisce nel suo studio sul genio del rito romano: «La maniera romana non manca di virtù sue proprie, virtù tanto più indispensabili e degne di essere apprezzate, in quanto la storia religiosa d'Europa in diverse fasi permette di constatare i dannosi effetti che sono derivati dal loro misconoscimento» (Le Genie du Rit Ramain, Libr. De l'art. catholique, p. 66-67). Perciò, diletti figli, non abbiate diffidenza e timore di Roma: essa saprà accogliere volentieri, giustamente valutare e rendere perenne e veramente cattolico il vostro lavoro, non a sua lode, ma della Chiesa, e a gloria di Cristo nostro Redentore. Tali sono le direttive che, spinti dalla consapevolezza del Nostro apostolico ufficio, abbiamo creduto bene di darvi.
Per questo Benedetto XVI può affermare:
In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: «Si dirà di Sion: L'uno e l'altro è nato in essa». (v. 5). Similmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in qualche modo, siamo tutti nati a Roma.
* Il ruolo della liturgia papale nell'inculturazione
Giovanni Paolo II in un discorso alla Conferenza episcopale del Brasile nel 1995 sottolineava il carattere internazionale del rito romano:
Il Rito romano, dopo la riforma voluta dal Concilio, ha nelle sue espressioni liturgiche una vitalità in grado di prendere in considerazione la sensibilità e l'espressività delle varie culture, anche di quelle più lontane dall'area in cui originariamente è nato e si è sviluppato.
Le celebrazioni liturgiche del Sommo pontefice, sia in Roma, sia, soprattutto, nei viaggi apostolici nel mondo, hanno realizzato diverse forme di inculturazione relative alle caratteristiche proprie dei popoli fra i quali il Papa celebrava. Elementi sensibili quali i canti e gli abiti liturgici sono terreno aperto ad un adeguamento culturale diversificato. Ma anche determinate espressioni rituali o eucologiche possono assumere forme, simboli e linguaggi tipici di una certa cultura e magari già sperimentati e introdotti dalle varie Conferenze episcopali. In tal senso la liturgia papale divenne, soprattutto nei viaggi di Giovanni Paolo II una formidabile palestra di inculturazione. Il fatto è in sé positivo e coerente col dettato conciliare. Inoltre nessuna autorità è più abile nel procedere e garantire tale operazione quanto quella del Sommo Pontefice che avvalla con la sua prassi liturgica determinate applicazioni. Tuttavia occorre osservare anche un effetto importante e condizionante. Con la globalizzazione e l'intervento dei media, ogni celebrazione del Papa in qualsiasi parte del mondo è seguita in tempo reale in ogni paese del globo. Infatti il Papa oggi tende ad essere veramente il parroco del mondo in quanto neppure i parroci locali possono vantare un contatto così frequente e intenso con ciascun parrocchiano quale è la parola e i gesti del Papa che entrano in ogni casa mediante la televisione. Questo fatto può produrre nei fedeli una acquisizione di modi di celebrare indifferenziata e, soprattutto una imitazione immediata e acritica di espressioni liturgiche che, create per una certa cultura, vengono assunte e realizzate in culture alquanto differenti e lontane. Ciò succede in particolare in celebrazioni singolari come quelle con i giovani o quelle sacramentali (prima comunione, matrimoni, ecc.). Si crea in tal modo un attrito tra le disposizioni liturgiche determinate dalla propria Conferenza episcopale, conforme alla tradizione del popolo a cui si appartiene, e quelle di Conferenze episcopali di popoli diversi da noi per storia e per sensibilità religiosa. Ed ecco che una celebrazione papale preparata per un paese africano o asiatico, è immediatamente applicata in Europa con qualche naturale sfasatura culturale e incomprensione generazionale. È evidente che una danza con l'Evangeliario, oppure nella processione offertoriale o in taluni momenti adoranti, non ha lo stesso risultato in culture e paesi di diversa tradizione. Si tratta allora di tener presente questa comunicazione e visibilità globale e la sua incidenza imitativa in qualsiasi luogo.
c. La pastorale e l'attualità
Un secondo concetto generale che ha condizionato alquanto la concreta attuazione della liturgia e ha contribuito non poco ad una pastorale deviata è quello della attualità. I riti devono esprimere il pensiero dell'uomo d'oggi, interpretare le sue attuali sensibilità e assumere il linguaggio corrente. La liturgia deve deporre la veste del passato - non più compresa e usata - e rivestirsi unicamente e sotto ogni aspetto del modo di pensare e di parlare della cultura odierna: questa sarebbe l'unica via attraverso la quale essa potrebbe proporsi come vera ed efficace. In tal senso si tende ad evitare o minimizzare ogni elemento che nel rito non sia immediatamente 'moderno' e che susciti attrito o perplessità nella mentalità dominante. Si vuole un accesso del tutto ovvio e facile al rito liturgico da parte di chiunque e con i mezzi più ordinari e correnti. Lo si vede chiaramente, ad esempio, quando al saluto liturgico si sostituisce quello profano e al congedo rituale l'augurio di una buona giornata, ecc. A questo punto però occorre riflettere. Una liturgia totalmente uniformata al 'presente' è una liturgia povera, svuotata completamente della tradizione e priva di radici. Essa è fragile e inconsistente, perché i suoi contenuti sono evanescenti come ombre passeggere e il suo linguaggio mutevole come la cronaca di una giornata. Tale liturgia si riduce a linguaggio ed ha l'inconsistenza dell'opinione del momento. Essa muore nell'istante in cui nasce ed è chiusa al futuro per il quale essa stessa si professa inadeguata. L'identità sua propria ne è assolutamente compromessa, infatti, la liturgia vera viene dal passato, trasforma il presente e si compie nel futuro: il Mistero pasquale del Signore si è compiuto una volta per sempre nella pienezza del tempo, si attualizza oggi nel sacramento, sarà pienamente manifestato nella dimensione escatologica finale.
Nessuna epoca della vita della Chiesa è in grado di tematizzare in ogni sua parte la totalità del dogma della fede, ma inevitabilmente, per il limite costitutivo della mente umana, porrà accenti diversi su uno o l'altro aspetto della dottrina. Perciò alcune parti o corollari dell'unica Rivelazione possono sì essere presenti nella globalità dell'adesione di fede, ma lo sono come 'in sonno' in quanto a coscienza e assunzione riflessa, sia nella teologia, sia nell'esercizio del culto e nella vita stessa del popolo di Dio. A questo proposito risulta evidente la grande preziosità della liturgia, come scrigno che contiene e trasmette la fede della Chiesa nella ricchezza di tutta la Tradizione dei secoli, veicolando fino ad oggi l'intero dogma della fede, trasmettendo anche quelle verità, in esso contenute, ma che sono oggi sorvolate, passate sotto silenzio, non sufficientemente proclamate o addirittura ritenute dubbie e oggetto di questioni ancora aperte e dibattute. Procedere quindi ad un'eccessiva modernizzazione della liturgia, riducendo tutta l'eucologia, i testi dei canti e il tenore della musica sacra, i simboli e i riti, ecc. alla visione filosofica, culturale e alla sensibilità sociologica del presente, è esporsi al grave rischio di svuotare il depositum fidei, non solo privandolo di nobili espressioni e di termini teologici adatti, ma anche di autentici contenuti dogmatici e mirabili tesori spirituali. In tal modo verrebbe a mancare la dimensione temporale della cattolicità della Chiesa, che abbraccia la successione dei secoli e ci mette in comunione con le generazioni dei Padri, «che ci hanno preceduto nel segno della fede». La cattolicità nel tempo contiene un patrimonio di fede forse ancor più vasto di quello espresso nella cattolicità nello spazio. Ecco perché una liturgia radicalmente modernizzata sarebbe come un serbatoio vuoto e privo del respiro dei secoli, nel quale le generazioni a noi successive non potrebbero più riscoprire ed attingere quel 'tesoro nascosto', che noi, né abbiamo percepito, né abbiamo avuto l'intelligenza, la saggezza e la prudenza di conservare per loro. Infatti, ciò che può sfuggire ad una generazione cristiana, è invece colto e valorizzato da un'altra e, ciò che è misconosciuto e svalutato da un secolo, è riconosciuto e valutato dal successivo. E così, ciò che è indebitamente ingigantito da una cultura, è riequilibrato da un'altra. La recente riforma liturgica ebbe la possibilità di recuperare in uno sviluppo organico e coerente varie 'riscoperte liturgiche', proprio perché molti tesori erano contenuti e tramandati nei libri liturgici precedenti. Essi vi si trovavano come velati, dimessi, privi certo di quella evidenza che ebbero nella loro epoca d'oro, ma non erano estinti. Non uscirono mai dal rito e il loro 'canto', ormai flebile e defilato, non cessò mai nel concerto globale del culto della Chiesa. Così poterono rivivere, respirare più pienamente, riprendere l'evidenza perduta, rilanciare un messaggio che sembrava spento, esplicitare aspetti di fede impliciti, colmare lacune insospettate, correggere errori non riconosciuti, affermare verità che sembravano ormai superate. È evidente la differenza tra il recupero di elementi liturgici da tempo archiviati e usciti dall'esercizio cultuale del popolo cristiano e la riviviscenza di quelli che sono sempre stati presenti nel tessuto vivente del rito costantemente celebrato nei secoli. Il materiale dismesso e archiviato, pur rivelando il suo eventuale spessore dottrinale e la sua geniale carica spirituale, ha in qualche modo ormai diminuito la sua energia vitale. Invece, ciò che sempre è stato celebrato porta dentro di sé la vita stessa della fede e il respiro della preghiera viva e contiene la grazia continuamente invocata e ricevuta nella Chiesa. Se nelle varie riforme liturgiche operate lungo i secoli vi fosse stato un processo radicale di adeguamento ai contesti storico-culturali in cui si fecero, avremmo perduto tesori immani della tradizione orante della Chiesa e oggi saremmo privi di quel necessario progresso nello Spirito che soltanto una lenta e organica maturazione nel crogiolo purificatore del tempo può costruire. Ci sarebbero venuti a mancare i carismi dei Padri, le creazioni geniali proprie delle diverse epoche e i frutti tipici della santità di persone del tutto eccezionali e uniche, perché irripetibili. Tali doni rappresentano, non raramente, tappe imprescindibili e determinazioni non più negoziabili nella crescita coerente e inarrestabile del Regno di Dio. Per questo è quanto mai adatto il detto evangelico: «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52). Tutti coloro che a diverso titolo accedono al santuario della liturgia devono poter trovare in questa massima evangelica un ottimo programma di comportamento. Occorre allora accettare che la liturgia non sia totalmente uniformata alla modernità, ma mantenga sempre il 'peso', il condizionamento e la ricchezza dei secoli, evitando di allinearsi, modellarsi e livellarsi sul presente ad ogni costo. Essa deve andare al di là dei nostri gusti e delle nostre 'visioni', dev'essere sovrana, deve uscire continuamente dalla trappola dell'immediato e dare prospettive oltre il contingente; deve essere accolta nella sua dimensione sovratemporale e col suo linguaggio, che trascende quello corrente: contenuto e linguaggio, infatti, sono inscindibili e l'uno condiziona la salute dell'altro. Non siamo noi, oggi, a giudicare la liturgia, ma é la liturgia di sempre, quella della Chiesa, che ci giudica e ci mette a confronto con le esigenze oggettive della rivelazione e le profondità dei secoli in cui tale rivelazione fu creduta, celebrata e vissuta. Certo essa deve parlare all'uomo d'oggi e deve anche assumere i migliori apporti della nostra epoca, ma senza spogliarsi radicalmente della Tradizione, quasi fosse una zavorra.
Si possono, ora, rilevare alcuni sintomi esemplificativi, che possono aprire la strada ad una modernizzazione radicale della liturgia, sia nei suoi contenuti dottrinali, sia nelle sue espressioni rituali.
1. Il termine 'anima' - Ancora nella prima edizione del Messale Romano (1970) si procedette alla eliminazione del termine 'anima' nei formulari delle Messe per i defunti: non più «animabus famulorum famularumque tua rum», ma soltanto «famulorum famularumque tua rum». Ciò fu fatto col pretesto di un ritorno rigoroso alla mentalità biblica, che concepisce l'essere umano come una totalità indivisibile, a differenza della concezione ellenistica che vede nell'uomo le due realtà autonome dell'anima e il corpo. Tale scelta, in realtà era difforme dalla tradizione e anche dallo stesso linguaggio evangelico (Mt 16, 26). Infatti non tardò a manifestare i suoi limiti in quanto portò a non poter più spiegare adeguatamente la dottrina dell'escatologia intermedia che esige la sussistenza dell'anima in uno stato di separazione dal corpo nel tempo che intercorre tra la morte corporale e la risurrezione finale del corpo stesso. A ciò si collega la dottrina dello stato intermedio dei Santi in cielo e quello delle Anime sante del purgatorio. Per questo il termine 'anima' fu ripreso e nella terza edizione del Messale Romano (2000) si uniformò l'eucologia dei formulari delle Messe per i defunti a quella del Rituale delle esequie, che invece rimase sempre inalterata.
2. La penitenza corporale - La vasta riduzione della disciplina penitenziale (dal digiuno eucaristico a quello ascetico), sempre in intensa simbiosi con la liturgia, soprattutto nei suoi esercizi corporali, in ossequio all'odierna mentalità (almeno occidentale), che tende allo spiritualismo intenzionalistico e non guarda con favore agli atti che coinvolgono la corporeità, si allontana dalla regola della Tradizione cristiana. Tale eliminazione, infatti, incrina da un lato il principio dottrinale di diritto divino della necessità della penitenza per la salvezza, dall'altro sottace la sua indispensabile traduzione anche in atti corporei. Se ben si riflette gli atti penitenziali, e non solo le intenzioni, sono una parte costitutiva della stessa liturgia. Essa, infatti, trasmette a noi la grazia invisibile attraverso i riti visibili ai quali ci assoggettiamo. Perciò una spogliazione troppo determinata del testo e del rito liturgico, in nome dell'attualità, non offrirebbe più gli elementi ineludibili della Tradizione.
3. La preghiera di esorcismo. L'eucologia della Chiesa in tutta la Tradizione liturgica, orientale e occidentale, è fortemente e permanentemente pervasa dalla preghiera di esorcismo. Soprattutto nei formulari delle benedizioni l'esorcismo è sempre presente. Certamente conveniva un ricorso più sobrio e un'espressione meno assillante al mysterium iniquitatis, ma la sua drastica eliminazione ha portato a togliere dalla stessa coscienza del popolo cristiano il senso della esistenza, della presenza e dell'azione nefasta dello spirito delle tenebre, ad allentare l'atteggiamento di vigilanza e ad abbandonare la disciplina e la disposizione al combattimento spirituale, come dimensione improrogabile della spiritualità cristiana. Così si crede di poter presentare la vita cristiana riscattata dalla lotta e dall'ascesi in nome di una bontà naturale irreale. Rimossa la dottrina non si invoca neppure la grazia connessa e si espone così il fedele alle insidie del diavolo.
4. La dottrina sul peccato originale. Non è facile sentir parlare nell'odierna omiletica di peccato originale e neppure di peccato in quanto tale. Tale disagio si riflette anche in taluni 'aggiornamenti' di testi liturgici. Nell'intero rito del battesimo dei bambini, ad esempio, il termine 'peccato originale' ricorre una sola volta nella formula per l'unzione con l'olio de catecumeni: «libera questi bambini dal peccato originale». Qualora l'unzione catecumenale fosse anticipata fuori del rito del battesimo, in esso non si citerebbe mai il peccato originale, essendo assente dal rito e dai suoi praenotanda. Nell'Iniziazione cristiana degli adulti l'unico riferimento al peccato originale si ha in un passaggio dei praenotanda: «Il Battesimo […] purifica gli uomini da ogni peccato, sia originale che personale» (CEI, Rito dell'Iniziazione Cristiana degli Adulti, n.5). è evidente che una istruzione sul peccato originale non può essere fatta ricorrendo unicamente al concetto generico di peccato, come analogamente il senso della presenza personale del maligno non si può spiegare con un concetto vago del 'potere del male'. Non si capisce, ancora, perché nelle litanie lauretane del nuovo Benedizionale italiano sia stato tolto dal «concepita senza peccato originale» il vocabolo 'originale': il dogma mariano in tal senso perde il suo contenuto preciso.
5. La crisi del Mistero pasquale. Il Mistero pasquale è costituito da due pilastri indissociabili e da due movimenti necessari e conseguenti: la Passione e la Risurrezione, la Croce e la Gloria, il Venerdì santo e la Domenica di Pasqua. Oggi tuttavia assistiamo ad una novella crisi del Mistero pasquale. Uno squilibrio di segno opposto a quello che poteva essere in passato, quando, in certe epoche, l'accento era forse eccessivo sulla dimensione penitenziale-ascetica, come configurazione alla morte del Signore e meno sulla gioia dei risorti. Il Concilio Vaticano II si è proposto una dovuta riscoperta della dimensione pasquale sul versante della vita e del trionfo di Cristo sulla morte e in tal senso ha ispirato i suoi documenti e in particolare la riforma liturgica. Ma questa necessaria accentuazione, spinta in modo estremo, ha provocato una sottolineatura esorbitante sul secondo aspetto del Mistero pasquale a detrimento del primo. Oggi, infatti, si tende verso la Risurrezione senza la Passione, si vuole la Gloria senza passare per la Croce, si celebra la Domenica senza aver celebrato il Venerdì, si accede alla Comunione senza il Digiuno e la Penitenza. Ecco perché una celebrazione pasquale che non prevedesse più l'itinerario penitenziale della Quaresima concretamente praticato, la preparazione ascetica e il prolungato clima di preghiera e di ascolto della Parola di Dio, la conversione e il sacramento della Riconciliazione e, infine, la veglia notturna e l'attesa trepida dell'annunzio della risurrezione, si inserirebbe nel clima critico di un Mistero pasquale decurtato nei suoi elementi costitutivi ed essenziali, per offrire un accesso facile e superficiale alla festa, che, appunto perché raggiunta senza impegno e su deboli basi, scade nel sentimento sterile e passeggero di una 'Pasqua' mondana.
Anche l'emarginazione di altri aspetti più formali possono aver contribuito ad una apertura all'attualità, che si rivela in realtà riduttiva della ricchezza tradizionale:
1. Lo stile eucologico. Le formule ecologiche maggiori e minori (prefazi e orazioni) della liturgia romana classica ebbero dei maestri geniali, che crearono un genere ammirato in tutti i secoli, il cursus e la concinnitas romana. I testi composti nell'aureo fluire della nobile lingua latina e nel ritmo misurato e musicale dello stile letterario consentivano di cogliere con brevi e incisive pennellate il cuore del mistero e di proclamarlo in modo melodico. Ciò eleva alquanto l'orazione liturgica, nobilita l'oratio sacerdotale e apre gli animi dei fedeli alla contemplazione mistica. La prolissità discorsiva della recente eucologia, invece, assolve più le esigenze catechistiche che quelle liturgiche, frena la fluidità e lo scorrere rituale, impedisce l'esecuzione musicale dei testi e inceppa il rapimento orante e mistico, tipico del celebrare. Per di più l'eccessiva abbondanza e scelta opzionale dei testi offerti negli attuali libri liturgici, elude il metodo del ritorno ciclico, sempre identico in forme ripetute, che consentono la fissazione dei contenuti dogmatici e le espressioni uniformi di un linguaggio comune e nobile. Infatti, i fedeli che vengono dalle distrazioni del mondo hanno bisogno di ricevere messaggi essenziali e brevi in un linguaggio lapidario ed incisivo. La 'ruminazione discorsiva' è piuttosto una dimensione monastica, che è in grado di avere quella disponibilità di tempo e quegli spazi di silenzio in cui la meditazione produce frutto. Si tratta di ripensare il rapporto tra liturgia 'cattedrale' e liturgia 'monastica' in ogni sforzo di riforma.
2. La musica sacra. Giustamente la Chiesa consente la creazione di canti nuovi nelle lingue parlate, affinché il popolo partecipi ai riti sacri. Tuttavia l'aver soppresso di fatto il canto sacro tradizionale, il gregoriano, ha prodotto una situazione di libertà creativa sciolta da ogni legame con la tradizione. Così l' attualità nei suoi aspetti effimeri non ha tardato ad entrare nella sacralità del santuario. Mancando un modello e non avendo più un correttivo tutto divenne lecito e la voce della tradizione si spense portando via con sé il genio dei secoli cristiani.
3. La lingua latina. Un discorso analogo deve essere fatto per la lingua latina, che pur rimane la lingua pubblica e ufficiale della Chiesa latina. Una sua totale soppressione ha esposto la liturgia alla debolezza dei linguaggi attuali, che non possono vantare ancora quella sicurezza di espressioni, adeguatezza e stabilità di termini, che offriva la lingua latina. Anche la sua nobiltà e musicalità non sono eguagliate dalle lingue correnti, che non possono reggere allo stesso titolo e col medesimo genio nel loro ruolo di lingue cultuali.
4. La riduzione dei simboli. Una delle caratteristiche della riforma liturgica è una certa semplificazione dei riti e riduzione dei simboli. Tale procedimento fu in parte legittimo e conveniva a quella nobile semplicità e a quella più facile partecipazione che il Concilio auspicava per tutti i fedeli. Tuttavia oggi si registra un eccesso del linguaggio verbale rispetto a quello simbolico. Taluni simboli erano eloquenti per se stessi e imprimevano nei fedeli sentimenti immediati e profondi che rimanevano per l'intera esistenza. - Si pensi ai riti relativi al culto eucaristico, alle esequie ecclesiastiche, ai tempi penitenziali e di passione, agli apparati splendidi delle solennità, ai colori delle processioni, ecc. - Non si tratta di riesumare in modo pedissequo e acritico forme ormai superate, ma di non perdere il principio che il simbolo è l'ossatura della liturgia e di ricercare espressioni adatte all'odierna mentalità, ma anche in continuità con la tradizione. L'impero della parola riduce il misticismo e distrae dalla contemplazione, comunque viola sempre il silenzio, che il simbolo, forte ed eloquente, riempie senza mai turbare. Anzi proprio nel grande silenzio il simbolo fa il suo ingresso e attrae potentemente gli animi. Si tratta di ripensare la tradizione simbolica della liturgia per impreziosire con intelligenza i riti del nostro tempo travolto dal rumore e dall'efficientismo.
5. Il problema delle traduzioni. Soltanto dopo che si fece l'esperienza del tradurre l'Editio typica latina nelle lingue parlate ci si accorse della problematicità connessa e oggi ci si rende conto della complessità del problema e si è più prudenti e scrupolosi nel procedere su questo versante. Una traduzione superficiale può effettivamente tradire il pensiero sotteso all'eucologia della Chiesa, o comunque lo può sminuire, alterare o anche sostituire con altri concetti non più conformi alla lettera e allo spirito del culto liturgico.
Certamente gli interventi esemplificativi, qui descritti, furono il frutto di un tentativo comprensibile di adeguamento della liturgia al tempo presente, tuttavia occorre riconoscere che, quando si abbandonò la guida sicura del magistero e non si osservarono le disposizioni stabilite, in punti determinati si oscurò un poco la lucidità del dogma, dal quale la liturgia non può mai essere esonerata e si impoverì parzialmente la nobiltà del linguaggio liturgico. In altri termini ogni riforma deve rispettare i limiti che la dottrina impone e una pastorale vera non può mai esulare dalla portata piena dei contenuti della Parola di Dio. Occorre al contempo riconoscere la tipicità della liturgia, che si comprende rettamente alla luce di alcune chiarificazioni indispensabili:
a. l' eucologia non è di per sé una definizione dogmatica;
b. l' insieme rituale non può essere ritenuto un compendio catechistico sistematico, organico e completo;
c. i concetti espressi riflettono il grado di maturità, sia della teologia, sia della spiritualità e della vita della Chiesa, relativo al contesto e al tempo in cui le varie forme liturgiche si definirono e si imposero.
In questo orizzonte si capiscono e si accettano i limiti di ogni espressione cultuale e si ammette la necessità di emendamenti, integrazioni e perfezionamenti nelle varie epoche, conformando la liturgia allo sviluppo legittimo del dogma.
* * *
La riforma liturgica, quindi, è un fatto complesso che non può ridursi ad una operazione intellettuale fatta a tavolino. Per questo il Concilio Vaticano II raccomanda che «le nuove forme scaturiscano organicamente […] da quelle già esistenti» (SC 23). Si tratta di intervenire sui riti al modo dell'agricoltore, che cura un albero vivo e che, eventualmente, lo pota «perché porti più frutto» (Gv 15,2), ma ne rispetta integralmente la sua sostanziale identità. Tale attenzione non fu assente nella riforma liturgica, come si evince da una nota del gruppo di studio X in ordine agli scopi e al significato degli esperimenti:
Nessuna liturgia del mondo è nata esclusivamente a tavolino, né è stata rinnovata ugualmente a tavolino o nelle discussioni dei dotti. Studi e discussioni sono indispensabili; ma decisiva è la sperimentazione nello svolgimento stesso dell'atto di culto. Certamente lo studio permette di dare un giudizio sulla esattezza teologica di un'espressione, sulla conformità alla tradizione di un rito; ma non è possibile, in quella sede, dare una risposta al quesito se un gesto, un rito nuovo, una nuova preghiera sia liturgicamente adeguata. Questa risposta potrà venire unicamente dal severo collaudo dell'uso nell'azione liturgica stessa. Parecchi riti restaurati negli ultimi anni dai Dicasteri competenti difettano proprio perché non sono stati sperimentati, oppure non sono stati sperimentati abbastanza a lungo nell'applicazione concreta del rito liturgico. Anche i fratelli separati d'Occidente, che in questi ultimi decenni hanno felicemente restaurato il loro culto, sono arrivati a tanto solo grazie ad una sperimentazione protrattasi per vari anni, soppesando ogni singola parola e gesto in modo che, quando uno di questi provocava in loro un disagio nel culto, ossia di fronte a Dio, essi hanno avuto il coraggio di cambiarli, finché loro non sembrava si fosse raggiunta una soluzione soddisfacente. Per questo, è quanto mai opportuno ciò che la Costituzione liturgica prevede per tutti gli adattamenti di una certa importanza, proposti dalla competente autorità territoriale: gli esperimenti. Se ciò si richiede per riforme di minor gravità, tanto più lo si richiede per la riforma della Messa, promossa dalla stessa Santa Sede. Tale riforma non può riuscire senza l'ausilio di esperimenti coordinati, che permettano di saggiare delle varianti; e tali esperimenti debbono protrarsi per un congruo tempo: quotidiana vilescunt. Soltanto quando un'innovazione resiste all'usuro dell'impiego quotidiano potrà essere accettata.
La liturgia, infatti, non è un documento letterario, che si chiude nell'ambito di un eccellente libro, ma una esercitazione cultuale di un'assemblea viva e, per questo la si può valutare in tutti i suoi aspetti solo se viene ben celebrata. Così succede nella musica e nell'architettura, che non si possono giudicare appieno finché l'una non è eseguita e l'altra plasticamente realizzata: né lo spartito rivela la virtù della musica, né il progetto rivela la bontà di un'opera. La pratica liturgica nella esperienza secolare della Chiesa non è questione di poco conto e non può non essere interpellata in un serio processo di riforma.
In questa prospettiva si comprende la convinzione del papa Benedetto XVI, che, ormai verso i cinquant'anni dalla riforma liturgica, si interroga sui frutti del Novus Ordo e ci invita a verificare se esso abbia corrisposto nel modo migliore possibile alla celebrazione del Mistero che contiene. Tale verifica non è una negazione delle scelte del Vaticano II, ma un potenziamento e una più profonda penetrazione per poter celebrare nel modo migliore il mistero della fede. È del tutto comprensibile che scelte nuove assunte nella recente riforma esigano una verifica alla luce dell'esperienza celebrativa degli anni postconciliari. È evidente che un progetto di partenza, quale furono le edizioni tipiche dei libri liturgici, non poteva essere perfetto, ma doveva necessariamente, nonostante gli esperimenti iniziali, affrontare la prova protratta degli anni postconciliari e subire il crogiolo delle vicende esistenziali della Chiesa, che vive nel tempo e nelle situazioni più disparate. Ammettere e accettare una simile revisione non è insidiare il Vaticano II, né misconoscere il valore e la necessità della riforma liturgica, ma semplicemente volere il suo autentico progresso, stornare il pericolo della sua archiviazione ed evitare la fissazione dei difetti che solo il tempo poteva rivelare. È questo il provvidenziale intento liturgico di Benedetto XVI, che con l'espressione 'riforma della riforma' si propone la ripresa della questione liturgica e ne auspica una sempre maggiore comprensione nella continuità esistenziale della tradizione viva della Chiesa.
Anche la liberalizzazione del vetus ordo con il Motu proprio Summorum Pontificum, se risponde prevalentemente ad un intento comunionale con i fratelli in difficoltà, vuole anche richiamare tutta la Chiesa latina ad una serena verifica del percorso fatto e ripetere a noi il monito biblico «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti» (Is 51, 1). Non succeda che in una corsa forse troppo veloce si abbia a perdere il solco della tradizione e uno sguardo troppo proiettato al futuro non perda le radici e la linfa vitale del mistero che esse ci assicurano. E così il Papa offre alla Chiesa un'opportunità di vero progresso, anche se esso è necessariamente condizionato dall'umiltà di un ripensamento, dalla calma di una stasi, dalla pazienza di una nuova indagine e dalla ricerca di una migliore sintesi.
La riforma della liturgia è, dunque, un intervento di estrema competenza e delicatezza, che dev'essere operato certamente da uomini capaci ed esperti, ma sempre sotto il costante controllo dell'autorità della Chiesa, l'unica autorità che abbia un'abilitazione soprannaturale a decidere ogni variazione legittima in ambito liturgico. Anche il sensus fidei del popolo di Dio non può essere assolutamente emarginato nel proporre ed evidenziare gli interventi di riforma in quello che è il suo culto pubblico e ufficiale al quale ogni battezzato e confermato ha diritto nativo di intervento e di partecipazione cosciente, ciascuno nel proprio ruolo. «Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa» (SC 23). A tale ascolto si devono impegnare con responsabilità davanti a Dio, sia i Pastori, che i dottori (teologi, liturgisti, storici, giuristi, pastoralisti, ecc.). E' allora evidente come ogni riforma liturgica sia un'operazione, non solo sul piano naturale delle competenze scientifiche necessarie, ma soprattutto un'operazione soprannaturale, che attinge la grazia e la legittimità dal Sacramento, ricevuto da coloro che sono costituiti in Cristo maestri, sacerdoti e pastori. Questo evento, che tocca e coinvolge il soprannaturale, non può condursi con vero frutto se non nella preghiera, nella purificazione spirituale, nell'umiltà e nell'obbedienza. Sarebbe ben triste per tutta la Chiesa se il santuario della sua liturgia fosse profanato dall'orgoglio dell'accademia, dalla sicumera dell'ideologia e dall'enfasi della demagogia. Per questo la continua purificazione interiore, la tensione alla santità, l'umile sottomissione al dogma della fede, la pazienza nella carità e l'attesa fiduciosa e gioiosa dell'ora di Dio nell'obbedienza alla Chiesa sono i tratti più veri di un liturgista di qualità.
3. Il dissenso dal magistero della Chiesa
Al termine di questa indagine sul crollo postconciliare della liturgia dobbiamo chiederci come fu possibile che un legittimo ricorso alla necessaria discussione e alla dimensione pastorale quali principi orientativi della grande riforma conciliare, abbia prodotto concretamente una sua così profonda crisi e un così facile deragliamento nell'attuazione celebrativa dei riti.
Ci si è letteralmente dimenticati di una importante disposizione del Concilio:
1. Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, che risiede nella sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo.
2. In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la materia liturgica spetta, entro limiti determinati, anche alle competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite.
3. Di conseguenza nessun altro assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché nella Liturgia (SC 22).
Il dettato conciliare viene definito a rigor di legge dal Codice di diritto canonico:
Can. 838 - § 1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall'autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano.
§ 2. è di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici e autorizzarne le versioni nelle lingue correnti, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate fedelmente ovunque.
§ 3. Spetta alle Conferenze Episcopali preparare le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, dopo averle adattate convenientemente entro i limiti definiti negli stessi libri liturgici, e pubblicarle, previa autorizzazione della Santa Sede.
§ 4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti.
Queste chiare indicazioni sono di fatto rimaste per molti lettera morta in quanto si è subito quel clima generale, tipico del postconcilio e che ha prodotto su vasta scala il fenomeno del paraconcilio. Anche l'attuazione della riforma liturgica ne è stata fortemente investita e in taluni casi letteralmente travolta. Si tratta del dissenso al magistero vivo della Chiesa. In realtà è questa la causa primaria e, per così dire, il 'peccato originale', che sta alla base di ogni deviazione dottrinale, liturgica e disciplinare, che in nome del Concilio ha divaricato da esso ed ha imboccato i sentieri pericolosi della difformità e della rottura con la Tradizione della Chiesa.
Il papa Paolo VI non viene meno dal suo ruolo di guida autorevole della concreta realizzazione della riforma liturgica da parte degli organismi ad essa preposti. Il suo pensiero rivela l'alto profilo del concetto di liturgia, la sua preparazione e il grande rispetto per la tradizione liturgica. Nell'udienza generale del mercoledì 19 novembre 1969, il papa Paolo VI rassicura i fedeli della coerenza tra la forma antica e quella nuova della Messa, spiegando con precisione:
Sia ben chiaro: nulla è mutato nella sostanza della nostra Messa tradizionale. Qualcuno può forse lasciarsi impressionare da qualche cerimonia particolare, o da qualche rubrica annessa, come se ciò fosse o nascondesse un'alterazione, o una menomazione di verità per sempre acquisite e autorevolmente sancite dalla fede cattolica, quasi che l'equazione fra la legge della preghiera, lex orandi, e la legge della fede, lex credendi, ne risultasse compromessa. Ma non è così. Assolutamente. Innanzi tutto perché il rito e la rubrica relativa non sono di per sé una definizione dogmatica, e sono suscettibili di una qualificazione teologica di valore diverso a seconda del contesto liturgico a cui si riferiscono; sono gesti e termini riferiti ad un'azione religiosa vissuta e vivente d'un mistero ineffabile di presenza divina, non sempre realizzata in forma univoca, azione che solo la critica teologica può analizzare ed esprimere in formule dottrinali logicamente soddisfacenti. E poi perché la Messa del nuovo ordinamento è e rimane, se mai con evidenza accresciuta in certi suoi aspetti, quella di sempre. L'unità fra la Cena del Signore, il Sacrificio della croce, la rinnovazione rappresentativa dell'una e dell'altro nella Messa è e rimane la memoria dell'ultima Cena di Cristo, nella quale il Signore, tramutando il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, istituì il Sacrificio del nuovo Testamento, e volle che, mediante la virtù del suo Sacerdozio, conferita agli Apostoli, fosse rinnovato nella sua identità, solo offerto in modo diverso, in modo cioè incruento e sacramentale, in perenne memoria di Lui, fino al suo ultimo ritorno.
Su questa sicura base e con una tale assicurazione di natura dogmatica il Papa esige l'obbedienza al magistero che garantisce illumina e accompagna la riforma liturgica:
La riforma che sta per essere divulgata, corrisponde ad un mandato autorevole della Chiesa; è un atto di obbedienza; è un fatto di coerenza della Chiesa con se stessa; è un passo in avanti della sua tradizione autentica; è una dimostrazione di fedeltà e di vitalità, alla quale tutti dobbiamo prontamente aderire. Non è un arbitrio. Non è un esperimento caduco o facoltativo. Non è un'improvvisazione di qualche dilettante. È una legge pensata da cultori autorevoli della sacra Liturgia, a lungo discussa e studiata; faremo bene ad accoglierla con gioioso interesse e ad applicarla con puntuale ed unanime osservanza. Questa riforma mette fine alle incertezze, alle discussioni, agli arbitri abusivi; e ci richiama a quella uniformità di riti e di sentimenti, ch'é proprio della Chiesa Cattolica, erede e continuatrice di quella prima comunità cristiana, ch'era tutta «un cuor solo e un'anima sola» (At 4, 32). La coralità della preghiera della Chiesa è uno dei segni e una delle forze della sua unità e della sua cattolicità. Il cambiamento, che sta per avvenire, non deve rompere, né turbare questa coralità: deve confermarla e farla risuonare con spirito nuovo, con respiro giovane.
Il papa è un testimone altissimo del delicato equilibrio che deve ispirare i riformatori, nel coniugare con responsabilità e discernimento il vecchio col nuovo. Nel discorso al Consilium liturgico del 14 ottobre 1968 egli afferma:
il rinnovamento liturgico non deve essere considerato in modo da respingere il sacro patrimonio dei tempi passati e da ammettere avventatamente qualsiasi novità. Vi è ben noto quanto al riguardo si proposero i Padri conciliari: che cioè le innovazioni dovessero concordare con la sana tradizione, così «da far scaturire le nuove forme organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti» (n. 23). Perciò dovrà dirsi saggia riforma quella che sarà in grado di armonizzare convenientemente il vecchio col nuovo.
Paolo VI non teme di accusare la non poca ansia e dolore che producono alcune spinte fuorvianti nella realizzazione della riforma liturgica, condotta senza la necessaria docilità al magistero, e con precisione ne descrive i pericoli e ne definisce i limiti:
Non possiamo passare sotto silenzio alcune tendenze che si manifestano in varie parti della Chiesa e che sono per Noi motivo di non poca ansia e dolore. Ci riferiamo anzitutto a una mentalità che si è venuta formando in molti, per cui malvolentieri si accoglie tutto ciò che proviene dall'autorità ecclesiastica e viene legittimamente comandato. Accade perciò che in materia liturgica le stesse Conferenze Episcopali talvolta procedano per conto proprio oltre i giusti limiti. Accade pure che si compiano ad arbitrio esperimenti o si introducano riti che sono in aperto contrasto con le norme stabilite dalla Chiesa. Non è chi non veda come tale modo di agire non soltanto offenda gravemente la coscienza dei fedeli, ma nuoccia anche alla stessa ordinata esecuzione della riforma liturgica, che impone a tutti prudenza, vigilanza e soprattutto disciplina. Molto più poi Ci preoccupa il modo di agire di coloro che ritengono che il culto liturgico debba essere spogliato del suo carattere sacro, e perciò erroneamente pensano che non si debbano usare oggetti o suppellettili sacre, ma sostituirle con quelli d'uso comune e volgare. E la temerarietà di alcuni si spinge al punto da non risparmiare lo stesso luogo sacro delle celebrazioni. Bisogna dire che idee del genere capovolgono non soltanto la genuina natura della sacra Liturgia, ma anche il vero concetto della religione cattolica. Così pure, quando si tratta di semplificare riti, formule e gesti liturgici, bisogna guardarsi da non spingersi troppo oltre, e dal non tenere abbastanza conto del grande valore che va riconosciuto ai 'segni' liturgici. Ciò porterebbe senz'altro a un impoverimento della liturgia. Una cosa è eliminare dei riti sacri ciò che oggi sembra troppo ridondante, o è divenuto antiquato e inutile; e un'altra cosa è spogliare la liturgia di quei segni e di quella parte decorativa che, se contenuti entro i limiti giusti, sono del tutto necessari al popolo cristiano, affinché possa cogliere le arcane realtà e le verità che si nascondono sotto il velo dei riti esteriori.
Inoltre chiarisce pure quanto sia necessario seguire con fiducia e generosità la Chiesa nelle nuove norme impartite dalla riforma liturgica, evitando di frenare o addirittura combattere quelle disposizioni legittime che la Chiesa ha stabilito per decreto del Vaticano II, sotto la permanente supervisione e garanzia dell'autorità del Sommo Pontefice:
[Il dissenso] è tanto più grave, in particolare, quando si introduce la divisione, proprio là dove congvegavit nos in unum Christi amor, nella Liturgia e nel Sacrificio Eucaristico, rifiutando l'ossequio alle norme definite in campo liturgico. È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L'adozione del nuovo «Ordo Missae» non è lasciata certo all'arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l'Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell'antica forma, con l'autorizzazione dell'ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populo. Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all'antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino. La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari. Ogni iniziativa che miri a ostacolarli non può arrogarsi la prerogativa di rendere un servizio alla Chiesa: in effetti reca ad essa grave danno.
Nel Concistoro del 27 giugno 1977, il Papa, con costante equilibrio e precisione, richiama con rinnovata fermezza l'unità e la pace delle parti opposte nell'unica disciplina della Chiesa:
Un punto particolare della vita della Chiesa attira oggi di nuovo l'attenzione del Papa: i frutti indiscutibilmente benèfici della riforma liturgica. Dalla promulgazione della Costituzione conciliare «Sacrosanctum Concilium» è avvenuto un grande progresso, che risponde alle premesse poste dal movimento liturgico dello scorcio finale del sec. XIX, e ne ha adempiute le aspirazioni profonde, per cui tanti uomini di Chiesa e studiosi hanno lavorato e pregato. Il nuovo Rito della Messa, da noi promulgato dopo lunga e responsabile preparazione degli organi competenti, e nel quale sono stati introdotti, accanto al Canone Romano, rimasto sostanzialmente immutato, altre eucologie eucaristiche, ha portato frutti benedetti: maggiore partecipazione all'azione liturgica; più viva consapevolezza dell'azione sacra; maggiore e più ampia conoscenza dei tesori inesauribili della Sacra Scrittura; incremento del senso comunitario nella Chiesa.
Il corso di questi anni dimostra che siamo nella via giusta. Ma vi sono stati, purtroppo - pur nella grandissima maggioranza delle forze sane e buone del clero e dei fedeli - abusi e libertà nell'applicazione. È venuto il momento, ora, di lasciar cadere definitivamente i fermenti disgregatori, ugualmente perniciosi nell'un senso e nell'altro, e di applicare integralmente nei suoi giusti criteri ispiratori, la riforma da Noi approvata in applicazione ai voti del Concilio.
- Ai contestatori che, in nome di una mal compresa libertà creativa, hanno portato tanto danno alla Chiesa con le loro improvvisazioni, banalità, leggerezze - e perfino con qualche deplorevole profanazione - Noi chiediamo severamente di attenersi alla norma stabilita: se questa non venisse rispettata, ne potrebbe andare di mezzo l'essenza stessa del dogma per non dire della disciplina ecclesiastica, secondo l'aurea norma:«lex orandi, lex credendi». Chiediamo fedeltà assoluta per salvaguardare la «regula fìdei». Siamo certi che, in quest'opera, ci sovviene l'instancabile, oculata, paterna azione dei Vescovi, responsabili della fede e della preghiera nelle singole diocesi.
- Ma con pari diritto ammoniamo coloro che contestano e si irrigidiscono nel loro rifiuto sotto il pretesto della tradizione, affinché ascoltino com'è loro stretto dovere, la voce del Successore di Pietro e dei Vescovi, riconoscano il valore positivo delle modificazioni «accidentali» introdotte nei sacri Riti (che rappresentano vera continuità, anzi spesso rievocazione dell'antico nell'adattamento al nuovo), e non si ostinino in una chiusura preconcetta, che non può essere assolutamente approvata. Li scongiuriamo, in nome di Dio: «Obsecramus pro Christo, reconciliamini Deo» (2 Cor. 5, 20).
- Ai contestatori che, in nome di una mal compresa libertà creativa, hanno portato tanto danno alla Chiesa con le loro improvvisazioni, banalità, leggerezze - e perfino con qualche deplorevole profanazione - Noi chiediamo severamente di attenersi alla norma stabilita: se questa non venisse rispettata, ne potrebbe andare di mezzo l'essenza stessa del dogma per non dire della disciplina ecclesiastica, secondo l'aurea norma:«lex orandi, lex credendi». Chiediamo fedeltà assoluta per salvaguardare la «regula fìdei». Siamo certi che, in quest'opera, ci sovviene l'instancabile, oculata, paterna azione dei Vescovi, responsabili della fede e della preghiera nelle singole diocesi.
- Ma con pari diritto ammoniamo coloro che contestano e si irrigidiscono nel loro rifiuto sotto il pretesto della tradizione, affinché ascoltino com'è loro stretto dovere, la voce del Successore di Pietro e dei Vescovi, riconoscano il valore positivo delle modificazioni «accidentali» introdotte nei sacri Riti (che rappresentano vera continuità, anzi spesso rievocazione dell'antico nell'adattamento al nuovo), e non si ostinino in una chiusura preconcetta, che non può essere assolutamente approvata. Li scongiuriamo, in nome di Dio: «Obsecramus pro Christo, reconciliamini Deo» (2 Cor. 5, 20).
Con il dissenso al magistero si è perduta la cognizione del Soggetto vero della liturgia: Cristo stesso, unito indissolubilmente alla Chiesa, sua sposa. È Lui che agisce in diversi modi e a diverse intensità nelle azioni liturgiche e al contempo è la Chiesa che opera in esse, impersonando il Signore nei suoi ministri, ora stando di fronte a Lui come al suo Maestro, ora ascendendo al Padre con Lui come suo Sommo Sacerdote, ora alimentandosi di Lui come Pane vivo disceso dal cielo. Questa chiara coscienza teologica del Soggetto in liturgia distoglie da ogni manipolazione privata di singoli o di gruppi, di esperti o di sacerdoti. Qualora però esca dall'orizzonte liturgico il vero Soggetto, la 'liturgia' viene logicamente assunta da altri soggetti, che per ciò stesso la fanno cessare di esistere, secondo la definizione sua propria: «l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale per mezzo di segni sensibili viene significata e realizzata, in modo proprio a ciascuno, la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto di Dio pubblico integrale» (Can. 834 § 1). Quando, infatti, agiscono i privati le azioni liturgiche diventano azioni dei privati e l'opera soprannaturale della grazia è sostituita con l'opera naturale degli uomini. È ciò che succede quando in nome della maggior partecipazione e coinvolgimento dell'assemblea si alterano i riti e le preci, rimodellandole in base ai gusti soggettivi dei presenti.
appare evidente quanto grande importanza oggi abbia, allo scopo di garantire una saggia riforma, che tutti comprendano il carattere ecclesiale e gerarchico della sacra liturgia. Cioè i riti e le formule liturgiche non devono essere considerati come un affare privato, che riguardi i singoli individui, o la parrocchia, o la diocesi, o una qualche nazione; ma come qualcosa di pertinenza alla Chiesa universale, essendo essi l'espressione viva della sua preghiera. Per cui non è lecito ad alcuno mutare tali formule, introdurne di nuove, sostituirle con altre. Lo vieta la stessa dignità della sacra Liturgia, per mezzo della quale l'uomo si mette a contatto con Dio; lo vieta anche il bene delle anime e l'efficacia dell'azione pastorale che in tal modo verrebbe compromessa. Perciò giova ricordare quella norma della Costituzione Liturgica, la quale stabilisce che 'l'ordinamento della Sacra Liturgia dipende unicamente dall'autorità della Chiesa' (SC 22, 1; 33).
L'insufficiente formazione teologica poi fonda questo modo di procedere sul criterio equivoco dell'assemblea celebrante, intesa come il soggetto primario delle azioni liturgiche. Ma tale assemblea è per lo più ridotta alla sua configurazione sociologica dell'hic et nunc e non si contempla invece la sua dimensione trascendente e universale in quanto parte dell'intera Chiesa, mistero soprannaturale. Né si distinguono adeguatamente gli atti propri di Cristo come Capo da quelli propri della Chiesa come Sposa, cosa che è ben distinta nelle forme classiche della liturgia. Gli atti del Capo non sono operazioni del Corpo e in una visione 'assemblearistica' ciò non è contemplato. In questo contesto non ha più significato una liturgia predeterminata, garantita e promulgata dall'autorità della Chiesa. Se ancora la si accetta è unicamente come materiale utile e indicazioni orientative. Così si è aperta la strada a quella creatività soggettiva, secondo la quale, ogni comunità è, non solo autorizzata, ma anche sollecitata a produrre. Da ciò l'allergia al cosiddetto rubricismo, inteso come reazione a tutto ciò che è in qualche modo normato e il riconoscimento del carattere di autenticità solo a ciò che volta a volta viene inventato e nella misura che è prodotto dalla creatività del gruppo interessato. La sostituzione del Soggetto costituisce quindi l'incrinatura fondamentale dell'edificio liturgico e il dissenso dal magistero - in quanto regolatore della liturgia, assicurando il diritto di Cristo e della Chiesa di essere l'unico legittimo Soggetto delle azioni liturgiche - ne è la principale causa. Questo dissenso ha portato, con la sostituzione del Soggetto, alla successiva sostituzione dei contenuti teologici propri del mistero e alla relativa mutazione delle preci e dei riti stabiliti dalla Chiesa. Le nuove forme, infatti, sono ritenute più conformi ai contenuti e alle sensibilità proprie dei nuovi soggetti umani, che ora intervengono nella gestione delle azioni dette ancora 'liturgiche'. A questo punto si deve dire che importa relativamente poco quello che noi facciamo nella liturgia; le nostre preghiere sono deboli, incerte le nostre riflessioni (Sap 9, 14), limitate le nostre domande, inefficaci i nostri sospiri. L'uomo peccatore non penetra le nubi, «raglio d'asino non raggiunge il cielo». Celebrare la nostra insufficienza e ritualizzare la nostra mediocrità è deprimente e soltanto una mitizzazione ingenua della psicologia lo può apprezzare. Non è da un simile esercizio psicologico che ci viene la salvezza, né dalla migliore arte delle nostre creazioni umane che scaturisce la redenzione. Ecco perché una 'liturgia' ridotta al noi e secolarizzata nelle forme culturali più condivise, ma anche più inquinate e precarie, non è un gran dono, ma una illusione.
Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo.
Ora il vero credente, nella liturgia, cerca il Signore, la sua parola immortale, la sua preghiera, quella che sola é gradita al Padre, i suoi gesti salvifici, capaci di una salvezza ultraterrena. Ciò in quanto si cerca l'altare per salire al cielo, si entra in chiesa per ossigenarsi alle altezze, ci si abbevera alla liturgia per avere in sorte la vita eterna. Si tratta di un fatto che è stato dimenticato e l'antropocentrismo, sopravvalutato, ha finito per scalzare il teocentrismo. Ma senza la grazia l'uomo con tutta la sua buona volontà e la sua fantasia creativa non è che un cieco che guida un altro cieco e ambedue cadranno in un fosso (Mt 15, 14). È questa l'illusione di una 'liturgia' spogliata del contenuto, dei gesti e delle parole stabilite dal Signore e, per suo mandato, dalla sua Chiesa. Ricreandola fuori dal controllo del magistero vivo della Chiesa e sostituendola con le culture e sensibilità dominanti, come è in parte avvenuto nel postconcilio, si è avuto il crollo della liturgia stessa e il popolo ha dovuto subire surrogati spuri e interpretazioni banali, eccentriche e spesso erronee. La fedeltà ai riti, come sono stabiliti dall'autorità della Chiesa, è quindi l'unica strada da percorrere per un ritorno dell'autentica Liturgia nella vita del popolo cristiano e, mediante essa, conseguire la santità vera, che è sempre conforme al dato oggettivo della fede.
Essendo necessario che la lex orandi concordi con la lex credendi e serva a manifestare e corroborare la fede del popolo cristiano, le nuove formule che voi dovete preparare non potranno essere degne di Dio se non saranno l'eco fedele della dottrina cattolica; e allora si comprende quante doti di maestà, di semplicità e di bellezza, e quanta attitudine a muovere i sentimenti e a ispirare la pietà dovranno esse possedere affinché possano in pieno rispondere alla natura propria del culto liturgico.
Una interpretazione superficiale delle parole evangeliche - «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20) - crea notevoli equivoci sul valore stesso del radunarsi in orazione e sulle condizioni della presenza di Cristo negli oranti. Taluni credono che basti una vaga intenzione soggettiva e una qualunque convocazione spontanea di due o più nel nome di Cristo per assicurare comunque la Sua presenza e l'efficacia soprannaturale della loro preghiera. Con tale pregiudizio ogni preghiera in un qualsiasi gruppo di fedeli avrebbe la certezza della presenza del Signore e la forza della Sua orazione. In altri termini il fondamento della preghiera cristiana sarebbe legato semplicemente ad una volontà soggettiva degli oranti che si radunano 'nominalmente' nel nome del Signore. Anzi proprio questa spontaneità e assenza di regole e di condizioni predeterminate rappresenterebbe la garanzia più sicura e più autentica della preghiera stessa. In questa luce la liturgia ufficiale, invece, preformata, stabilita e normata, sarebbe la modalità maggiormente inadeguata a creare le condizioni adatte per quella presenza che il Signore stesso avrebbe stabilito nei termini di una ben più semplice e immediata realizzazione. La liturgia della Chiesa allora finisce per essere ritenuta una inutile complicazione e una indebita imposizione in contrasto con quella semplicità evangelica contenuta nelle parole del Signore. Su questa strada si fugge dalle determinazioni liturgiche stabilite dalla Chiesa e dal suo magistero per attingere direttamente alla sorgente individuata nella 'semplicità' delle parole del Signore e abbeverarsi, si crede, alle 'mozioni' genuine dello Spirito. In questo orizzonte, ingannevole e apparentemente affascinante, si dà grande importanza a tutto ciò che è spontaneo e anche forti spiritualità contemporanee pagano il prezzo di questo miraggio. Per questo oggi si dà molto credito a tutto ciò che è creato nella massima spontaneità e nelle stesse parrocchie la forma liturgica stabilita dalla Chiesa è emarginata e, siccome non si può del tutto farne a meno, viene largamente inquinata e piegata agli impulsi soggettivi di coloro che la animano, con la presunzione di una presenza di Cristo data per certa per il semplice sentimento soggettivo dei convocati. Ciò succede in modo particolare nel contesto della pastorale giovanile, nella catechesi di iniziazione e nei gruppi di spiritualità. La celebrazione liturgica fedele, nobile, solenne e oggettiva non trova mai motivo per essere proposta come tale, ma quanto più grande è la circostanza e più larga la partecipazione tanto più deve subire rifacimenti e alterazioni conformi, si dice, alle 'esigenze pastorali'. Non sono neppure esenti da questa tentazione ormai diffusa e quasi ovvia gli itinerari di movimenti di impegno e i luoghi a forte richiamo spirituale, che alla legge liturgica hanno ormai sostituito l'intuizione carismatica o ideologica con le relative espressioni simbolico-rituali. In questa situazione i fedeli rischiano di non avere più un incontro regolare o almeno sufficiente con la 'forma' liturgica della Chiesa, ma di ricevere stimoli esclusivamente dai molti surrogati che innervano il tessuto ecclesiale assumendo i tratti sempre mutevoli delle differenti contingenze. Ma non è così. È assolutamente necessario riflettere sulle condizioni della presenza di Cristo quando «due o tre sono riuniti nel suo nome». Che cosa significa in realtà «nel mio nome»? Non bisogna interpretare con frettolosa superficialità questa apparentemente facile condizione posta dal Signore, quasi che la si possa immediatamente comprendere del tutto e sia priva di una profondità che non è subito e pienamente individuabile. Innanzi tutto nel nome di Cristo significa avere il Suo pensiero, come afferma l'Apostolo: «Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16). Ciò implica condividere la sua dottrina, accettare i contenuti oggettivi della sua parola, accogliere da Lui lo stesso pensiero del Padre dei cieli, quello che il Padre ha voluto rivelare. Questo significa, in altri termini, avere l'ortodossia della fede, che è pienamente garantita nell'aderire al pensiero del Signore, mediante tutto ciò che la Chiesa, sua sposa, propone a credere. Poi nel nome di Cristo significa anche avere la sua preghiera, il suo culto, la sua liturgia, il suo specifico modo di glorificare il Padre. Il nostro culto è fragile, debilitato dal peccato, radicalmente insufficiente ed incapace di penetrare nei cieli ed essere gradito dalla maestà di Dio. È propriamente il culto «in spirito e verità» (Gv 4, 23), che il Figlio ha portato dal cielo in questa terra d'esilio, che dobbiamo ricevere ed è la presenza in noi, mediante lo Spirito Santo, di questo culto che ci assicura di essere convocati nel nome del Signore. La liturgia di Cristo si unisce quindi all'ortodossia della sua dottrina. Infine nel nome di Cristo significa vivere secondo i suoi Comandamenti. Infatti, egli afferma «Chi accoglie e miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 21). Non vi è riunione vera nel nome del Signore senza condivisione della sua vita. È lo stato di grazia santificante la condizione ultima e piena per stare insieme nel nome di Cristo. In tal modo si comprende come le tre condizioni - ortodossia, liturgia e morale - siano indissolubilmente unite e intimamente condizionate l'una all'altra, al punto che l'assenza di una sola di esse provoca l'incrinatura grave delle altre. Ed ecco che a questo punto si può facilmente comprendere come proprio la liturgia della Chiesa sia in grado di possedere nella maggiore intensità possibile su questa terra queste tre condizioni, mediante le quali si realizza quella presenza e quel culto soprannaturale che sono assicurati dalla parole di Cristo: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Così si rovescia l'impostazione iniziale: non più la spontaneità soggettiva, ma la verifica oggettiva di queste condizioni fondano il culto accetto ed efficace.
È evidente che anche coloro che insistono sul rapporto personale con Cristo, quasi che proprio questo consentisse un minor controllo delle suddette condizioni oggettive, non possono riconoscere una autentica intimità con Cristo senza la verifica oggettiva dell'adesione al suo pensiero, al suo culto e ai suoi comandamenti.
E così l'interpretazione dell'espressione evangelica in spirito e verità, non può risolversi in una eliminazione o comunque riduzione delle esigenze intrinseche dell'ortodossia della fede, della liturgia della Chiesa e della morale evangelica. Proprio la Verità, che è Cristo e lo Spirito Santo sono gli artefici del culto in spirito e verità e la loro presenza e azione soprannaturali distolgono totalmente da ogni interpretazione sentimentale, psicologica e soggettiva, che si vorrebbe applicare indebitamente all'espressione in spirito e verità.
Rimosse in tal modo queste difficoltà che ancora oggi insidiano con interpretazioni fuorvianti l'adesione al magistero in nome di una maggiore 'autenticità' incontrata, si dice, fuori dai suoi confini e libera dai suoi condizionamenti, si auspica una accoglienza più convinta e una attuazione più fedele della liturgia della Chiesa.
4. Il crollo dello spirito della liturgia
Ma il dissenso dal magistero è in realtà un rifiuto della dipendenza da Dio. Cosicché si ritorna alle origini e si rinnova quell'attentato al 'mandato liturgico' (Gen 1, 16-17) che l'uomo ebbe dal Creatore fin dagli inizi. Come all'origine della prima creazione stabilire il bene e il male fu competenza divina, così nella nuova creazione stabilire gli atti che la fondano e la alimentano (il Ministero e i Sacramenti) è pure competenza divina del Figlio di Dio e, per suo mandato, della sua Chiesa. Dissentire quindi dal magistero, strumento soprannaturale istituito da Cristo, significa negare l'obbedienza e l'adorazione a Colui che tale strumento ha istituito per la salvaguardia della fede, del culto santo e della vita di grazia. Come ricevere i Sacramenti è un atto di culto a Dio - in quanto a Lui ci si sottomette e da Lui si dipende - e rifiutarli è negare a Dio la dovuta adorazione e non rendere a Lui il culto come Lui lo ha stabilito, così il rifiuto del magistero, organo soprannaturale, è fondamentalmente una caduta della liturgia nella sua natura più intima di sottomissione filiale e adorante a Dio e al suo divin Figlio. In questa luce il dissenso è, nel suo nucleo più intimo, un rifiuto dell'adorazione e la crisi della liturgia nella sua forma rituale e visibile ritrova le sue ultime radici all'interno di se stessa nella crisi della sua sostanza più profonda, la prostrazione adorante alla divina Maestà e la consegna libera e gioiosa alla divina Paternità. Ed ecco allora la conclusione estrema: il crollo della liturgia postconciliare è dovuto, in ultima analisi, al crollo dello spirito della liturgia. Tale spirito è l'anima della liturgia e questa anima - indissolubile dal dogma della fede e colta da una adeguata teologia liturgica - è assicurata e presidiata dal magistero vivo della Chiesa. Essa non è altro che la presenza e l'azione misteriose, ma vere, di Cristo e della Chiesa, che operano efficacemente per ritus et preces nell'oggi delle azioni liturgiche. Caduta in tal modo l' anima interiore, anche la corporeità esteriore, fatta di riti, preci, simboli, canti, ecc., si è corrotta e, presieduta dai soggetti di sostituzione, si è gradualmente decomposta nei contenuti secolari. Si intende che anche l'efficacia della Grazia, connessa alla liturgia vera, in tale processo fa naufragio.
Alla vigilia del Concilio, infatti, appariva sempre più viva in campo liturgico l'urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati…
Inoltre, si rivelava chiara fin dall'inizio la necessità di studiare in modo più approfondito il fondamento teologico della Liturgia, per evitare di cadere nel ritualismo o di favorire il soggettivismo, il protagonismo del celebrante e affinché la riforma fosse ben giustificata nell'ambito della Rivelazione divina e in continuità con la tradizione della Chiesa.
È oggi necessaria una forte ripresa di una teologia liturgica, che riproponga i fondamenti dottrinali della liturgia e ne proclami con lucidità la sua identità nei contorni definiti delle sue forme oggettive. La riforma liturgica ebbe in grande considerazione e si servì con larghezza sia degli studi storici, relativi agli sviluppi delle forme liturgiche, come di quelli pastorali, attenti alle problematiche dell'uomo a cui oggi ci si deve rivolgere. Indubbiamente non mancarono le basi teologiche, ma il necessario ricorso allo sviluppo storico della liturgia, esuberante di tante fonti riscoperte, e l'urgenza pastorale di offrirla rinnovata al popolo di Dio nella concretezza dei tempi in cui vive, ebbero un indiscusso primato nella revisione, impostazione e riproposizione del complesso dei riti liturgici. Occorre in conseguenza rilevare che la storia della liturgia, indispensabile e preziosa, potrebbe però tendere anche verso l'archeologismo liturgico, per il quale si vorrebbe una dimensione rituale del tutto conforme alle origini, con un facile scapito degli sviluppi successivi. Ritornare alla forma classica romana antica è certo un buon criterio per comprendere i riti nelle loro linee essenziali e primarie e valutare il senso dello sviluppo successivo e il valore degli elementi di sviluppo. Tuttavia una 'mitizzazione' dell'epoca antica potrebbe negare legittimità a sviluppi altrettanto necessari e oggi ormai irrinunciabili nella crescita organica del complesso rituale. Fu un pericolo, comprensibile e reale, che portò, secondo alcuni, ad una spogliazione talvolta eccessiva. Anche la forte considerazione pastorale può aver spinto, insieme alle legittime esigenze consone con l'intento fondamentale della riforma di ridonare al popolo la liturgia, a non tenere nel dovuto conto la tradizione contenuta in forme specifiche, in preci e riti ormai classici ed ininterrotti nei secoli, in espressioni linguistiche consacrate dall'uso dottrinale e liturgico e non facilmente sostituibili. La ricerca di moduli simbolici, gestuali e linguistici conformi alle culture odierne e l'accentuazione di quei contenuti che toccano con maggior immediatezza le sensibilità dell'uomo d'oggi ha prodotto certamente un grande sforzo pastorale, ma a prezzo, talvolta, di un impoverimento o un oscuramento della immensa ricchezza liturgica fluente dai secoli. Potrebbe essersi verificato, insomma, in taluni momenti della riforma e certamente nella sua attuazione pratica, una specie di cortocircuito tra storia liturgica e pastorale liturgica, senza un passaggio altrettanto robusto attraverso la teologia liturgica. La teologia liturgica in realtà è quella che consente di individuare la legittimità degli sviluppi secolari, distinguendo quelli dottrinalmente coerenti e conformi alla sostanza della Tradizione apostolica, da quelli incoerenti e difformi dal dogma della fede, e dalla sua espressione organica, coerente e progressiva. Non tutto ciò che avvenne nella storia dei riti fu anche e sempre nobile e mirabile. Vi furono epoche di decadenza e la liturgia ne subì l'influsso, ora riducendosi, ora evolvendosi in modo indebito, oppure assumendone elementi impropri e inopportuni. Ma sarà col ricorso ad una corretta teologia liturgica, che si potrà con coerente argomentazione trovare quello che fu un vero progresso liturgico da quello che invece fu falso o mediocre. Occorre perciò oggi ridare fiato alla teologia della liturgia, ossia, come direbbe il papa Benedetto XVI, ritornare allo spirito della liturgia così da risanare e integrare il rapporto tra storia e pastorale. Bisogna riproporre invece il trinomio: storia liturgica, teologia liturgica e quindi pastorale liturgica. Su questa base si eviteranno gli scogli sia dell'archeologismo, che fa della liturgia un museo dell'antichità senza nessuna possibilità di sviluppo, sia del pastoralismo, che spinge la liturgia verso una tale attualizzazione da dissolversi nell' 'invenzione'. È chiaro che teologia liturgica significa confronto dottrinale e fedeltà al dogma della fede che deve trovare espressione visibile nei riti e nelle preci. È in questa completa prospettiva che la Chiesa oggi accoglie con serena e grata esultanza talune forme medioevali del culto eucaristico, che non furono conosciute nel primo millennio, ma il mistero ad esse sotteso fu sempre creduto e vissuto, fin dalle origini. È il senso del dogma eucaristico, così come si è sviluppato nella coscienza e nel linguaggio di fede della Chiesa e che è parte costitutiva dell'argomentazione teologica, che afferma il ruolo della teologia nella valutazione e accettazione delle 'nuove' espressioni liturgiche successive all'epoca antica. Così anche le forme rituali che configurano più esplicitamente la Messa come Sacrificio trovano la loro legittimazione nella teologia sacrificale, che è parte ineliminabile, anzi centrale, di una vera e completa teologia liturgica. Ma sarà sulla base della teologia liturgica che si potrà fondare e prospettare anche nuovi sviluppi del rito, come già avvenne mediante la dottrina espressa sia nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e in modo ancor più esteso e completo nella Lumen Gentium. In questa superiore sintesi, nella quale la teologia ritorna ad esercitare il suo insostituibile ruolo, sarà possibile una attuazione equilibrata e sana della riforma liturgica e insieme sarà aperta la strada per quegli sviluppi ulteriori che l'itinerario vivo del popolo di Dio potrà esigere ed enucleare in modo coerente, come in una crescita organica.
La crisi dello spirito della liturgia ha un risvolto pratico nel tessuto vivo delle nostre comunità cristiane. Essa si manifesta chiaramente nella emarginazione o almeno non sufficiente considerazione del sacramento nella pastorale attuale. Si possono individuare molti sintomi che rivelano come i sacramenti non abbiano una equilibrata integrazione e ancor meno il loro primato in settori importanti della pastorale ecclesiale e nel tessuto della vita del cristiano:
- il facile rimando nel tempo del battesimo dei bambini che si traduce in una esorbitante attesa, oppure, nel caso peggiore, in una negazione di tale sacramento in vista di una sua richiesta consapevole nell'età adulta:
Fin da piccoli, i bambini hanno bisogno di Dio, perché l'uomo dall'inizio ha bisogno di Dio, ed hanno la capacità di percepire la sua grandezza; sanno apprezzare il valore della preghiera – del parlare con questo Dio – e dei riti, così come intuire la differenza fra il bene e il male. Sappiate, allora, accompagnarli nella fede, in questa conoscenza di Dio, in questa amicizia con Dio, in questa conoscenza della differenza fra il bene e il male. Accompagnateli nella fede sin dalla più tenera età. E come coltivare il germe della vita eterna a mano a mano che il bambino cresce? San Cipriano ci ricorda: 'Nessuno può aver Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre'.
- l'eccessiva considerazione del ruolo della catechesi e delle mutevoli ipotesi metodologiche tende a ritardare il più possibile sia la recezione della prima Confessione e della prima Comunione, sia della confermazione: si nota una tendenza tipica dell'errore giansenista, già superato dal decreto Quam singulari (1910) di S. Pio X, secondo il quale l'efficacia dell'azione formativa umana è ritenuta di fatto superiore a quella dell'azione sacramentale della grazia, che non accompagna il cammino, ma lo corona soltanto;
- l'estensione sproporzionata del carattere didascalico della liturgia della Parola della Messa, rispetto alla celebrazione troppo breve, veloce e subito terminata della successiva liturgia sacrificale e sacramentale, ridotta talvolta ad una questione di orologio;
- il ricorso più raro, nella crescita spirituale dell'individuo, all'azione soprannaturale e preveniente della Confessione, della Comunione frequente e dei mezzi soprannaturali in genere, in favore di una attenzione e un affidamento eccessivo a indagini e metodi di natura psicologica e terapeutica;
- l'acquiescenza verso la convivenza come esperienza previa al matrimonio: il sacramento è prospettato in un futuro che mai arriva ed è inteso come coronamento di un itinerario, piuttosto che come base iniziale di un edificio quale è la famiglia cristiana, che Cristo stesso edifica con la sua grazia;
- l'impostazione pastorale della parrocchia a prevalente carattere umanitario, nella quale i sacramenti e la liturgia tendono alla marginalità in favore di attività a forte impatto sociologico, culturale e folcloristico: si pensi a talune feste patronali in cui la predicazione, la preghiera, la degna recezione dei sacramenti e la centralità della liturgia sono sommerse da programmi solidaristici, sportivi, musicali e ricreativi;
- la riduzione della missione a promozione umana, sia promuovendo l'impegno caritativo senza la connessione ai sacramenti, sia rapportandosi col mondo sui soli valori condivisi, senza mai giungere ad un annunzio esplicito di Cristo e all'incontro con la celebrazione sacramentale della sua opera di salvezza.
Sono alcuni rilievi, che mettono dovutamente in allarme, pur riconoscendo, tuttavia, l'altrettanto necessario impegno per evitare l'estremo opposto di una sacramentalizzazione formale, senza l'accompagnamento mirato alle concrete persone e l'attenzione intelligente alle diverse situazioni familiari e ambientali.
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