Sinodo Amazzonia Salvezza sì, ma da che cosa
Da una parte la risposta dei cardinali Muller e Brandmuller con il "perdono dei peccati" che ha nel battesimo il suo primo sacramento, dall'altra il cardinale Hummes e il vescovo Klautler che dopo decenni di "missione" va dicendo "Non ho mai battezzato un indio, e neppure lo farò in futuro". Benedetto XVI ora tace ma c'è un passaggio su Gesù di Nazaret dedicato ai Vangeli dell'infanzia
Lì Joseph Ratzinger prende spunto dall'annuncio dell'angelo a Giuseppe che Maria "darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: "egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Mt 1,21)
Il messaggero di Dio, che parla a Giuseppe nel sogno, chiarisce in che cosa consiste questa salvezza: "Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati".
Con ciò, da una parte, è dato un alto compito teologico, poiché solo Dio stesso può perdonare i peccati. Il bambino
viene così messo in relazione immediata con Dio, viene collegato direttamente con il potere santo e salvifico di Dio. Dall'altra parte, però, questa definizione della missione del Messia potrebbe apparire anche deludente. L'attesa comune della salvezza è orientata soprattutto verso la concreta situazione penosa di Israele, verso la restaurazione del regno davidico, verso la libertà e l'indipendenza di Israele e con ciò, naturalmente, anche verso il benessere materiale di un popolo in gran parte impoverito. La promessa del perdono dei peccati appare troppo poco e insieme troppo. Troppo, perché si invade la sfera riservata a Dio stesso; troppo poco, perché sembra che non sia presa in considerazione la sofferenza concreta di Israele e il suo reale bisogno di salvezza.
In fondo, già in queste parole è anticipata tutta la controversia sulla messianicità di Gesù: ha veramente redento Israele o forse non è rimasto tutto come prima? È la missione, così come Egli l'ha vissuta, la risposta alla promessa o non lo è? Sicuramente non corrisponde all'attesa immediata della salvezza messianica da parte degli uomini, che si sentivano oppressi non tanto dai loro peccati, quanto piuttosto dalla loro sofferenza, dalla loro mancanza di libertà, dalla miseria della loro esistenza.
Gesù stesso ha sollevato in modo drastico la questione circa la priorità del bisogno umano di redenzione, quando i quattro uomini che, a causa della folla, non poterono far entrare il paralitico attraverso la porta, lo calarono giù dal tetto e glielo posero davanti. L'esistenza stessa del sofferente era una preghiera, un grido che chiedeva salvezza, un grido a cui Gesù, in pieno contrasto con l'attesa dei portatori e del malato stesso, rispose con le parole: "Figlio, ti sono perdonati i peccati" (Mc 2, 5). Proprio questo la gente non si aspettava. Proprio questo non rientrava nell'interesse della gente. Il paralitico doveva poter camminare, non essere liberato dai peccati. Gli scribi contestavano la presunzione teologica delle parole di Gesù; il malato e gli uomini intorno erano delusi, perché Gesù sembrava ignorare il vero bisogno di quest'uomo.
Io ritengo tutta la scena assolutamente significativa per la questione circa la messianicità di Gesù, così come viene descritta per la prima volta nella parola dell'angelo a Giuseppe. Qui viene accolta sia la critica degli scribi che l'attesa silenziosa della gente. Che Gesù sia in grado di perdonare i peccati, lo mostra adesso comandando al malato di prendere la sua barella per andare via guarito. Con questo, però, rimane salvaguardata la priorità del perdono dei peccati quale fondamento di ogni vera guarigione dell'uomo.
L'uomo è un essere relazionale. Se è disturbata la prima, la fondamentale relazione dell'uomo – la relazione con Dio –, allora non c'è più alcun'altra cosa che possa veramente essere in ordine. Di questa priorità si tratta nel messaggio e nell'operare di Gesù. Egli volle, in primo luogo, richiamare l'attenzione dell'uomo al nocciolo del suo male e mostrargli: se non sarai guarito in questo, allora, nonostante tutte le cose buone che potrai trovare, non sarai guarito veramente.
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