La dottrina delle cose ultime
La fine della storia, del di più della speranza affidabile con cui affrontare il presente: il presente spaziale e temporale anche faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande nell’amore da giustificare la fatica del cammino
Traggo tutto il testo da OPERA OMNIA II/3 Filosofia della Religione Saggi sulla Rivelazione di Romano Guardini pp.549 -556
“Che il mondo debba avere una fine è un’implicazione della sua natura temporale. Parlare di un tempo senza fine non avrebbe alcun senso. Sarebbe come parlare di una finitezza
infinita. La fine del mondo, come si evince dalla rivelazione, non è però un processo cosmologico, come non lo è l’inizio. Nell’inizio del mondo incomincia la rivelazione dell’amore di Dio e della sua volontà di realizzare il suo regno nel mondo; nella sua fine, Egli porta a conclusione la sua opera, portando a compimento il suo amore. Chiedere come questa fine sia pensabile scientificamente, anzi se essa possa essere in assoluto pensata in modo razionale, è affare della scienza; dal punto di vista della Bibbia, essa significa il divenir manifesto di un fatto che ormai non potrà più essere negato da nessuno: e cioè solamente Dio è Dio, che solo Lui è veramente, che il mondo è solamente grazie a Lui e di fronte a Lui, che il mondo può essere nella misura in cui il Suo giudizio gli concede di essere.
Secondo la rivelazione, questa fine del mondo, sembra avvenire in maniera tale che il mondo temporale incontri l’eternità. Il Nuovo Testamento lo esprime dicendo che Cristo ritornerà. Quando il Figlio di Dio entrò nel mondo con l’incarnazione, ciò accadde nella forma della kénosis, in modo non appariscente. Così il mondo è potuto apparire come il vero-essente, mentre Lui come una “irrilevanza” qualunque del tempo, in una situazione storica qualsiasi. Che Lui, il perfettamente Puro, sia entrato in un mondo ribelle e moralmente compromesso, lo ha reso indifeso nei confronti di questo stesso mondo. La redenzione è stata un auto-sacrificio, la cui forma è stata l’attuazione del rapporto tra la santità divina e la condizione del mondo, in modo che le “tenebre” hanno potuto avere la loro “ora” e hanno potuto far passare come impotente e folle Colui che si era incarnato. Il ritorno di Cristo – di cui Lui stesso parla in modo così insistente, di cui ha parlato Paolo e Giovanni – capovolgerà il rapporto. Allora il santo verrà “in potenza” e potrà fare quanto gli è consentito dalla sua santità. Questo porterà il mondo in quella crisi estrema che si chiama “fine”.
Questa fine non significa però distruzione. Il mondo non verrà ridotto a zero, infatti la rivelazione stessa parla del “nuovo cielo e della nuova terra” che sorgeranno dalla “fine”. Nulla di ciò che Dio ha creato per amore verrà annientato; esso, attraversando un processo in cui verrà messo in questione in modo definitivo, trapassa in qualcosa di nuovo, in una forma di eternità. Perciò forse interpretiamo il senso della rivelazione in modo migliore, se parliamo di una “morte” del mondo.
Ora, per quanto riguarda la storia, la coscienza fondamentale degli uomini sa che essa avrà una fine. Le sue cause non sono da ricercare in un indebolimento delle forze biologiche o in catastrofi esterne, ma in fattori etico-religiosi. L’ingiustizia, il male, i comportamenti sacrileghi – di cui i miti hanno una conoscenza così profonda – esigono che la storia abbia una fine. Ma questa fine ha il carattere di giudizio. La storia ne ha bisogno. La fine di un evento vivente gli conferisce la sua determinazione ultima, il suo compimento. E’ questo che il giudizio fa la storia. In esso è in gioco la realizzazione del senso morale che la storia possiede: cioè che la verità dell’essere diventa manifesta e che la sua giustizia venga realizzata. Il discorso del giudizio è un’immagine. Essa traspone all’esistenza dell’umanità in generale ciò che il giudice fa nei confronti di un delinquente o di una controversia. L’istanza che giudica è il Cristo che ritorna. Mentre la storia terrena lo rifiuta o lo ignora, Egli si mostra come il suo Signore, la giudica e le conferisce il senso valido per l’eternità.
Sulla storia grava un peso tremendo che sentono tutti coloro che hanno un vivo senso morale. Esso consiste in questo: che nella storia, né la verità, né l’equità ottengono giustizia. La coscienza morale – che non pone il senso dell’agire solo nel successo, in modo cinico, o che non considera il male, in modo estetico, come elemento necessario al Tutto – esige che l’ingiustizia venga riconosciuta come tale e che la giustizia si affermi come tale. La storia è piena di male, celato o spacciato come giustizia grazie alla menzogna e al successo, così come è piena di bene, che invece viene presentato come ingiustizia. Ciò che vale per l’agire, vale anche per le azioni in cui si crea qualcosa; quanta ingiustizia e quanta miseria umana si riversano nelle grandi opere: edifici, istituzioni, interventi sul territorio, Stati. Esse vengono dimenticate grazie alla qualità esterna dell’opera, ma esse vi sono dentro, vogliono essere conosciute e valutate.
Le intenzioni degli uomini rimangono nascoste o contraffatte: che esse rimangono tali solo in parte è un fatto che avviene sempre; spesso accade che esse rimangono tali completamente. Così il senso della loro esistenza rimane precluso o rovinato; infatti l’agire esterno, l’essere visibile, ricevono il loro senso solo a partire dall’intenzione ..Spesso, soprattutto nei periodi di disordine storico o sociale, i criteri di riferimento per l’agire sono in genere dimenticati o vengono messi in disordine. Ciò che è importante è considerato superfluo, cose secondarie diventano essenziali; ciò che è sbagliato è considerato giusto, ciò che si è avvizzito è considerato normale. La realizzazione dei valori corrisponde così poco al loro significato che si può affermare, senza sostanziale esagerazione, che quanto più un valore è alto, tanto più in realtà è debole. A dir la verità, un valore dovrebbe essere tanto più forte nella realtà, quanto più alto è il suo livello.. Nel corso della storia il rapporto appare appunto capovolto. Secondo la percezione di gran lunga dominante, ciò che è veramente reale è la realtà empirica: cose, forze, situazioni. La disposizione personale, la decisione interiore nei confronti dell’esigenza etica, il modo di intendere qualcosa, si sovrappone a tutto questo con un’evidenza nebulosa.
Il giudizio renderà manifesto che proprio queste cose sono ciò che è reale. Così un’azione, un rapporto, una personalità si riveleranno tanto più “reali” – per dirla con la Bibbia –“entreranno nella vita eterna” (Mt 25,46) – quanto più è buona la volontà, quanto più è limpida l’intenzione.
La seconda cosa che il giudizio porterà è la giustizia. Abbiamo già parlato di quanto sia sbagliata l’affermazione: “la storia del mondo è il giudizio del mondo”. L’impressione decisiva che si ha dal corso della storia difficilmente è quella di qualcosa che sia in grado di rendere giustizia. Normalmente, considerando le cose nel loro complesso, l’impressione che si ha è piuttosto quella del contrario. Giustizia implicherebbe che gli uomini abbiano potere e determinino lo stato generale delle cose nella misura in cui la loro intenzione è limpida e il loro agire è buono. Implicherebbe che una situazione sia forte nell’essere, fruttuosa nell’opera, nella misura in cui essa è pura nei motivi e nelle intenzioni che la animano. Gli ultimi decenni ci hanno dato una lezione terribile su questo ovvero quanto poco ciò si realizzi, quali bassezze e quali disposizioni personali criminali spesso determinino il corso delle cose. Giustizia implicherebbe che le conseguenze dell’ingiustizia colpiscano chi l’ha commessa. In realtà esse colpiscono indistintamente tutti, anzi con particolare veemenza proprio le persone oneste e innocenti, quelli che vogliono il Bene.
Il desiderio profondo dell’uomo pieno di valori è che la giustizia segua il suo corso, anche quando essa dovesse essere applicata proprio contro di lui. Abbiamo talmente esperienza di un simile cumulo di colpa, di delitto e di bassezza, gli avvenimenti sulla terra sono regolati in modo così vergognoso da menzogna e violenza, che rimane solo una scelta: o diventare cinici e dire che ciò che conta è solo il successo; oppure appellarsi con fede a qualcosa che proviene dalla stessa istanza che ha creato il mondo, cioè Dio.
Giustizia significherà che grazie a Lui, nella persona del Signore innalzato sulla Croce, tutti gli occultamenti e tutte le manovre che rendono l’esistenza così opaca dal punto di vista etico saranno squarciati: che sarà resa giustizia alle disposizioni personali, sempre e ogni volta misconosciute e oppresse, che il vero senso etico religioso della storia verrà reso manifesto e realizzato.
Ma il criterio secondo cui il giudice giudicherà sarà la disposizione personale di Dio, così come si è rivelata In Cristo: l’amore fino al perdono.
Questo era il versante umano del giudizio. Ma vi è anche un altro. Verità e giustizia si devono compiere anche per Dio stesso. A Lui va dato l’onore che gli spetta. Parlare di “onore” oggi non è facile. Come in determinate epoche una costellazione raggiunge l’apogeo, allo stesso modo sembra che l’onore appartenga a quei valori che oggi si trovano nell’apogeo della storia. Difficile dire da cosa dipenda questo; probabilmente dalla mistificazione dell’esistenza, dalla razionalizzazione della meccanizzazione di tutto. L’onore si riferisce alla persona. E’ la cosa preziosa e nello stesso tempo vulnerabile che è data con la dignità e responsabilità di ogni persona stessa. L’onore non si può calcolare, né pesare, tuttavia è essenziale. Per l’onore ferito si può andare in rovina e l’onore riconosciuto può compensare un duro destino. Così il pensiero cristiano ha elaborato l’idea dell’onore a Dio. Nell’ambito della liturgia della Chiesa, ogni salmo si conclude con le parole: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Così si esprime la richiesta religiosa fondamentale, l’altezza del Santo, la posizione del Creatore nei confronti del mondo, la disposizione personale del Redentore nei confronti dell’uomo vogliono acquisire nella coscienza e nel comportamento dell’uomo il significato che spetta a loro.
Questi pensieri saranno comprensibili solamente a coloro che credono nel Dio personale; in caso contrario devono probabilmente sembrare vuoti, anzi folli. Per il credente è indispensabile che Dio riceva l’onore che gli spetta. Ma quale uomo nel corso dell’intera storia è stato così disonorato come Dio? Solo uno, che è Cristo, il Figlio di Dio. Quante cose sono state rivolte contro Dio: ribellione, falsità, bestemmia! Su tutto quello che qui può essere detto ad apparente discolpa da parte della filosofia, sociologia, psicologia. Rimane però il fatto che c’è una profanazione di Dio che corre lungo tutta la storia e che sembra diventare sempre più grande man mano che la storia procede. Ciò che oggi accade nell’ambito dell’ateismo, dello ateismo istituzionalizzato, del secolarismo supera ogni misura. E’ diventato una potenza mondiale. Esso costituisce il tentativo di annientare Dio, la conoscenza di Lui, di sradicare il timore di Lui dal consorzio umano. Ma la Sua nobiltà è talmente grande che Egli non ritira il dono della libertà che ha dato all’uomo, si mantiene fedele a quanto ha deciso e tace. Questo silenzio è tremendo. Un giorno però, nel giudizio, parlerà e allora apparirà chiaramente com’è la verità, (chi non si è lasciato perdonare).
Il medesimo evento ha però ancora un altro aspetto: se si dà uno sguardo al corso della storia, non solo superficialmente, ma in profondità, allora si vede come a partire dai più diversi punti di vista e con le tecniche più diverse si sia elaborata un costruzione dell’esistenza in cui l’uomo come quello che perde i propri privilegi finché Dio riceve onore. Rilke ha detto che la terra, indebitamente sottratta per essere consegnata al cielo, dovrebbe essere restituita all’uomo, il suo vero signore. Egli ha ripetuto la tesi di Nietzsche, secondo cui tra uomo e Dio vi è un aut.aut. L’uomo potrebbe diventare pienamente se stesso, solo se Dio scomparisse. Nonostante questo, uomo e mondo sono creati da Dio per amore, se l’uomo si mette contro Dio, lo fa con quanto Dio gli ha dato e gli dà. Chiunque conosca solo un poco della vera realtà, ha la sensazione che quanto gli accade sia qualcosa di grottesco dal punto di vista metafisico.
Con questa hybris (che oggi predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita) però, l’uomo procura a se stesso il male più grande. Appartiene alla più intima nobiltà dell’uomo poter vedere che cosa è più grande di lui: (il Donatore divino del proprio e altrui essere come di tutto il mondo che lo circonda). Quanto più riconosce ciò che gli è superiore, tanto più egli stesso cresce. Il fondamento più profondo della stima di se stessi consiste nel rendere onore a chi è superiore. Il titanismo ritiene di realizzare la vera grandezza dell’uomo; per i Greci però Prometeo non fu uno che ha mostrato ardore per elevarsi ad altezze maggiori, ma un empio. Solo l’epoca moderna ha fatto di lui l’emblema del coraggio umano che aspira alle cose più alte del progresso. Quanto più l’uomo ha rivendicato per sé ciò che egli non era, tanto più ha sacrificato ciò che egli in verità è (cioè dono del Donatore divino). Un segno di questo è la profonda inquietudine, la coscienza fondamentalmente oscurata, cattiva, che sta in agguato dietro tutto il progresso, il dominio del mondo, l’esaltazione di sé, la libertà (individuale eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare, escludendo Dio dalla cultura e dalla vita pubblica). Ciò che vi è di più profondo in ogni uomo protesta contro la falsità, sia pure nella nuova forma di violenza.
Anche per questo c’è il giudizio. Esso mette in chiaro chi è Dio e che solo Lui lo è; mette in chiaro chi è l’uomo e come egli abbia travisato la propria somiglianza con Dio, di cui il Creatore gli ha fatto dono nel proprio e altrui essere, capovolgendola in auto signoria.
Ora bisognerebbe ancora domandarsi in cosa consistano contenuto e senso della storia, ponendosi dal punto di vista della rivelazione”.
Penso utile riportare un giudizio dal n. 24 della Spe salvi di Benedetto XVI: “Che cosa possiamo oggi sperare? E che cosa non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà di ogni uomo è sempre nuova e deve sempre prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – e in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali di ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro – morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa. Ma ciò significa:
a) Il retto spazio delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà dell’uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini a una libera adesione all’ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.
b) Poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato (come pretendono tutte le concezioni idealistiche sul divenire). Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo (cioè la possibilità di essere amato e di amare), e per questo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.
25. Conseguenza di quanto detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l’uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente idealistica dell’età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l’uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza (nel di più della speranza affidabile della fine della storia). Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito (anche nel presente) – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.
26. Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale (non solo per il dipiù della fine della storia) ma già al presente nell’ambito puramente intra mondano. (Il regno di Dio non è un al di là imaginario, posto in futuro che non arriva mai; il suo regno si fa presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge). Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è il momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. E’ un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte: l’essere umano ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo (creato libero per amare) è “redento dal peccato, dal rifiuto del Donatore divino del proprio essere), qualunque cosa gli accada nel caso particolare. E’ questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha “redenti”. Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana “causa prima” del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: “Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
La “redenzione” nella storia della creazione, la salvezza secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta attraverso alcuni “luoghi” di pratico apprendimento ed esercizio della speranza: la preghiera come scuola della speranza, l’agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza, il giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza.
41. “Nel grande Credo della Chiesa la parte centrale, che tratta del mistero di Cristo a partire dalla nascita eterna dal Padre e dalla nascita temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso al croce e la risurrezione fino al suo ritorno, si conclude con le parole: “ …e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza della giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, verso l’attesa del di più, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente. Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re – l’immagine della speranza -, sul lato occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava e accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianità. Nello sviluppo dell’iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto all’aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia.
42 Nell’epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce (sostituito dalle concezioni idealistiche sul divenire): la fede cristiana viene individualizzata ed orientata soprattutto verso la salvezza personale dell’anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell’attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa. L’ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. E’ in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia. Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato sulla falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo. ..Dio stesso si è dato un’”immagine”: nel Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all’estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza – certezza: Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire: Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la “revoca” della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli…solo con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità…La grazia del perdono non esclude la giustizia”.
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