Quando il cambiamento pastorale è corruzione

Le interpretazioni contraddittorie sul capitolo VIII di Amoris Laetitia non sono un cambio di paradigma, sviluppo ma corruzione
"Quando il “cambiamento pastorale” ignora l’insegnamento della Chiesa, opporsi è un dovere di coscienza". Il cardinal Muller a tutto campo su crisi della fede, Amoris Laetitia, obbedienza a Pietro: "Intereptazioni contraddittorie sul capitolo VIII di Amoris Laetitia". Cambio di paradigma? "Non è sviluppo, ma corruzione". Etica della situazione? "Una falsa
teoria etica, anche se si trovasse in Amoris Laetitia". E il Papa? "In quanto “persona privata”, non può imporre la sua personale teologia o la spiritualità del suo ordine religioso a tutta la Chiesa". Le direttive episcopali su AL? "Perché siano ortodosse devono essere in accordo con le parole di Cristo custodite nel deposito della fede".
Pubblichiamo di seguito il lungo intervento del Prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede card Gherard Muller scritto per il quotidiano americano First Thing. La traduzione è di Luisella Scrosati.  

Ci può essere un “cambiamento di paradigma” nell’interpretazione del deposito della fede?
Commentando l’esortazione apostolica di papa Francesco Amoris Laetitia, alcuni interpreti avanzano posizioni contrarie all’insegnamento costante della Chiesa cattolica, negando di fatto che l’adulterio sia sempre un peccato oggettivo grave o rendendo l’intera economia sacramentale della Chiesa dipendente esclusivamente dalle disposizioni soggettive delle persone. Costoro cercano di giustificare le proprie affermazioni insistendo sul fatto che, attraverso i secoli, si è verificato uno sviluppo della dottrina sotto la guida dello Spirito Santo, cosa che la Chiesa ha sempre riconosciuto. Per comprovare le loro affermazioni, essi di solito si rifanno agli scritti del cardinal John Henry Newman, e in particolare nel suo famoso Saggio sullo Sviluppo della Dottrina Cristiana (1845). È perciò opportuno prendere in considerazione le argomentazioni di Newman. Esse ci aiuteranno a comprendere il tipo di sviluppo possibile nelle questioni toccate da Amoris Laetitia.
Quando Newman iniziò a scrivere il Saggio, era ancora anglicano. Però, prima di terminarlo, lasciò la Chiesa d’Inghilterra per entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica. Da anglicano, egli era stato uno dei maggiori protagonisti del Movimento di Oxford. Il Movimento aveva l’obiettivo di perseguire l’unità tra i cristiani, richiamando tutte le confessioni cristiane a ritornare alle tradizioni della Chiesa primitiva, secondo la Sacra Scrittura e gli scritti dei Padri della Chiesa. Newman era un maestro in patristica, e all’inizio era diffidente nei confronti degli insegnamenti posteriori sviluppati nel Medioevo. Fu per questo che impiegò molto tempo per convertirsi alla Chiesa romana. Questi insegnamenti gli apparivano come incompatibili con i principi basilari del Cristianesimo, o almeno non derivabili dalla Sacra Scrittura e dall’antica tradizione dei Padri. Per lui, la pratica di venerare la Santissima Vergine e i santi sembrava in contraddizione con l’idea di Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini. Altri esempi di insegnamenti che Newman considerava esclusivi del Cattolicesimo e non fondati sulla Scrittura e sui Padri sono i seguenti: il primato pontificio, la dottrina della transustanziazione, il carattere sacrificale della Santa Messa, il Purgatorio, le indulgenze, i voti religiosi, e il sacramento degli Ordini Sacri. Questi erano anche le principali questioni che suscitarono controversie durante la Riforma.
In un primo momento, Newman considerò l’Anglicanesimo come una via intermedia (la “via media”) tra la totale negazione della tradizione da parte della Riforma e - come appariva ai suoi occhi in quel momento - l’assolutizzazione della tradizione da parte dei cattolici. Tuttavia, i suoi studi patristici permisero a Newman di rendersi conto che c’era già stato uno sviluppo della dottrina nel periodo in cui la Cristianità non era ancora divisa. La necessità di un tale sviluppo deriva dalla stessa natura della rivelazione storica. È una conseguenza della presenza della Parola divina nelle nostre parole umane e nella nostra comprensione. I Concili dei primi otto secoli avevano formulato il dogma trinitario dell’unico Dio in tre persone e il dogma cristologico dell’unione ipostatica delle due nature di Cristo nella sua persona divina. Queste definizioni furono il risultato di un lungo e difficile sviluppo della dottrina. Analogamente, i dogmi del peccato originale e della assoluta gratuità della grazia furono l’esito del grande lavoro intellettuale dei Padri della Chiesa, grazie al quale essi difesero con successo la Chiesa dalle rovinose eresie come il Modalismo, l’Arianesimo, il Monofisismo e il Pelagianesimo. Se queste eresie avessero vinto, tutto il Cristianesimo sarebbe stato distrutto. Ora, la modalità con cui vennero combattute fu precisamente quella di trovare nuove formulazioni dottrinali, come, per esempio, il pronunciamento contro l’Apollinarismo riguardo all’Incarnazione e all’assunzione della natura umana da parte del Logos eterno: “ciò che non è assunto non è stato salvato”.
Parlare di uno sviluppo della dottrina non significa certamente interpretare storicamente il Cristianesimo nei termini dell’idealismo tedesco, dello storicismo e del modernismo. I sostenitori di queste correnti considerano Dio, o l’Assoluto, come un “trascendentale a priori”, ossia come la necessaria condizione soggettiva della nostra ragione e della nostra esperienza, che precede perciò la nostra esperienza e non può essere oggetto d’esperienza. Nella misura in cui l’Assoluto è la condizione del nostro pensiero e del nostro linguaggio, esso non può essere espresso con parole e concetti. Conformemente a questo approccio, allora, tutti i dogmi della fede cattolica sono semplicemente formule concettuali provvisorie che esprimono il sentimento religioso sempre mutevole della coscienza collettiva della Chiesa. Di conseguenza, anche quelle formule che chiamiamo dogmi dovranno essere soggette a queste vicissitudini e, pertanto, sono suscettibili di cambiamento” (Pio X, Pascendi dominici gregis). Seguendo questa teoria, le formule dottrinali hanno lo scopo di unire i fedeli all’Assoluto in un modo ineffabile, ma in se stesse non rappresentano veramente delle verità rivelate. Pertanto, noi non crederemmo veramente in Dio, ma nei fenomeni della nostra immaginazione e negli echi che essi provocano nel nostro linguaggio. Per sviluppo della dottrina, comunque, Newman - e con lui tutta la Chiesa - non intendeva uno sviluppo secondo l’accezione della filosofia idealista appena esposta. Una tale idea di sviluppo contraddice la pienezza della verità presente nella persona storica di Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato.
Il problema fondamentale della filosofia moderna è la relazione tra verità e storia. Nella sua componente temporale, la storia appare come il regno del transitorio, del variabile, del contingente, laddove invece la verità è al di là del tempo, sempre valida, e fondata nel mondo delle idee divine. Di conseguenza, la verità non è mai completamente alla portata degli esseri umani finiti, i quali possono accostarsi ad essa anche molto da vicino, ma in ultimo non possono mai entrare in contatto con essa. La teologia cristiana, al contrario, non inizia con la questione di come - nelle condizioni dell’esistenza storica - sia possibile conoscere la verità. Piuttosto, essa inizia con il fatto dell’auto-rivelazione di Dio nel tempo. L’Incarnazione non è un’idea per aiutarci a capire l’importanza terrena di Gesù in termini concettuali. L’ Incarnazione è invece il fatto dell’azione divina nella storia. Riflettendo su questo, la Chiesa diventa progressivamente consapevole di tutto ciò che tale evento implica e presuppone. La comprensione della fede – l’intellectus fidei - presuppone e sviluppa l’ascolto della fede – l’auditus fidei. Gesù appare nella “pienezza dei tempi” (cf. Mc. 1, 15; Gal. 4, 4; Ef. 1, 10). Nella “pienezza dei tempi”, Dio manda suo Figlio, nato dalla Vergine Maria, nel mondo e nella storia, per compiere la sua opera di salvezza, riconciliandoci una volta per tutte con Dio e indirizzando i nostri pensieri e le nostre azioni alla verità e alla bontà di Dio (cf. Gal 4, 4).
Per quanto riguarda la sostanza degli articoli di fede, è impossibile aggiungere o togliere qualcosa. Negli sforzi della Chiesa di combattere l’eresia e di pervenire ad una più profonda comprensione delle verità rivelate, ci può comunque essere un accrescimento negli articoli della fede. Il filioque, per esempio - cioè quella definizione di fede per cui lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio - non aggiunge qualcosa alla fede trinitaria. Questa formulazione semplicemente esprime in modo più chiaro la verità già conosciuta, ossia che lo Spirito non è il secondo Figlio di Dio. Lo sviluppo della dottrina in questo senso fa riferimento al processo con cui la Chiesa, nella propria consapevolezza della fede, giunge ad una più profonda comprensione concettuale e intellettuale dell’auto-rivelazione di Dio. Secondo San Tommaso d’Aquino, tutti gli articoli di fede “sono impliciti in alcune prime verità di fede; tutto cioè si riduce a credere che Dio esiste e che provvede alla salvezza degli uomini” (Summa Theologiae, II-II, 1, 7).
Lo sviluppo della dottrina è possibile perché nell’unica verità di Dio tutte le verità rivelate della fede sono collegate, e quelle che sono più implicite possono essere rese esplicite. Dopotutto, le formulazioni dottrinali non sono esse stesse l’oggetto dell’atto di fede. Piuttosto, la fede del credente fa riferimento all’autentica realtà di Dio e alla verità di Dio in Cristo. Come dice San Tommaso: “l’atto del credente non si ferma all’enunciato, ma va alla realtà” (Summa Theologiae, II-II, 1, 2 ad 2). Contrariamente alle affermazioni del modernismo, comunque, le formule della fede si riferiscono davvero alla conoscenza di Dio. Esse non sono solamente delle espressioni occasionali della nostra soggettiva coscienza di Dio.
La ragione più profonda della identità della Rivelazione nella sua continuità ecclesiale è contenuta nell’unione ipostatica, cioè nell’unità della natura umana e della natura divina nell’unica persona divina di Gesù Cristo. Le molte parole che egli ha pronunciato, rivelandoci il progetto di Dio mediante il linguaggio umano (cf. Gv 3, 34; 6, 68), sono unificate nell’ipostasi o persona dell’unica Parola che è Dio e che è divenuta carne (cf. Gv. 1,1; 14). La Parola di Dio giunge a noi mediante la predicazione di uomini (cf. 1 Ts. 2, 13); essa è resa presente per mezzo di parole umane, con la loro grammatica e il loro vocabolario. Perciò è possibile e necessario crescere individualmente e comunitariamente nella nostra comprensione della rivelazione, che ci è stata data una volta per tutte in Cristo. È chiaro allora che la teologia cattolica ha sempre riconosciuto il fatto e la necessità dello sviluppo del dogma. Fa parte dell’essenza del Cristianesimo come religione del Verbo incarnato - la religione dell’auto-rivelazione di Dio nella storia - affermare l’identità della dottrina della fede lungo un continuo processo mediante il quale la Chiesa perviene ad una comprensione concettuale dei misteri della fede sempre più differenziata. Questo principio è intrinseco alla stessa rivelazione. Come afferma il Cardinal Newman: “L’applicazione dall’inizio alla fine di questo principio dello sviluppo nelle verità della Rivelazione, è un argomento in favore dell’identità del Cristianesimo romano e primitivo”.
A questo punto veniamo alla principale domanda cui Newman cerca di rispondere nel suo famoso Saggio. Dal momento che la rivelazione è la personale e dialogica auto-comunicazione di Dio nell’esistenza storica di Cristo e della sua Chiesa, abbiamo bisogno di criteri per distinguere tra un reale sviluppo della dottrina e quello che Newman chiama un’alterazione o corruzione. Sviluppo significa crescita nella comprensione di realtà spirituali e teologiche, guidata dallo Spirito Santo (cf. Dei Verbum, 8). Questa crescita non proviene da alcun tipo di necessità naturale, e non ha niente a che fare con la credenza liberale nel progresso. Infatti, come accade anche nella vita spirituale di ciascuno, è possibile regredire. Nella Chiesa si può verificare una pericolosa paralisi, per esempio, quando bravi teologi e istituzioni scientifiche non sono abbastanza promossi o quando sono scelti vescovi impreparati per il loro eminente dovere di insegnare e predicare (cf. Lumen Gentium, 25). I vescovi non appartengono alla periferia, ma al centro dell’ortodossia.
I criteri che Newman sviluppa sono allora utili per mostrare come dovremmo leggere l’esortazione apostolica Amoris Laetitia di Papa Francesco. I primi due criteri sono la “permanenza del tipo” e la “continuità dei principi”. Essi hanno lo scopo precisamente di assicurare la stabilità della struttura fondamentale della fede. Questi principi e tipi ci impediscono di parlare di un “cambio di paradigma” riguardo alla forma dell’essere della Chiesa e della sua presenza nel mondo.
Ora, il capitolo VIII di Amoris Laetitia è stato oggetto di interpretazioni contraddittorie. Quando in un contesto simile alcuni parlano di un cambio di paradigma, ciò sembra essere una ricaduta nel modo modernista e soggettivista di interpretare la fede cattolica. Fu nel 1962 che Thomas Kuhn introdusse la sua idea controversa e nello stesso tempo influente di “cambiamenti di paradigma”, all’interno del dibattito della filosofia della scienza, dove quest’espressione riceve un significato preciso, tecnico. A prescindere da questo contesto, comunque, questo termine ha anche un uso comune, che riguarda qualsiasi tipo di cambiamento fondamentale nelle forme teoriche del pensiero e del comportamento sociale. “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebrei 13, 8) - questo è, al contrario, il nostro paradigma, che noi non cambieremo con nessun altro. “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1 Cor. 3, 11).
Replicando agli Gnostici, che cercavano di far apparire se stessi importanti escogitando sempre nuove rivelazioni e intuizioni, Sant’Ireneo di Lione scrisse: “Sappiate che Egli ha portato ogni novità, portando Se stesso che era stato annunciato”. Nella seconda metà del II secolo, Ireneo elaborò i principi formali della fede cattolica, dovendo rispondere alla sfida agnostica. Prima di tutto, la rivelazione deve essere accettata come un fatto storico. Questa rivelazione è contenuta nel deposito della fede - cioè nell’insegnamento apostolico - che nella sua verità e nella sua interezza è stato affidato alla Chiesa per essere fedelmente custodito e interpretato. Il metodo adeguato per interpretare la rivelazione esige il lavoro congiunto di tre principi, che sono: la Sacra Scrittura, la Tradizione apostolica e la Successione apostolica dei vescovi cattolici. La Chiesa romana in generale e i suoi vescovi in particolare dovrebbero essere gli ultimi a seguire l’esempio gnostico, introducendo un nuovo principio interpretativo con il quale imprimere una direzione completamente diversa a tutto l’insegnamento della Chiesa. Ireneo, infatti, ha paragonato la dottrina cristiana a un mosaico, le cui pietre vengono predisposte per riprodurre l’immagine del Re. Nella sua prospettiva, gli Gnostici avevano preso le stesse pietre, ma avevano cambiato il loro ordine. Perciò, anziché l’immagine del Re, essi hanno formato l’immagine di una volpe, l’ingannatrice. Si può infatti peccare contro la fede cattolica non solo negando alcuni dei suoi contenuti, ma anche riformulando i suoi principi formali di conoscenza.
Qui si può pensare alla Riforma protestante. Il suo nuovo principio formale fu quello della sola Scriptura. Questo nuovo principio sottopose la dottrina cattolica della fede, così come era stata sviluppata fino al XVI secolo, ad un cambiamento radicale. La comprensione fondamentale del Cristianesimo si trasformò in qualcosa di completamente diverso. La salvezza doveva essere conseguita per mezzo della sola fede, di modo che il singolo fedele non aveva più bisogno dell’aiuto della mediazione ecclesiale. Di conseguenza, i riformatori respinsero radicalmente i dogmi relativi ai sette sacramenti ed alla costituzione episcopale e papale della Chiesa. Se compreso in questo senso, non ci può essere alcun cambiamento di paradigma della fede cattolica. Chi parla di una svolta copernicana nella teologia morale, che trasforma una diretta violazione dei comandamenti di Dio in una lodevole decisione di coscienza, si esprime abbastanza chiaramente contro la fede cattolica. L’etica della situazione resta una falsa teoria etica, anche se qualcuno dicesse di trovarla in Amoris Laetitia.
A parte la questione del peccato grave oggettivo, alcune proposte di reinterpretare la dottrina cattolica alla luce di Amoris Laetitia toccano anche l’economia sacramentale, la quale si dice che ora riceva il suo parametro dalle disposizioni soggettive di ciascun credente di fronte a Dio. Qui occorre richiamare il fatto che nessuna autorità ecclesiale può trascurare l’ordine della mediazione sacramentale della grazia, che si basa sulle relazioni concrete che noi viviamo nella carne. Pertanto, è impossibile per un cattolico ricevere i sacramenti in maniera degna, senza decidere di abbandonare un modo di vivere che è in opposizione agli insegnamenti di Cristo. In effetti, per Newman il principio sacramentale è tra i principi centrali del Cristianesimo, che non può essere cambiato.
Che dire degli altri criteri che Newman elenca per distinguere uno sviluppo autentico da una corruzione e da una decomposizione? Alcuni di essi sono certamente utili per illuminare il presente dibattito. Possiamo prendere in considerazione il terzo criterio, che egli chiama “potere di assimilazione”. Secondo Newman, un vero sviluppo si verifica quando il Cristianesimo è in grado di integrare il contesto circostante, informando e cambiando la sua cultura, mentre invece la corruzione si ha quando è invece il contesto che assimila a sé il Cristianesimo. Perciò, un cambiamento di paradigma, mediante il quale la Chiesa assume il criterio della società moderna per essere da essa assimilata, costituisce non uno sviluppo, ma una corruzione.
Nel suo quarto criterio, Newman parla della necessità di una “sequenza logica” tra le differenti tappe di uno sviluppo. Perché uno sviluppo sia sano, esso deve procedere secondo una continuità logica con gli insegnamenti del passato. C’è una continuità logica tra Familiaris Consortio, 84 di Giovanni Paolo II - che insegna che i divorziati che vivono una nuova unione devono prendere la risoluzione di vivere in continenza oppure astenersi dai sacramenti - e il cambiamento di questa medesima disciplina che alcuni stanno proponendo? Ci sono solo due opzioni. Si potrebbe negare esplicitamente la validità di Familiaris Consortio, 84, rifiutando quindi per la stessa ragione il sesto criterio di Newman, “azione conservativa sul passato”. Oppure si potrebbe cercare di mostrare che Familiaris Consortio, 84 abbia implicitamente anticipato il rovesciamento della disciplina che essa ha esplicitamente stabilito di insegnare. Leggendo con onestà il testo di Giovanni Paolo II, comunque, una tale procedura andrebbe a violare le regole basilari della logica, come il principio di non contraddizione.
Quando “cambiamento pastorale” diventa una parola per mezzo della quale alcuni manifestano la loro azione programmatica di ignorare l’insegnamento della Chiesa, come se la dottrina fosse un ostacolo alla cura pastorale, allora opporsi è un dovere di coscienza. Girolamo, Agostino, Tommaso d’Aquino ed altre grandi autorità cattoliche hanno attribuito un significato esemplare all’incidente di Antiochia, allorché Paolo si oppose apertamente a Pietro, che, a causa del suo comportamento ambiguo, “non si comportava rettamente secondo la verità del vangelo” (Gal. 2, 14).
Prima di tutto è importante ricordare che il Papa, in quanto “persona privata” (Lumen Gentium, 25) o in quanto fratello tra fratelli, non può imporre la sua personale teologia, i suoi stili di vita o la spiritualità del suo ordine religioso a tutta la Chiesa. L’obbedienza come voto religioso è diversa dall’obbedienza della fede che ogni cattolico deve alla rivelazione e alla sua mediazione ecclesiale. I vescovi sono legati all’obbedienza al Papa a motivo del suo primato giurisdizionale e non a motivo di voti personali che essi hanno fatto. L’ufficio papale e quello episcopale sono al servizio della custodia dell’unità della fede e della comunione. Pertanto è parte dei doveri primari del Papa e dei vescovi evitare la polarizzazione e la crescita di una mentalità faziosa.
Tutto ciò significa che nell’esercizio del suo ministero di insegnamento, non basta che il Magistero della Chiesa ricorra semplicemente al suo potere giurisdizionale o disciplinare, come se i suoi insegnamenti non fossero altro che una questione di positivismo legale e dottrinale. Invece, il Magistero deve cercare di presentare motivazioni convincenti, mostrando come la sua esposizione della fede sia in se stessa coerente e in continuità con il resto della Tradizione. L’autorità del Magistero papale poggia sulla continuità con gli insegnamenti dei papi precedenti. Infatti, se un Papa avesse il potere di abolire gli insegnamenti vincolanti dei suoi predecessori, o se avesse l’autorità perfino di reinterpretare la Sacra Scrittura contro il suo significato evidente, allora tutte le sue decisioni dottrinali potrebbero a loro volta essere abolite dal suo successore, il cui successore a sua volta potrebbe annullare e rifare ogni cosa a suo piacimento. In questo caso noi non assisteremmo ad uno sviluppo della dottrina, ma al tragico spettacolo della Barca di Pietro arenata in un banco di sabbia.
Recentemente gruppi di vescovi o singole conferenze episcopali hanno pubblicato delle direttive riguardo alla ricezione dei sacramenti. Perché queste dichiarazioni siano ortodosse, non è sufficiente che esse proclamino la loro conformità con le presunte intenzioni del Papa in Amoris Laetitia. Esse sono ortodosse solamente se sono in accordo con le parole di Cristo custodite nel deposito della fede. Similmente, quando cardinali, vescovi, sacerdoti e laici domandano al Papa chiarezza su queste questioni, ciò che essi richiedono non è un chiarimento circa le opinioni personali del Papa. Ciò che essi cercano è la chiarezza in merito alla continuità dell’insegnamento del Papa in Amoris Laetitia con il resto della tradizione.
Quanti cercano di adattare il messaggio evangelico alla mentalità di questo mondo, appellandosi nei loro tentativi all’autorità del cardinal Newman, dovrebbero prendere in considerazione ciò che egli afferma sulla permanenza del tipo della Chiesa. Secondo Newman, la vera Chiesa può essere riconosciuta dal modo costante in cui il mondo l’ha considerata attraverso i secoli, pur in mezzo a molti sviluppi. Come afferma Newman, agli occhi del mondo la Chiesa è “una comunità religiosa che rivendica un mandato divino, e che considera gli altri organismi religiosi che la circondano come eretici o infedeli; si tratta di un organismo ben strutturato, ben disciplinato”. Questa comunità “è sparsa in tutto il mondo conosciuto; può essere localmente debole o esigua, ma nel complesso è forte a causa della sua continuità”, ed è “un nemico naturale per i governi esterni ad essa; è intollerante e avvincente, tende verso un nuovo modellamento della società; infrange le leggi, e divide famiglie. È una rozza superstizione; è accusata dei crimini peggiori; disprezzata dal genio del momento”. Newman conclude: “ed esiste solo una comunità così. Ponete questa descrizione davanti a Plinio o a Giuliano; mettetela di fronte a Federico II o a Guizot… Ciascuno sa riconoscere immediatamente, senza porre domande, di che si tratti”. Dove Newman troverebbe una comunità così oggi?
*Prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede.

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