Verità morali assolute

L’enciclica Veritatis splendor proclamò l’esistenza di verità morali assolute, valide in ogni tempo e in ogni luogo, che a nessuna coscienza è lecito mai trasgredire

Traggo da Fede, Ragione, Verità e Amore di Joseph Ratzinger (pp. 565 -577)
San Giovanni Paolo II sentì l’urgenza di riprendere e riproporre il Concilio Vaticano II nel suo messaggio morale espresso soprattutto nella costituzione dogmatica Dei Verbum e in quella pastorale Gaudium et spes.
Sacra Scrittura e teologia morale
Per cogliere il cuore del messaggio conciliare per il rinnovamento della teologia morale in rapporto alla
situazione della teologia morale antecedente il Concilio, caratterizzata dall’influsso kantiano razionalistico, occorre rifarsi alla Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, che costituisce una delle colonne portanti dell’intero edificio conciliare. Questo documento tratta della Rivelazione e della sua trasmissione, dell’ispirazione e della interpretazione della Sacra Scrittura e della sua importanza nella vita. Raccogliendo i frutti del rinnovamento teologico precedente, il Vaticano II pone al centro Cristo, presentandolo sacramentalmente presente e operante quale “il mediatore e insieme la pienezza di tutta la Rivelazione”. Infatti il Signore Gesù, Verbo fatto carne, morto e risorto, asceso al cielo e continuità sacramentale nella e attraverso la Chiesa del Verbo incarnato, ha portato a compimento l’opera della salvezza, fatta di gesti e di parole, e ha manifestato il volto e la volontà di Dio nella sua essenza trinitaria di Padre, Figlio, Spirito Santo, così che fino al suo ritorno glorioso non è da aspettarsi alcuna rivelazione pubblica. Gli apostoli e  i loro successori, i Vescovi, che agiscono in sua persona, sono i depositari del messaggio che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, perché fosse trasmesso integro a tutte le generazioni. La Sacra Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento o Alleanza cioè storia di amore di Dio per ogni persona e per l’umanità e la Sacra Tradizione, tutte e due sotto l’azione guida dello Spirito Santo, contengono tale messaggio che Cristo ha affidato alla Chiesa. La Rivelazione non è come un meteorite fissato in un libro ma dato a un popolo con un libro ispirato e che ispira così Dio che ha parlato ai patriarchi e ai profeti, non cessa di parlare alla Chiesa e per mezzo di questa al mondo. La comunicazione del vero nella vita della Chiesa è la sua stessa continuità con la presenza del Risorto per cui la tensione morale non è verso l’assolutizzazione kantiana razionalistica delle regole ma attraverso i comandamenti verso l’assimilizzazione progressiva alla persona di Cristo. Generalmente parlando, la tradizione manualistica era realmente segnata da un marcato razionalismo di regole, per cui la funzione della Sacra Scrittura restava molto marginale nell’elaborazione della teologia morale. Essa si costruiva sostanzialmente sul fondamento della legge naturale e quindi nella forma di una riflessione filosofica, basata sull’antica tradizione stoica, che in larga misura era stata fatta propria nella storia del cristianesimo.
Finalità pratica di questi manuali era quella di formare i confessori, dando risposte concrete che potevano porsi nel contesto della confessione. In tal modo, insieme con un certo naturalismo metafisico proprio di una riflessione sostanzialmente filosofica, qua e là ornata di citazioni bibliche, era anche molto forte la dimensione casistica, per poter rispondere ai quesiti pratici.
Mancava però del tutto il grande respiro biblico, ma soprattutto mancava il riferimento alla presenza della figura di Cristo, in cui ogni uomo trova la verità e la via in una persona come scopo, e quindi trova anche aperta la porta per la vita, trova cioè la riconciliazione con Dio e la comunione con lui tentando e ritentando l’osservanza delle regole: entrando in comunione con Cristo, che è al tempo stesso un uomo presente nel mio tempo e il Figlio di Dio, possiamo riconoscere la concretezza del momento fugace con il peso eterno della nostra vita. Quel tipo di teologia morale non faceva più vedere il grande messaggio della liberazione e della libertà dell’incontro con Cristo , mettendo soprattutto in evidenza negativi di tante proibizioni, di tanti “no”, che sono senza dubbio presenti, necessari nella morale cattolica, ma che non venivano più presentati per quello che sono in realtà: la concretizzazione di un grande “sì” all’assimilazione con la presenza di Cristo nella memoria evangelica di Gesù.
Urgeva quindi un rinnovamento profondo e questa fu certamente l’idea della Costituzione Gaudium et spes: ritornare ad una morale sostanzialmente biblica e cristologica, ispirata dall’incontro con Cristo, una morale non concepita come una serie di precetti ma come l’avvenimento di un incontro, di un amore che poi, di conseguenza sa creare anche azioni corrispondenti. Se accade questo avvenimento dell’incontro vivo con una persona viva, che Cristo memorizzando Gesù dei Vangeli, come nel dogma cioè nella scienza della fede maturata e definita nella Chiesa è trasmesso, e questo incontro desta amore, è dall’amore che tutto il resto, comandamenti, beatitudini proviene. Illustrare tutto questo, mostrare la grande visione biblica e della continuità ecclesiale e sviluppare quindi, da questo punto di partenza, anche i singoli contenuti della morale, fu il programma proposto dal Concilio ai teologi.
E’ poi successa una cosa imprevista, forse non del tutto imprevedibile, ma in ogni caso imprevista.   C’erano inizialmente alcuni tentativi, anche importanti e validi, volti a rinnovare una teologia morale di ispirazione biblica, anche se naturalmente i contenuti concreti non potevano essere desunti letteralmente dalle Sacra Scrittura, ma piuttosto trovati nell’orizzonte della grande ispirazione biblica. Ben presto tuttavia questi tentativi si sono fermati, senza raggiungere veramente il loro scopo, senza portare alla nuova primavera tanto auspicata di una teologia morale profondamente cristologica e biblica.
Vale la pena di cercare i motivi di questo fallimento, perché non è stato causato da cattiva volontà ma fu conseguenza di problemi veri. Un primo problema molto reale è che nella Sacra Scrittura non si trovano risposte già pronte per i problemi attualissimi e gravissimi del nostro periodo e appare anche difficile, partendo dalla Sacra Scrittura sviluppare risposte adeguate alle sfide del nostro tempo.
Inoltre si prese coscienza, per essere presenti nel dialogo attuale e per incidere nella cultura odierna, che era necessario trovare un linguaggio adatto al mondo d’oggi e tipi di argomentazioni efficaci nel dibattito. Senza dubbio, se si pensa alle discussioni attuali sulla donazione, sulla procreazione artificiale, sulla contraccezione, sull’eutanasia e su tante altre questioni della bioetica è importante entrare realmente nel linguaggio e nel pensiero della comunità mondiale, che si vede confrontata con questi grandi problemi. E’ importante trovare argomenti comprensibili alla mentalità odierna e capaci di convincere. Anche da questo punto di vista la Bibbia appariva troppo lontana dal pensiero comune, inadatta a un’argomentazione pubblica, addirittura troppo assertoria per un dibattito che si svolge a livello umano e filosofico.
C’era inoltre una problematica che emerse proprio dalla stessa Scrittura. Essa, come sappiamo bene, non ci offre un sistema teologico e tanto meno un sistema di teologia morale, con una presentazione ordinata e sistematica dei grandi principi dell’azione. E’ al contrario un cammino, una storia le cui molteplici riletture convergono verso Cristo, il quale d’altra parte non può essere adeguatamente compreso se non ripercorrendo il cammino di tutte le narrazioni che confluiscono nella sua persona. Ma come è possibile capire adeguatamente questo cammino e trovare, nelle molteplici riletture che procedono verso Cristo, la sostanza permanente che può fungere da principio per l’agire cristiano? Una tale riconciliazione tra storia e verità è sempre un’impresa difficile.
Un’altra questione fu che la lettura della Sacra Scrittura entro anche nel contesto del dibattito ecumenico, trovandovi una situazione difficile. A questo proposito, senza voler entrare nelle differenze tra visione calvinista e visione luterana, vorrei soffermarmi soprattutto sulla prospettiva luterana, benché la prima non sia poi così differente. Secondo la concezione di Lutero, la Sacra Scrittura va interpretata a partire dalla dialettica tra legge e Vangelo e anche la vita cristiana dev’essere compresa precisamente in questa dialettica degli opposti, del Dio contrario a se stesso. In tale prospettiva, naturalmente, tutto ciò che è considerato come legge ricade nel versante negativo di quella dialettica che deve educarci al Vangelo ed accogliere il perdono radicale concessoci senza i nostri meriti.
Ma, una volta affermata questa dialettica tra legge e grazia, e conseguentemente la divisione interiore della stessa Sacra Scrittura, sgorgano come a cascata una serie di domande: “Ma che cos’è la legge?” e “la morale fa parte della legge e quindi di una realtà che è superata da Cristo, che non ha più valore perché era solo una pedagogia e una via per condurci al contrario di essa?”. “Il Decalogo fa parte anch’esso della legge ed è forse quindi proprio quella legge che è stata superata dalla grazia e dal Vangelo?”. “E quelle opere, che non possono meritarci la salvezza, vanno identificate con la nostra azione morale? E se è così, a cosa serve allora la nostra azione morale? Quale dignità teologica ha? Quale nesso con la figura di Cristo, se Cristo è Vangelo, mentre l’azione morale è opera nostra?”. Tutto questo trova un’espressione molto radicale in Lutero il quale, almeno in buona parte delle sue opere, colloca anche l’amore a livello delle opere. Per lui anche l’amore è un’opera nostra, così che non poteva accettare la celebre espressione della lettera ai Galati (5,6(: fides caritate operans. Infatti essa sembrava contraria  al principio della sola fides, che intende precisamente rifiutare l’idea della fede che opera mediante la carità. Ma, in tal modo, anche la carità diventa profana o almeno problematica. Che cosa è dunque la nostra azione morale? In che senso Cristo ispira il nostro agire morale? E’ vero che Lutero aggiunge poi: “Sì, la fede porta frutto e proprio nella fecondità della fede si mostra la verità della fede”. Ma qual è la relazione  tra questi “frutti della fede”  e le “opere” che non meritano? La morale ha una rilevanza solo profana o invece può essere integrata in una visione cristologica? Si deve riconoscere che il problema si complica terribilmente nel dibattito ecumenico e che quindi diventa difficile assumere la Sacra Scrittura come fonte ispiratrice e come principio per la costruzione dei fondamenti della visione morale.
    Si può così capire la vicenda della teologia morale post-conciliare, che ha portato a una radicale eterogenesi dei fini:  mentre si auspicava un rinnovamento della teologia morale nel senso di un superamento dell’impianto giusnaturalistico in favore di una più profonda ispirazione biblica, proprio la nuova teologia morale ha finito col marginalizzare la Sacra Scrittura in una forma anche maggiore rispetto alla manualistica preconciliare. Infatti, in quest’ultima la Sacra Scrittura era assente de facto, benché forse in teoria ci si volesse ispirare, pur senza riuscirvi. Invece ora essa è marginalizzata de iure: si ritiene cioè che la Sacra Scrittura non possa offrire principi morali adeguati alla costruzione delle nostre azioni. Essa offrirebbe solo un orizzonte intenzionale e delle motivazioni, ma senza entrare nei contenuti morali dell’agire. Questi ultimi sono lasciati alla razionalità propriamente umana. Si coglie qui il riflesso della concezione che intende l’azione morale come profana, AVENDO ISTITUITO UNA DIALETTICA TRA LEGGE E Vangelo: tale concezione si traduce nell’affermazione di una pura razionalità della morale, la quale, per aprirsi all’universale comunicabilità ed entrare nel dibattito comune dell’umanità, dovrebbe costruirsi unicamente sulla base della ragione. A questo proposito vengono anche addotte molteplici giustificazioni per questo nuovo ridimensionamento della Scrittura, la quale non è più il punto di partenza e di ispirazione permanente, il criterio fondamentale, ma solo un orizzonte di senso ininfluente nella determinazione del contenuto rigorosamente razionale dell’agire. L’analisi accurata della Sacra Scrittura, mediante il cosi detto metodo storico – critico, porterebbe a stabilire che non si può individuarvi nulla di propriamente cristiano o di essenzialmente solo biblico. Tutti i contenuti morali che appaiono nella Sacra Scrittura sarebbero stati assunti dal contesto culturale esteriore: non deriverebbero dalla fede abramitica o dall’ispirazione cristiana, ma proverebbero dall’esterno e sarebbero semplicemente incorporati nella Scrittura. Inoltre, si dovrebbe considerare il cambiamento dei differenti contesti culturali in cui si originò il testo biblico.
Queste tesi così diffuse sono però terribilmente superficiali e assolutamente insostenibili. Pur essendo vero che la Sacra Scrittura non intende proporre come esclusivi dei contenuti morali specifici e che essa è in dialogo con le culture umane alla ricerca dell’azione più giusta, tutto ciò non implica che non ci sia un’originalità. In effetti, l’originalità della Sacra Scrittura in ambito morale non consiste nell’esclusività dei contenuti proposti, bensì nella purificazione, nel discernimento, nella maturazione di quanto la cultura circostante proponeva. Se si paragonano le proposte morali che hanno offerto materiali alla Bibbia e il contenuto in essa espresso, si può osservare che la specificità  del contributo che la Sacra Scrittura offre alla moralità umana consiste precisamente in questo: il discernimento critico di ciò che è veramente umano perché ci assimila a Dio e la purificazione da quanto è disumanizzante, il suo inserimento in un nuovo contesto di senso, quello dell’Alleanza cioè della storia di amore di Dio, che eleva e porta a compimento l’umano. La vera novità e originalità della Scrittura è nel cammino di purificazione, di illuminazione  e di discernimento. In questo caso va respinta con nettezza la tesi della non – originalità della morale biblica. Va invece riconosciuta correttamente la novità, che consiste nell’assimilare il contributo umano, ma trasfigurandolo nella luce divina della Rivelazione, che culmina in Cristo, offrendoci così il cammino autentico della vita. Non va infatti dimenticato che il cristianesimo nei suoi inizi, si definì odos, una strada, un cammino: non una teoria, ma la risposta alla domanda “come vivere?” e “che cosa fare?”.
Un’altra argomentazione riguardava il problema della relazione tra storia e verità permanente, e ultimamente tra dimensione trascendentale e categoriale della morale. Il contributo della Sacra Scrittura sarebbe da collocare nella dimensione trascendentale e non in quella categoriale. Pur senza entrare nel dettaglio, mi sembra che questa distinzione sia applicata impropriamente e non compresa nel suo significato. In effetti, essa non può venir applicata alla questione morale, perché la domanda “come vivere?”, “come essere uomo?”, “come rispondere alla vocazione più profonda dono del Donatore divino, cioè alla vocazione ad essere simili a Dio?” non può essere ricondotta a una questione categoriale, distinguendo erroneamente tra livelli di conoscenza che possono fungere da criterio guida per le nostre azioni.
Questo è dunque il primo elemento che volevo rilevare: la marginalizzazione della Sacra Scrittura dalla teologia morale, giustificata de iure all’interno della teologia morale post-conciliare e non semplicemente praticata de facto, come avveniva nella manualistica. Testi biblici possono comparire anche in ambiti molto rilevanti e suggestivi all’interno delle trattazioni di teologia morale, ma la loro funzione, in riferimento alla costruzione dell’azione morale, è marginalizzata in linea di principio.
La concezione della ragione  
Un altro punto importante da considerare è il cambiamento profondo del concetto di ragione. Come si è accennato, la razionalità filosofica nel periodo preconciliare veniva sviluppato in riferimento alla categoria fondamentale del diritto naturale, della creazione, della metafisica. Ora invece il dibattito si svolge in un contesto non solo post-metafisico, ma anche a-metafisico, nel quale il tema della legge naturale, della creazione intelligibile nella natura appare come pertinente a un passato non più raggiungibile. Il concetto di intelligibilità dell’Essere nella natura è radicalmente mutato. Mentre per gli stoici essa indicava una realtà divina, connotata panteisticamente, per cui la natura stessa, piena di dei e di divinità, era pregna di indicazioni della volontà divina e del cammino alla divinizzazione, nel cristianesimo, mediante il concetto di creazione, la natura diventa trasparente delle intenzioni del Creatore: in essa si esprime il linguaggio del Creatore che si fa percepire mediante il creato, del Donatore divino percependo dono il proprio e altrui essere come di tutto il mondo che ci circonda.
Oggi invece, sia la concezione stoica, sia quella cristiana della creazione sono oscurate e sostituite per lo più da un evoluzionismo radicale, nel quale la natura non è più espressione della ragione creatrice, del Logos, ma di diversi fattori casuali cioè senza ragioni e libertà, necessitanti, che hanno contribuito a produrre il mondo in cui viviamo. Essa non ha quindi più nessuna necessità di trasparenza metafisica: la ragione umana ha smarrito la capacità di vedere nel mondo e in se stessa la trasparenza del diritto divino. E così questa ragione a-metafisica e post-metafisica diventa una ragione chiusa in se stessa, nella quale non appare la luce divina, che deve, da sola e con le sole sue risorse, trovare le vie da prendere, le azioni da fare e le decisioni da assumere. Come potrebbe una simile ragione post-metafisica costruire una concezione morale? Certamente non più riconoscendo principi morali iscritti nell’essere, perché nulla sarebbe scritto nell’essere, dal momento che l’essere è prodotto nella evoluzione, nel divenire. E non di meno, la ragione deve pur trovare dei riferimenti per prendere delle decisioni convenienti per la vita della persona e delle comunità e per il futuro dell’umanità.
Nasce così la morale consequenzialista, teleologista o proporzionalista che dir si voglia, la quale suppone una ragione post-metafisica, cieca, sorda, a una parola divina nell’essere. Essa cerca il miglior modo di costruire il mondo mediante il calcolo delle conseguenze. Indica ciò che si deve fare secondo questo criterio e così ovviamente cambia la relazione tra intenzione, creatività della coscienza e oggetto. Infatti l’oggetto dell’azione è in sé mutevole e dev’essere contestatualizzato per poter significare qualcosa. Con la negazione dell’esistenza di principi iscritti nell’essere  della natura scompare naturalmente anche la stessa possibilità dell’intrinsece bonum aut malum. Nulla è intrinsece bonum o intrinsece malum, perché tutto dipende dal contesto e dalle finalità che devono essere realizzate.
Si è pervenuti così ad una teoria che contraddice i fondamenti stessi della visione cristiana, la quale prende il suo punto di partenza proprio dal linguaggio del Creatore, che si fa poi percepire in un modo nuovo e definitivo nella persona di Cristo che mi rivela contemporaneamente chi è Dio e chi è ogni uomo che Dio ama fino al perdono.
Le ripercussioni di queste concezioni divennero visibili soprattutto a partire dal dibattito successivo alla pubblicazione dell’Enciclica Humanae vitae, nel quale si giunse alla negazione dell’autorità del Magistero di Paolo VI in continuità con tutta la Tradizione, quella della Casti connubi in particolare su questioni concrete di morale e all’assolutizzazione della coscienza soggettiva emancipata dal riferimento ecclesiale, oggi non a livello di dottrina ma nei singoli casi proponendo una creatività della coscienza ad opera dello Spirito Santo.
L’intenzione profonda di “Veritatis splendor”
Precisamente di fronte a una tale inversione della visione cattolica, sia quanto all’uso della Bibbia, sia quanto alla definizione di ragione, è intervenuto il Santo Padre nell’Enciclica Veritatis splendor. Considerando il panorama appena delineato, appariva necessario ritornare al Concilio Vaticano II. La situazione paradossale fu che proprio questa visione innovativa, che proponeva un nuovo modo di riferimento alla Sacra Scrittura o anche, per parlare più francamente, la sua marginalizzazione e un nuovo concetto di ragione, pretendeva di accreditarsi  come l’autentica eredità del Concilio, la sua realizzazione concreta. Invece, considerando i testi (non arbitrariamente il cosi detto spirito del Concilio) le intenzioni fondamentali del Vaticano II risulta evidente che questa non era affatto la volontà del Concilio, anzi, che con ciò si era arrivati proprio alla posizione opposta a quanto da esso auspicato. Ma allora, proprio nel nuovo contesto in cui ci troviamo, si tratta di realizzare il mandato conciliare, ripensando come possa essere attuale oggi e ragionevolmente plausibile nel nostro tempo. La grande visione del Concilio esigeva di essere ripensata nei suoi fondamenti, ma anche verificata e rinnovata di fronte a problemi radicali.
Guardando al modo con cui fu recepita l’Enciclica Veritatis splendor,  la mia delusione – Ratzinger –non derivò tanto dal fatto che essa diede occasione a molte critiche (venendo dalla Germania è per me cosa normale che anche documenti pontifici siano oggetto di critica), ma piuttosto dal fatto che non si sia entrati in questo grande dibattito circa i principi della morale, circa questa grande e rinnovata visione nello stesso tempo cristologica e razionale, perché Cristo è il Logos creatore, capovolgendo la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso, all’a-metafisica e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene. Non si è voluti entrare in dibattito sulla grande sfida circa la visione complessiva della morale. Ma ci si è limitati a una discussione su dettagli, difendendosi contro la presentazione del consequenzialismo  accusando l’Enciclica di essere semplicistica e caricaturale. Un tale dibattito su dettagli tecnici può anche avere una sua utilità, ma non è certo la risposta voluta, giusta e necessaria alla sfida che Veritatis splendor propone ai moralisti e che ultimamente a un approfondimento dello stesso mandato conciliare a livello pastorale. La mia prospettiva sarebbe che, a dieci anni dalla sua pubblicazione, si cominciasse finalmente a confrontarsi con questa grande sfida posta alla teologia morale  dall’Enciclica, sulla quale vorrei dire qualche parola.
In primo luogo, come ci dice il Santo padre, riconoscere la centralità della figura  di Cristo implica la vera riconciliazione tra storia e ragione, tra rivelazione soprannaturale attraverso un popolo e ragione, perché Cristo non è un personaggio qualsiasi nella storia che risulti estraneo alla riflessione del pensiero umano. Cristo è invece il Logos fatto carne, cioè la pienezza della stessa ragione creatrice, che ci parla e ci apre gli occhi per poter vedere di nuovo, anche nell’oscurità di un’epoca post metafisica o a-metafisica, la presenza di una verità creatrice che sta al fondo dell’essere e che con il suo linguaggio parla anche nell’essere. E così in Cristo confluiscono in unità i cammini della storia: Egli purifica e discerne quanto la storia ha espresso e ci mostra quindi come la storia si riferisca alla verità, indicando la strada che vi conduce proprio lungo la via che Egli steso è. E’ possibile in questo orizzonte coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. E’ questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura anche pastorale affascinante nella quale merita spendersi, per dare di nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede e alla morale cristiana piena cittadinanza.
In secondo luogo vorrei affrontare – sempre Ratzinger – brevemente il problema dell’autonomia, sul quale hanno tanto parlato le trattazioni di teologia morale dopo il Concilio Vaticano II. Sono dell’opinione che questo concetto di autonomia, che Kant ha presentato in forma coerente e sistematica in contrapposizione al concetto di eteronomia, non sia stato adeguatamente assimilato nei dibattiti post-conciliari. In essi ha smarrito la profondità e la linearità del pensiero kantiano, non riuscendo peraltro a conciliarsi con la grande visione cristologica   nella quale la meta non é la norma, come in Kant,  ma la persona vivente del Risorto nella memoria evangelica di Gesù.
Ma qual è la concezione corretta di autonomia, in accordo con la visione cristiana dell’uomo? La prima certezza da custodire è che l’uomo non si è creato da solo: egli è una creatura, un  dono irripetibile del Donatore divino nel proprio e altrui essere come di tutto il mondo che lo circonda. Fuori di questa verità creaturale che rende liberi, tanto sottolineata dal Concilio, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza della stessa cultura moderna democratica, che era una rivendicazione metafisica della centralità dell’uomo, di ogni persona e della sua libertà. Non però illuministicamente per se stesso il dio che determina da solo che cosa sia il mondo e che cosa debba fare nel mondo. E’ una creatura che vive in forza di una dipendenza, la quale, grazie all’amore di Dio misericordioso, diventa partecipazione: è unione di amore nell’amore. Se si vuol definire l’amore come dipendenza, allora si può dire che si tratta di dipendenza, ma in realtà l’amore va al di là di questo concetto di dipendenza e ci rivela che proprio la relazionalità  è la vera forma di partecipazione all’essere stesso e alla sua luce trinitaria. Perciò, vivere nella comunione con Dio e trovare nella luce divina il proprio cammino, trovarvi la via, la verità e la vita, non è per l’uomo un’alienazione, non è eteronomia, ma piuttosto ritrovare se stesso nella sua vera identità di dono nel proprio e altrui essere del Donatore divino. Sant’Agostino ci insegna che Dio è intimior meo  e che, quindi, obbedendo e unendomi a Dio in Cristo, non esco da me stesso in un’eteronomia e in una dipendenza inaccettabili, in una schiavitù. Al contrario, proprio così trovo la mia intimità e la mia identità personale che fino a quel momento restava chiusa nel peccato nella solitudine dell’autoriferimento infernale. Mediante la comunione con Cristo posso ritrovare me stesso ed, entrando in me stesso, trovare Dio e la mia theosis, la mia vera  essenza, la mia vera autonomia. Proprio rinunciando all’autodeterminazione individualistica si entra nell’intimo del proprio essere dono del Donatore divino, mediante la comunione con Cristo. Così si diventa se stessi e trovando l’autentica comunione con Dio si raggiunge la vera libertà con la possibilità di essere amati e di amare. In tale senso, anche il concetto di libertà, così centrale per la Sacra Scrittura e per il dibattito con la modernità, va letto nella visione cristologica dell’uomo, che è libero non quando si difende contro Dio ma quando accetta l’unione con Dio, offertagli in Cristo. La libertà umana è sempre una libertà condivisa e solo nella condizione delle libertà può crescere la vera libertà di ciascuno. La condizione delle libertà diventa possibile nell’apertura della nostra libertà alla libertà divina che attrae ma non costringe mai.
 In terzo luogo occorre ritrovare l’autentico significato della coscienza superando il soggettivismo moderno. Per la modernità, l’ambito della religione e della morale è ricondotto alla sfera soggettiva, in quanto in una concezione  evoluzionistica post-metafisica o a-metafisica, non creaturale non si possono reperire elementi oggettivi di religione e di morale, che quindi vengono ricondotti a un completo o parziale soggettivismo con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso sempre. Al di là del soggetto non si aprono strade e orizzonti ulteriori. Così la competenza ultima del soggetto, che non può trascendere se stesso e rimane chiuso in se stesso, si esprime in una certa concezione di coscienza, per cui ogni uomo è misura di se stesso in generale o in casi particolari. Per quanto possa servirsi di aiuti e criteri al di là di sé, in realtà è la coscienza soggettiva creativa che ha l’ultima e decisiva parola sempre o in particolari circostanze. Il soggetto diventa  quindi realmente autonomo, ma in una forma cupa e terribile, perché gli manca quella luce che potrebbe realmente dare valore  oggettivo alla sua soggettività. Questa concezione che chiude il soggetto in se stesso come ultimo criterio di giudizio è superata dal concetto classico di coscienza, che esprime invece l’apertura dell’essere umano alla luce divina, alla voce dell’altro, al linguaggio dell’essere, al Logos eterno, percepibile nell’interiorità stessa del soggetto. Mi sembra quindi necessario ritornare a questa visione dell’essere umano come aperto all’infinito, nel quale traspare e parla la luce infinita per cogliere e non per creare la verità.
L’orizzonte teologico della morale
 Vorrei – Ratzinger – spendere ancora una parola: in tal modo l’orizzonte cristologico è veramente un orizzonte teologico; senza Dio infatti, senza un’intelligenza metafisica della natura non si può costruire una morale con principi che siano validi e vincolanti per se stessi. Anche il Decalogo, che è senza dubbio l’asse morale della Sacra Scrittura, e che è così importante nel dibattito interculturale, non va inteso innanzitutto come legge, ma piuttosto come dono: è Vangelo, e si può comprendere pienamente nella prospettiva che culmina in Cristo amando Dio con tutta la mente e con tutto il cuore e il prossimo come se stessi; non è quindi una realtà di precetti definiti in se stessi come scopo ma una dinamica aperta ad un approfondimento sempre più grande, personale. Nel Decalogo poi è importante non solo la seconda tavola, che è molto concreta e ci può aiutare nelle discussioni attuali, ma anche la prima tavola, da cui non si può prescindere per una ermeneutica adeguata dei comandamenti. Infatti nella Sacra Scrittura tutto il Decalogo è considerato come autorivelazione di Dio. Esso comincia sempre con le parole “Io sono Jahwe, tuo Signore” cioè Donatore del tuo essere dono e di ogni bene e, mediante le dieci parole sono una concretizzazione, un’articolazione dell’unico comandamento dell’amore. A quest’unico comandamento dell’amore appartiene  anche l’amore di Dio e il nostro culto verso di Lui, in modo tale che senza questo fondamentale riferimento a Dio anche la seconda tavola non funziona. Credo quindi che, per la teologia morale, il momento razionale, metafisico sia di grandissima importanza. Proprio perché il cristianesimo come tale, il Vangelo e in particolare la morale, vuole comunicarsi e deve essere comunicabile a tutti, esige di entrare nel dibattito comune dell’umanità. Ma proprio a questa dimensione razionale appartiene anche l’esistenza di Dio. Non si può cedere su questo punto: senza Dio anche tutto il resto non ha più coerenza logica cioè umana.
Da ultimo, vorrei rimarcare l’importanza della tematica del martirio che è trattata nel numero 90 dell’Enciclica. E’ nel martirio che si realizza, nel senso più pieno, la sequela di Cristo crocefisso. In esso appare che esiste un bene per il quale vale la pena anche di morire. In realtà, una vita che non riconosce più un bene che le dia valore, non è più una vera vita. Così l’affermazione di comandamenti assoluti, che prescrivono ciò che è intrinsece malum, non significa sottomettersi alla schiavitù di alcune proibizioni ma l’aprirsi al grande valore della vita, che viene illuminata dal vero bene, cioè dall’amore di Dio stesso. Lungo tutta la storia umana i martiri rappresentano la vera apologia dell’uomo e dimostrano che la creatura umana non è un fallimento del Creatore, ma che, pur con tutti gli aspetti negativi verificatasi nella storia, essa è realmente illuminata dal Creatore. Nella testimonianza fino alla morte, si dimostra la forza della vera vita e dell’amore divino. Così proprio i martiri ci indicano anche a un tempo la strada per capire Cristo e per capire che cosa significhi essere e agire da uomini.

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