Contemplando Gesù sulla Croce
Contemplando Gesù sulla Croce e meditando le sue ultime parole e gesti
La prima parola di Gesù sulla Croce: “Padre perdona loro”
La prima parola di Gesù sulla Croce, pregata durante l’atto di crocefissione, è la richiesta del perdono per coloro che lo trattano così: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Ciò che il Signore ha predicato nel discorso della montagna lo compie qui personalmente
perché noi possiamo assimilarci a Lui in circostanze simili. Egli, pur denunciando l’atto orribile, non giudica la persona che lo crocefigge e quindi non consente lo svilupparsi in se alcun odio, nessuna esclusione. Non grida vendetta verso coloro che lo crocifiggono. Implora perdono per quanti lo mettono in croce e motiva questa richiesta anche sull’infinitesimo della discolpa: “Non sanno quello che fanno”.
Si assimila a Lui anche san Pietro negli Atti degli Apostoli. Egli ricorda alla folla riunitasi dopo la guarigione nel nome di Gesù dello storpio nel portico di Salomone: “Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti” (3,14s), come primizia della nostra risurrezione in attesa della quale sentiamo necessario giudicare e fare le nostre scelte morali personali ed etiche sociali per essere sereni e sicuri nel già di questa vita in attesa del di più, del compimento oltre questa vita.
Prima di ogni preghiera personale e comunitaria occorre l’atto penitenziale per l’efficacia cioè pulire il nostro intimo da ogni atteggiamento di pensieri, volontà, sentimenti di rottura verso il prossimo, verso chi ci può aver fatto del male ricordando come san Paolo che diversamente da Gesù lui stesso è stato “un bestemmiatore, un persecutore e un violento”; poi però prosegue: “Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede” (1 Tm 1,13). Non siamo lontani ritenendo che è la situazione della maggior parte della gente oggi. San Paolo ricorda il suo precedente orgoglio di perfetto alunno della Legge, che conosceva con l’illusione di poter adempiere la Scrittura farisaicamente solo con le proprie forze, vantandosi migliore degli altri, senza l’aiuto necessario di Dio che ha assunto un volto umano: egli aveva studiato con i maestri migliori e poteva reputare se stesso un vero scriba, un intellettuale, migliore degli altri. Guardandosi indietro deve riconoscere di essere stato ignorante, addirittura un sepolcro imbiancato apparendo di più di quello che riusciva. Ma per la misericordia di Gesù Cristo è stata proprio l’ignoranza finalmente colta a salvarlo e renderlo disponibile alla conversione cioè al cambiamento di mentalità e al perdono. Con un atteggiamento di sapere orgoglioso, autosufficiente, senza umiltà non è possibile cogliere la stessa verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza sul sapere da dove si viene, a cosa si è destinati nell’anima e nel corpo, chi ci perdona, ci ricrea dandoci la possibilità di ricominciare verso la vita veramente vita che nel cuore ogni uomo, comunque ridotto, desidera.
E’ sempre più evidente questo connubio di tanto sapere e di ignoranza sulle risposte alle domande fondamentali che rendono liberi, capaci di amare e di essere amati cioè felici anche nelle tribolazioni. Il rischio di tante conoscenze positive e di tanta incomprensione della verità che libera è in agguato in ogni tempo ma oggi è accentuata con il secolarismo. Non rischiamo forse di essere ciechi pur con tante conoscenze? Proprio a causa del conoscere tante cose siamo incapaci di riconoscere, di aver sempre presente la verità del nostro e altrui essere dono del Donatore divino, come di tutto il mondo che ci circonda? Non ci sottraiamo forse al dolore provocato dall’assenza di verità, quindi di libertà, di capacità di amare – quella verità che è Cristo di cui Pietro ha parlato nella sua predica di Pentecoste? Non è semplicemente una scusante ma un soccombere alla tentazione del Serpente antico che oscura la coscienza provocando una ottusità di cuore e una incapacità di rapporti sociali. Quanto è utile per la evangelizzazione in tutti i tempi e per tutti gli uomini memorizzare in questo secolarismo che il Crocefisso, a riguardo di coloro che veramente non sapevano e lo avevano condannato, la memoria dell’ignoranza quale motivo di richiesta al Padre del perdono! Quanto è importante che i pochi che ancora credono, che sono praticanti non puntino il dito verso i molti ma si assimilino al Crocefisso: Padre perdonali…non sanno quello di cui non sono coscienti, che addirittura rifiutano.
Gesù deriso
Appaiono nel Vangelo tre gruppi di beffeggiatori. Come primi i passanti egemonizzati dal pensiero comune. Essi ripetono al Signore la parola riguardante la distruzione del Tempio che si era fatta diffondere contro di Lui: “Ehi, tu che distruggi il Tempio e lo costruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla Croce!” (Mc 15,29s), fa spettacolo, imponiti operando cose straordinarie. Le persone si fanno beffe del Signore., esprimono con ciò il loro disprezzo per l’impotente crocefisso che aveva dichiarato di attirare liberamente con amore senza imporre, gli fanno sentire, pesare la sua illusione cioè l’apparente impotenza immediata della via della persuasione, dell’amore. Al tempo stesso vogliono indurlo in tentazione come Messia, come aveva fatto il Diavolo nel deserto: “Salva te stesso!”. Serviti del tuo potere divino adesso che non hai più alcun potere umano, alcuna via umana. Ignorano che proprio in questo momento si realizza la fine del Tempio voluto da Dio in attesa dell’Incarnazione del Figlio in un volto umano e che risorto, asceso al cielo con il suo corpo, con il farsi sacramentalmente presente in continuità, in tal modo avviene il nuovo Tempio del suo corpo trasfigurato con la risurrezione in spirito e verità che si fa sacramentalmente presente tra i suoi, suo corpo che è la Chiesa, il nuovo Tempio della Nuova Alleanza, della Nuova storia di amore.
Alla fine della passione, con la morte di Gesù, il velo del tempio si squarcia in due – così raccontano i sinottici – da cima a fondo (Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45). Probabilmente s’intende, dei due veli del tempio, quello interno, il velo cioè che impedisce alla gente l’accesso al Santo dei Santi. Una sola volta all’anno il sommo sacerdote può passare attraverso il velo, comparire al cospetto dell’Altissimo e pronunciare il santo nome di Lui. Adesso, nel momento della morte di Gesù, questo si squarcia da cima a fondo. Con ciò si allude a due cose: da una parte diventa evidente che l’epoca del vecchio Tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro dei veri adoratori in Spirito e Verità, subentra la realtà stessa, il Gesù crocefisso che riconcilia tutti noi con il Padre attualizzando sacramentalmente il Calvario in ogni tempo e luogo con la celebrazione eucaristica che rende Tempio ogni luogo dove si celebra. Ma al contempo, lo squarciarsi del velo del Tempio significa che ora è aperto a tutti l’accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all’anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui per tutti. Ora Dio stesso assumendo un volto umano ha tolto il velo, nel Crocefisso si è manifestato e si manifesta come Colui che ci ama fino al perdono, fino alla morte facendola passare come esodo definitivo alla vita veramente vita anche del corpo.
Il secondo gruppo di beffeggiatori è composto dai membri del sinedrio. Matteo menziona tutti tre i raggruppamenti: sacerdoti, scribi e anziani. Essi formulano la loro espressione di scherno in connessione con il Libro della Sapienza, che nel secondo capitolo parla del giusto che è di ostacolo alla vita degli altri, chiama se stesso figlio di Dio e viene consegnato alla sofferenza (Sap. 2,10-20). Riallacciandosi a quelle parole, i membri del sinedrio dicono adesso a Gesù: “E’ il re d’Israele; scenda ora dalla Croce e crederemo in Lui. Ha confidato in Dio; lo liberi Lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27,42s; Sap 2,18). Senza accorgersene, gli schernitori riconoscono con ciò che Gesù è veramente Colui di cui parla il Libro della Sapienza. Proprio nella situazione dell’esteriore impotenza, Egli si rivela come il vero Figlio di Dio che nella sua realtà umana non cede alla tentazione di imporsi facendo spettacolo e chiedendo per sé miracoli dal Padre. Proprio nella derisione il mistero di Gesù Cristo si dimostra vero. Come non si è lasciato indurre dal Diavolo di buttarsi giù dal pinnacolo del Tempio (Mt 4,5-7; Lc 4,9-13), così ora non cede a questa tentazione. Egli sa: Dio stesso lo salverà – ma in maniera diversa da come qui questa gente lo immagina. La risurrezione sarà il momento in cui Dio lo libererà dalla morte e lo accrediterà come Figlio di Dio che continuerà a farsi presente sacramentalmente ad operare per far risorgere anche noi.
Il terzo gruppo di beffeggiatori è costituito da coloro che sono stati crocefissi insieme con Lui e che da Matteo e Marco sono caratterizzati con la stessa parola lestes (briganti)con cui Giovanni caratterizza Barabba (Mt 27,38; Mc 15,27; Gv 18,40). E’ chiaro che così essi sono qualificati come combattenti per la resistenza ai Romani, per criminalizzarli, aveva dato semplicemente il titolo di “briganti”. Vengono crocefissi insieme con Gesù, perché dichiarati colpevoli dello stesso reato di resistenza violenta contro il potere romano. In Gesù, però, il genere di delitto è diverso che nei due, che forse avevano partecipato con Barabba alla insurrezione. Pilato sa bene che Gesù non aveva in mente una cosa del genere, e così, nell’iscrizione per la croce, definisce il “reato” in maniera particolare: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei” (Gv 19,19). Fino a quel momento, Gesù aveva evitato il titolo di Messia o Re, ovvero l’aveva subito connesso con la sua passione ( Mc 8, 27.31) per impedire interpretazioni errate. Ora il titolo di re può apparire davanti a tutti. Nelle tre grandi lingue di allora Gesù viene pubblicamente proclamato re. E’ comprensibile che i membri del sinedrio per questo titolo in cui Pilato sicuramente vuole esprimere il suo cinismo contro le autorità giudaiche e, se pur in ritardo vendicarsi di loro. Ma tale iscrizione che equivale ad una pubblica proclamazione a re sta ora davanti allo storia del mondo attirando per amore. Gesù è stato “elevato”. La Croce, che rivela di Dio la larghezza (non esclude nessuno), la lunghezza (nessuna difficoltà lo vince), l’altezza (figli nel Figlio), la profondità ( condivide fino in fondo tutte le nostre miserie), del suo amore che attira e non costringe perché senza il rischio del libero arbitrio, del no non c’è possibilità di una risposta di amore al suo amore. La Croce è il suo trono per attirare tutti e tutto. Da questo luogo regale egli domina come il vero re, a modo suo – nel modo che né Pilato, né i membri del sinedrio avevano potuto comprendere.
Non entrambi gli uomini crocifissi con Lui si associano alla derisione. Uno dei due intuisce il mistero di Gesù cioè la sua realtà divinamente umana. Sa e vede che il genere di “delitto” di Gesù era del tutto diverso; che Gesù era un non violento. E ora si accorge che quest’uomo crocifisso con loro veramente rende visibile il volto di Dio, è il Figlio di Dio in un volto umano Così prega: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42), Regno che non è un al di là immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno si fa presente anche in quel momento là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge come per il buon ladrone. La risposta di Gesù, come è proprio di Dio, va oltre la richiesta. Al posto di un futuro indeterminato pone il suo “oggi”: “Oggi sarai con me in paradiso” (23,43). Anche questa parola è piena di mistero cioè di amore divino-umano, ma vi mostra con sicurezza una cosa: Gesù sapeva di avviare con la Croce una nuova storia di amore tra l’umanità e il Padre, una nuova e definitiva alleanza – che poteva promettere il “paradiso ogni bene senza più alcun male per l’anima e per il corpo” già “oggi”, già in quell’ora. Sapeva di poter ricondurre ogni uomo, comunque ridotto, in paradiso dal quale era decaduto: in quella comunione con Dio, in quella nuova storia di amore con il Padre in cui è la vera salvezza di ogni uomo. Così nella storia della devozione cristiana il buon ladrone è diventato l’immagine della speranza – la certezza consolante che la misericordia di Dio può raggiungerci anche nell’ultimo istante per tutti i peccati non ancora perdonati dal Sacramento della Riconciliazione, anzi, che dopo anche una vita sbagliata, la preghiera che implora la sua bontà non è vana. “Tu che hai esaudito il ladrone a me hai dato speranza”, prega ad esempio il Dies irae.
Il grido di abbandono di Gesù
Matteo e Marco ci raccontano concordemente che, all’ora nona, Gesù esclamò a gran voce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34). Essi trasmettono il grido di Gesù in una mescolanza di ebraico e aramaico e lo traducono in greco. Questa preghiera di Gesù ha stimolato e stimola sempre nuovamente l’interrogarsi e il riflettere dei cristiani: come poteva il Figlio di Dio che ha assunto un volto umano sentirsi abbandonato da Dio? Che cosa significa questo grido che fa parte del Vangelo? Non è un qualsiasi grido di abbandono. Gesù prega il grande Salmo di Israele sofferente e assume su di Sé tutto il tormento non solo di Israele, ma di tutti gli uomini che soffrono in questo mondo per il nascondimento di Dio e per l’assalto continuo del Maligno. Egli porta davanti al cuore di Dio stesso attraverso la sua realtà umana il grido di angoscia del mondo tormentato dall’impressione che Dio sia assente. Si identifica con l’Israele sofferente, con l’umanità che soffre a causa del “buio di Dio”, assume in sé ogni grido, ogni tormento, ogni bisogno di aiuto e con ciò, al contempo, li trasforma in una possibilità meravigliosa. Il Salmo 22 pervade tutto il racconto della Passione e va al di là di esso. L’umiliazione pubblica, lo scherno e lo scuotere il capo dei beffeggiatori, i dolori, la terribile sete, la trafittura delle mani e die piedi, il sorteggio, pubblicamente completamente denudato, dei vestiti – l’intera Passione in tale Salmo è raccontata in anticipo. Mentre Gesù prega le parole iniziali del Salmo è però, già presente il tutto di questa preghiera – anche la certezza dell’esaudimento che si manifesterà nella risurrezione, nel formarsi della “grande assemblea” e nell’appagamento della fame dei poveri (vv. 25ss). Il grido nell’estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, certezza della salvezza – non soltanto per Gesù sesso nel suo volto umano, ma per “molti” che la vivono con Lui.
Certo, sono parole molto personali di Gesù, sviluppatesi come uomo in tutto uguale a noi nella lotta con Dio, ma parole alle quali, tuttavia, sono associati in preghiera tutti i giusti che soffrono, tutto l’Israele, anzi l’intera umanità in lotta, e perciò la preghiera di questi salmi nel Venerdì Santo, nella Liturgia della Passione di Gesù Cristo abbracciano sempre il passato, il presente e il futuro. Stanno nel presente della sofferenza e, tuttavia, portano già la certezza del dono dell’esaudimento, della trasformazione come il racconto evangelico della Passione secondo Giovanni ci fanno vivere: oh la Liturgia del Venerdì Santo, il bacio del Crocefisso! E’ Cristo che prega insieme come Capo e come Corpo. Prega come “Capo” – come Colui che ci unisce tutti in un soggetto comune e ci accoglie tutti in sé. E prega come “Corpo”, ciò significa che la lotta di tutti contro il demonio che divide, di Satana che spinge all’odio, del serpente antico che oscura la coscienza, del Dragone contro la creazione, le nostre proprie voci, la nostra tribolazione che con gli anni può aumentare con la nostra speranza sono presenti nel Venerdì Santo. Noi stessi siamo oranti con questo salmo in comunione con Cristo. E a partire da Lui, passato, presente e futuro sono sempre uniti: Oh la Celebrazione della Passione del Signore il Venerdì Santo!
Sempre di nuovo ci troviamo nell’abissale oggi della sofferenza. Sempre, però, anche la risurrezione e l’appagamento dei poveri avvengono già “oggi” sacramentalmente nella Veglia del Sabato Santo. In una tale prospettiva non viene cancellato niente dell’orrore della Passione di Gesù e non dobbiamo diminuire l’importanza della Liturgia del Venerdì Santo per quella della Veglia del Sabato Santo. Al contrario: aumenta, perché la sofferenza di Gesù non è soltanto individuale, ma porta realmente in sé la tribolazione di tutti noi, soprattutto di chi soffre di più. Ma al tempo stesso, com’è la celebrazione del Venerdì Santo, è una Passione messianica – un soffrire di Gesù con noi, per noi; un essere con che deriva dall’amore e così porta in sé la redenzione, la vittoria, il futuro dell’amore.
Oggi l'ho ascoltata al Santuario della Madonna della Salute a Dossobuono... mi è stato di grande conforto... grazie grazie grazie..
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