L'erosione dell'ordinamento sacramentale cattolico in Germania
Commento al comunicato stampa della Conferenza Episcopale Tedesca del 1
febbraio 2017
Di Christian Spaeman
in Corrispondenza Romana del 14 marzo 2017
E
così ci si è arrivati. I vescovi tedeschi hanno fatto qualcosa di cui non
avevano assolutamente la potestà: hanno indebolito l’ordinamento sacramentale
della Chiesa cattolica. I fedeli in situazioni irregolari, vale a dire in
relazioni sessuali stabili al di fuori di un matrimonio sacramentale, avranno
la possibilità di ricevere i sacramenti. Quel che qui conta è «rispettare
… la loro decisione di ricevere i sacramenti». I sacerdoti che si attengono
alla prassi sinora in vigore, secondo il documento dei vescovi, dovranno far
cadere la
tendenza a un «giudizio sbrigativo» e a un «atteggiamento rigoristico
ed estremo». I vescovi hanno fatto propria la logica di un falso concetto di
misericordia, con conseguente caricatura di coloro che seguono il magistero
della Chiesa cattolica e la sua intrinseca ragionevolezza.
Nel
loro documento i vescovi tedeschi violano delle norme chiare, che numerosi
papi, in particolare Giovanni Paolo II, e il Catechismo della Chiesa Cattolica
hanno stabilito in maniera inequivocabile in linea con tutta la tradizione
magisteriale della Chiesa. Il richiamo dei vescovi all’esortazione postsinodale
“Amoris Laetitia” di papa Francesco, non giustifica questo modo di procedere,
dal momento che essa deve essere interpretata alla luce della tradizione.
Diversamente, non le si dovrebbe prestare la propria sequela, dal momento che
il Papa non sta al di sopra della tradizione magisteriale della Chiesa.
Nella
sostanza, il punto è che, secondo l’insegnamento della Chiesa, vi sono norme
che valgono senza eccezioni e non sono soggette a valutazioni particolari, che
possano, cioè, essere decise caso per caso in maniera diversa. Ciò rientra
nella natura stessa della persona umana, cui compete una dignità che impone
determinati limiti nell’approccio con se stessi e con gli altri. Rientra qui la
sessualità umana, che non può essere strumentalizzata o vissuta al di fuori di
certi contesti, senza ferire la propria dignità o risultare colpevole,
indipendentemente da come debbano essere valutate le circostanze soggettive e,
quindi, la colpa personale. Se qualcuno, per esempio, ha un disturbo cerebrale
organico, a causa del quale non può governare i suoi affetti e in conseguenza
del quale continua a insultare sua moglie, egli, malgrado questo fatto, finisce
lo stesso per macchiare la sua relazione con lei e continuerà a provare
dispiacere per come la tratta, anche se non può farci nulla o quasi nulla.
La
sessualità umana può essere intesa solo a partire dal suo significato. Secondo
la concezione cristiana, essa è espressione della comunione tra uomo e donna,
su un piano biologico, corporeo, spirituale e personale, «un simbolo reale
della donazione di tutta la persona» (Giovanni Paolo II, esortazione
postsinodale “Familiaris Consortio” (FC 80). Della
persona nella sua integralità fanno parte il passato e il futuro e, pertanto,
la donazione di tutta la persona è possibile solo nel pieno coinvolgimento del
suo passato e del suo futuro, così come si esprime nel Sì del matrimonio. Per
questa ragione la Chiesa colloca da sempre la sessualità della persona umana
nel contesto del matrimonio, come l’unico luogo, dove essa può essere vissuta
in corrispondenza con la dignità che Dio ha voluto per essa. Si tratta di un
comandamento e non di un ideale, come, invece, si continua a chiamarlo. Ogni
esercizio della sessualità che non corrisponda a questo comandamento
costituisce, oggettivamente, una separazione della persona interessata dalla
sua vocazione, vale a dire, un peccato. Su questo non ci sono eccezioni. Allo
stesso modo, i metodi artificiali, che hanno come scopo impedire il
concepimento, violano sempre la dignità dell’atto sessuale, perché i partner,
in qualche modo, finiscono per considerarsi reciprocamente come oggetto, anche
qualora si fosse in presenza di circostanze difficili e i partner fossero sicuri di
avere delle buone intenzioni l’uno verso l’altro. Il linguaggio del corpo
costituisce, infatti, una realtà oggettiva, che non si può travalicare mediante
un atteggiamento soggettivo. Si è qui di fronte al cosiddetto “actus intrinsece
malus”. Con questa espressione si intendono atti o contesti di atti che, in
nessun caso, possono essere definiti come buoni. Tommaso d’Aquino ha elaborato
questo concetto e Giovanni Paolo II lo ha fissato come magistero vincolante
della Chiesa nella sua enciclica “Veritatis Splendor” (VS 79). In base ad esso
«le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto
intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente”
onesto o difendibile come scelta» (VS 81). Questo principio vale in maniera
specifica per la sessualità umana.
Un
punto decisivo nell’attuale confusione riguardo al magistero ecclesiale in
questo ambito sta nella lettura riduttiva delle affermazioni di Giovanni Paolo
II nella sua enciclica “Familiaris Consortio” (FC 84). Essa è emersa anzitutto
nella Relatio del gruppo sinodale di lingua tedesca, del 21 ottobre 2015, e,
successivamente, ha trovato accesso nel documento conclusivo del sinodo. Essa è
stata ripetuta in numerose presi di posizione di vescovi e cardinali e ha
trovato espressione in AL, ripresentandosi oggi nell’ultimo comunicato stampa
della Conferenza Episcopale Tedesca. Che cosa è accaduto? Nell’articolo 84 FC,
trattando dei divorziati risposati, si afferma che si devono «ben distinguere
le diverse situazioni». In questo passo si citano alcune motivazioni, umanamente
comprensibili, per cui delle persone sposate, dopo una separazione, avviano una
nuova unione. È chiaro che all’allora pontefice premeva richiamare il lato
soggettivo delle situazioni coinvolte e una valutazione della responsabilità
morale che doveva essere applicata in maniera differenziata ai singoli casi, in
maniera tale da sensibilizzare il clero a una pastorale attenta e discreta.
Proprio qui, però, c’è il punto decisivo: Giovanni Paolo II non ne
deduce affatto che nei singoli casi di colpa soggettiva diminuita o superata
sia possibile l’accesso ai sacramenti. Al contrario, poche righe più sotto
introduce con un chiaro “Nihilominus …” il limite della situazione oggettiva di
disordine che vale per tutti coloro che vivono in una tale situazione: «La
Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi,
fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i
divorziati risposati. Viene, poi, una precisazione decisiva: i
divorziati risposati sono da ammettere ai sacramenti solo se «assumono
l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri
dei coniugi».
Il
linguaggio del corpo nella sessualità non può, dunque, essere travalicato
semplicemente mediante delle circostanze attenuanti né una situazione oggettiva
di peccato può essere legittimata mediante l’amministrazione dei sacramenti.
Una differenziazione per casi singoli non è qui possibile. Questo insegnamento
e l’ordinamento sacramentale che ne risulta, in accordo con tutta la tradizione
magisteriale della Chiesa, è stato espressamente confermato nei successivi
documenti del magistero, tra l’altro nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC
1650) e nell’esortazione postsinodale di Benedetto XVI “Sacramentum Caritatis”
(29).
Questo
passaggio decisivo di FC è stato, invece, sistematicamente
tralasciato nei documenti più recenti. Si tratta di un tentativo, chiaramente
non trasparente, di armonizzare dei testi contradditori. Invece di prendere
posizione rispetto alla netta delimitazione del “Nihilominus”, nei testi
pubblicati su questo tema si mantiene la prospettiva soggettiva della
situazione irregolare. Si raccomanda, così, un approfondito esame di coscienza,
con il quale la persona coinvolta, nel cosiddetto “forum internum”,
l’ambito della coscienza individuale, dovrebbe riflettere sul passato e sul
presente delle proprie relazioni (tra gli altri AL 300). In tal modo si desta
l’impressione che la volontà di far luce e rielaborare le conseguenze morali e
psicologiche di un divorzio e di un nuovo matrimonio civile, come, per esempio,
il chiarimento delle responsabilità nei confronti del partner
precedente o della relazione con i figli nati dal primo matrimonio, possa
essere presupposto sufficiente per l’ammissione ai sacramenti.
Secondo
l’insegnamento della Chiesa, invece, in casi simili tali premesse sussistono
solo quando siano rispettati i criteri oggettivi dell’ordinamento cristiano
della vita, vale a dire o l’astinenza sessuale o la non validità del matrimonio
sacramentale, magari dimostrabile solo nel foro interno. Proprio qui sta la linea
di rottura con l’insegnamento della Chiesa, che, esattamente in questo punto
non viene affatto portato al suo sviluppo o approfondita, come continuamente si
sostiene.
La
logica interna di una pastorale della misericordia, unicamente orientata alla
soggettività dei fedeli, porta di per sé molto oltre la questione dei
divorziati risposati civilmente. Nei corrispondenti documenti, come, per
esempio, nella Dichiarazione dei vescovi tedeschi, si continua, difatti,
a parlare di «situazioni irregolari». Coloro che «non sanno ancora decidersi
per il matrimonio» vengono, a loro volta, citati in questo contesto. Appare
allora del tutto conseguente che anche la LGTB-Community voglia prendere la
parola nella Chiesa e pretenda che sia allentata la disciplina per ciò che la
compete (https://newwaysministryblog.wordpress.com/2017/01/23/instructions-on-amoris-laetitia-from-maltas-bishops-can-inform-lgbt-issues-too/, vgl. hierzu auch http://www.kath.net/news/57028).
Perché, del resto, dovrebbero essere esclusi? Ovviamente
questo tipo di sviluppo non si ferma nemmeno davanti all’enciclica “Humanae
Vitae” di Paolo VI, che viene messa in dubbio nella sua non equivocabilità
(Instrumentum laboris 2016, Art. 137; cfr., qui, anche http://www.kath.net/news/54124).
Le
conseguenze del nuovo concetto di misericordia non possono essere limitate al
solo ambito delle relazioni di coppia e della sessualità. Così, proprio
richiamandosi ad AL, una parte dell’episcopato canadese, ha stabilito di
concedere l’accompagnamento dei sacramenti della Chiesa in prossimità della
morte a delle persone che intendono avvalersi del suicidio assistito o
dell’eutanasia (https://cruxnow.com/global-church/2016/09/21/canadian-bishops-issue-guidelines-assisted-suicide-cases/).
Ci
troviamo solo all’inizio di quanto può svilupparsi da questa concezione della
misericordia. Lungo una simile china scivolosa si può con certezza prevedere che
cosa sta per arrivare: si deve solo seguire la logica. Quel che qui accade è
fatale anche perché nei relativi documenti ecclesiali non viene più cercato
alcun collegamento ragionevole con la tradizione ecclesiale. Si mette così in
questione l’intima unità di fede e ragione. In molti fedeli si fa strada quindi
l’impressione di una sorta di possibilità di costruire a piacimento in quel che
riguarda la fede, la morale e la pastorale e tutto questo spinge l’avanzata del
relativismo. All’idea che si va diffondendo che il cristianesimo cattolico possa
elaborare il proprio insegnamento facendo a meno del diritto naturale,
dell’antropologia e della coerenza interna dei propri contenuti, sembra
ispirarsi il breve tweet del gesuita italiano Antonio Spadaro: «La teologia non è matematica. 2 + 2 in teologia può far 5 …
» (Epifania 2017).
La
domanda che ora si pone è se i sacerdoti che si attengono all’ordinamento
sacramentale della Chiesa sinora tramandato, possano essere definiti come
rigoristi, estremisti e privi di misericordia. Questi verdetti colpiscono anche
san Giovanni Paolo II e, con lui innumerevoli sacerdoti in tutto il mondo?
Ovviamente, no. Chiarire che esistono dei limiti non è di per sé assenza di misericordia.
Rigorista sarebbe un sacerdote che, per esempio, sottoporre a pressioni, senza
considerazione per il contesto e per le conseguenze, una donna risposata, con
tre figli, e pretendere che sin da subito si rifiuti al marito, minacciandole
l’inferno. Rigorista sarebbe anche un sacerdote che si rifiutasse di
accompagnare pastoralmente, in maniera generica, una
persona che ha deciso di chiedere l’eutanasia. Ben difficilmente si possono
negare l’accompagnamento, la benedizione e la preghiera. Invece, spiegare alla
persona interessata perché non può ricevere l’assoluzione sacramentale nella
Confessione o la Comunione non ha nulla a che fare con il rigorismo. Conosco
sacerdoti che hanno ottimi contatti con delle persone in situazioni irregolari,
che le trattano con rispetto, le integrano nella loro parrocchia, senza
amministrare loro i sacramenti.
Dei
concetti sociologici oggi così frequentemente usati nella Chiesa, come
“inclusione” o “nessuno deve essere rifiutato”, soggiacciono spesso a un
equivoco di fondo. Se un paziente cerca il mio aiuto come medico, neppure il
più radicale sostenitore della psichiatria sociale pretenderebbe da me che io
accettassi da prescrivere a quel paziente il farmaco che lui a tutti i costi
vuole avere. È da sempre un fatto ovvio e parte della liturgia, sia in Oriente
che in Occidente, che i fedeli confessino i loro peccati in forma generale,
prima di unirsi al Signore nella Comunione. Prendiamo le distanze dai nostri
peccati, ci rivolgiamo al Signore e riceviamo nella Comunione il suo perdono.
Nel caso dei peccati gravi il sacramento della Confessione deve precedere la
Comunione. È quindi altrettanto ovvio che le persone, che vivono in relazioni
sessuali obiettivamente disordinate, non partecipino alla Comunione, qualora,
per qualunque ragione si tratti, non si sentano in condizione di rinunciarvi.
È
fuori discussione che esistano numerose situazioni di vita, in cui delle
relazioni sessuali vengano vissute al di fuori di un matrimonio valido. A
questo proposito c’è, però, una differenza fondamentale se si conserva il
timore reverenziale davanti alla santità di Dio e ai suoi comandamenti mediante
l’astinenza eucaristica, sperando nella Sua misericordia, o se ci
si arroga il giudizio su se stessi, senza cambiare la situazione di vita che
contraddice i comandamenti, pretendendo di discolparsi, mediante la confessione
di altri peccati e l’unione con Cristo nella Comunione. La constatazione delle
«circostanze attenuanti», vale a dire il giudizio soggettivo di chi amministra
e di chi riceve il sacramento, non può passare sopra la situazione oggettiva.
La Chiesa su questo punto non ha affatto la piena potestà. La grazia di Dio non
è legata ai sacramenti, ma solo a Lui compete in questi casi il giudizio, e noi
non lo conosciamo. «La Tua parola è luce ai miei passi», si legge nel salmo
(119, 105). Proprio nei casi in cui alla stessa persona interessata, a chi le
sta intorno e a chi l’ha in cura d’anima appare particolarmente difficile
vederla come peccato, si dovrebbe tener presente che noi non conosciamo la
volontà assoluta di Dio e, quindi, non possiamo superare i limiti del cono di
luce che ci è concesso. Qui si richiede l’umiltà, non l’amministrazione dei
sacramenti. La misericordia di Dio non può essere imposta per decreti.
L’affermazione
dei vescovi tedeschi che nel discernimento riguardo all’amministrazione del
sacramento in situazioni irregolari «la coscienza di tutte le persone coinvolte
sia da prendere nella massima considerazione», il fatto che i sostenitori del
nuovo concetto di misericordia parlino di «situazioni complesse» e la tesi
secondo cui non ci sarebbero «soluzioni semplici», appaiono come argomenti
mendaci che rendono opachi dei dati di fatto di per sé semplici. Perché
dovrebbe essere difficile per le persone coinvolte stabilire se vivono in
castità o no? Anche chiarire se il matrimonio contratto sacramentalmente sia
stato invalido o no è qualcosa che senza particolari strapazzi per la coscienza
può essere chiarito con l’aiuto di un esperto canonista. In una delle sue ultime
interviste l’anziano e saggio Konrad Adenauer, richiesto circa la sua
propensione a semplificare, disse che si devono vedere le cose così
profondamente da renderle semplici. Se si rimane solo alla superficie delle
cose, esse non sono semplici, ma se si guarda in profondità, allora si vede
quel che è reale, e questo – spiegava – è sempre semplice.
Coloro
che vogliono allentare l’ordinamento sacramentale cattolico, se si guardano le
cose in questo modo, non possono certo richiamarsi alla misericordia divina. In
tal caso non si finisce certo per fare il bene delle persone coinvolte. È
scandaloso vedere come a questo scopo essi si richiamino al diario della santa
suora Faustyna Kowalska. Giovanni Paolo II fu colui che ne riconobbe
l’importanza e che canonizzò questa semplice religiosa. Io stesso, qualche anno
fa, studiai a fondo questo libro e non vi trovai nemmeno una traccia di
incoraggiamento a pretendere di andare oltre i limiti rispetto alla
misericordia di Dio fonte di timore e tremore. Al contrario, spirito e lettera
di questo scritto si muovono in tutt’altra direzione.
Tutti
i fedeli che vivono in relazioni sessuali irregolari, soprattutto coloro che si
trovano dalla parte delle vittime, che sono stati feriti, abbandonati, forse
persino abusati, e che si sono già sforzati di vivere in castità, in breve,
tutti coloro che meritano in maniera particolare la comprensione della Chiesa,
sono esortati a non fare uso delle nuove possibilità di ricevere il Sacramento.
Essi, mediante l’astinenza eucaristica, possono a loro modo rendere
testimonianza alla santità di Dio e dei suoi comandamenti. In tal modo, essi
potrebbero anche stare più vicini a Dio di alcuni di coloro che, in nome di una
falsa idea di misericordia, vogliono amministrare i sacramenti.
(Traduzione
dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni
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