Leggere l'Amoris Laetitia alla luce del Magistero precedente

L’interpretazione del capitolo ottavo dell’Amoris Laetitia va letto nella linea della continuità alla luce del Magistero precedente perché lo continua e lo approfondisce

Tra le molte interpretazioni (e discussioni) che ha generato fin ora l’esortazione Amoris laetitia, offriamo ai lettori quella di un teologo morale dell’ordine domenicano, P. Angelo Bellon, che l’ha proposta in una sua seguitissima rubrica on-line “Un sacerdote risponde”. Si tratta, come indica
lo stesso Bellon, di una interpretazione “in meliorem partem” di alcune affermazioni dell’esortazione.
Considerazioni sull’Esortazione post sinodale Amoris laetitia
1. Premesse
1. Il testo offerto da Papa Francesco sulla famiglia è avvincente nella sua esposizione ed è pieno di carità pastorale nei confronti di coloro che si trovano in stato di sofferenza, di disagio o di non conformità nei confronti dell’insegnamento di Gesù sul matrimonio e sull’amore umano.
2. Leggendo l’Esortazione dall’inizio alla fine, senza preconcetti e senza le caricature dei giornalisti o delle persone intervistate, non ho trovato nessuna rottura con il Magistero precedente, ma una continuità e uno sviluppo, soprattutto nell’atteggiamento di ricerca, di accoglienza, di accompagnamento e di integrazione di coloro che si trovano in difficoltà nell’essere conformi alla logica evangelica.
Alcune espressioni dell’Esortazione sono un po’ enfatizzate a motivo del carattere parenetico del documento stesso e anche del modo proprio di esprimersi di Papa Francesco.
Non bisogna prendere ogni parola come una sentenza dogmatica.
3. La questione più controversa è quella relativa alla Santa Comunione ai divorziati risposati, che tuttavia non viene mai espressamente menzionata nell’Esortazione.
Va notato che soprattutto nel capitolo 8° il linguaggio talvolta è molto sfumato e si può prestare a valutazioni non solo differenti, ma addirittura fra di loro opposte.
Ebbene, proprio in merito a questo capitolo desidero presentare alcune riflessioni generali e poi prendere in  considerazione le espressioni più discusse.
2. Criteri di lettura
1. Il primo criterio di lettura è quello dell’orizzonte nel quale va letta l’Esortazione, pena deformarla.
Quest’orizzonte l’ha fornito Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor.
Nella nota 100 Giovanni Paolo II afferma: “Lo sviluppo della dottrina morale della chiesa è simile a quello della dottrina della fede.
Anche alla dottrina morale si applicano le parole pronunciate da Giovanni XXIII in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962): “Occorre che questa dottrina (= la dottrina cristiana nella sua integralità) certa e immutabile, che dev’essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.
Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra venerabile dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (VS, nota 100).
Qui dunque si trova il principio ermeneutico o di interpretazione: i documenti del Magistero anche in temi morali vanno interpretati secondo l’ermeneutica della continuità e dell’approfondimento. E non già secondo l’ermeneutica della discontinuità, della rottura o della svolta rispetto al Magistero di sempre.
Il progresso della dottrina morale della Chiesa avviene sotto l’azione dello Spirito Santo che gradualmente porta alla conoscenza della verità tutta intera, senza mai contraddire o rinnegare il Magistero precedente.
Si tratta dunque di un progresso omogeneo e non dialettico.
2. Fatta questa premessa fondamentale, occorre leggere l’Amoris Laetitia alla luce del Magistero precedente perché lo continua e lo approfondisce, come del resto a più riprese viene affermato dall’Esortazione stessa, come ad esempio quando dice: “Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 79).
Poiché soprattutto il capitolo ottavo dell’Esortazione è stato letto nelle maniere più disparate e contraddittorie, è necessario dire che l’interpretazione esatta, quella indicata dal Magistero, è quella data in meliorem partem, se ci si può esprimere così, e cioè nella linea della continuità.
Anzi, solo questa lettura fa comprendere il testo senza ambiguità e senza contraddizioni.
3. Sicché mentre la lettura in meliorem partem non va incontro ad obiezioni che ne sbarrino la strada, quella data in pejorem partem, e cioè secondo l’ermeneutica della rottura, non porta invece da nessuna parte, anzi va a cozzare contro una miriade di affermazioni del Magistero e si rivela inconcludente e sbagliata.
3. L’interpretazione in meliorem partem di alcune affermazioni
1. Il n. 302 dell’Esortazione ricorda una grande varietà di motivi da tenere presenti nella valutazione dei singoli casi:
“Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali» (n. 1735). In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali (n. 2352). Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati(24 giugno 2000), 2)” (AL 302).
Ebbene, quelli elencati sono tutti motivi per cui un tribunale ecclesiastico può dare e anzi già dà una sentenza di nullità del matrimonio contratto.
Per evitare che all’interno delle comunità cristiane si dica che ad un divorziato risposato è stata data l’assoluzione e ad un altro no, la cosa migliore è quella di procedere ordinatamente che è quella ottenere una sentenza di nullità del matrimonio ed eventualmente di sanare in radice l’unione contratta civilmente.
È questa la prima via suggerita da Papa Francesco con la riforma della procedura nelle cause matrimoniali.
Tanto più che egli stesso ha chiesto che la sentenza venga data entro un anno, senza lungaggini.
Questo è il metodo più ordinato e sicuro.
Al contrario, lasciare tutto alla valutazione non sempre illuminata del parroco o del confessore può rendere insicuri e può causare confusione e malumore nelle comunità. Facilmente si potrebbe argomentare: perché ad uno sì e ad un altro no?
2. Al n. 299 si legge: “i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo”.
Anche questo va sempre tenuto presente.
Qualora il sacerdote desse l’assoluzione ad un divorziato risposato o ad una persona convivente, è necessario ricordare che si può fare la Santa Comunione solo là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi. Diversamente si genera scandalo tra i fedeli.
La Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi “circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati” del 7 luglio 2000 dice: “Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza.
Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo” (2 c).
Remoto scandalo significa che si può fare privatamente o là dove non si è conosciuti come divorziati risposati o conviventi, evitando così di causare giudizi, confusione, sconcerto e scandalo tra i fedeli.
3. In quest’ottica va letto anche quanto si legge al n. 305: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti”.
Qui implicitamente l’Esortazione ribadisce che per accostarsi alla Santa Comunione è necessario essere in grazia di Dio.
Questa non è una norma umana ma divina, come ricorda la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,27-30).
4. Circa quanto è scritto nella nota 351: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (EG 44). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG 47)”.
Qui il Papa non dice tout court di dare la Santa Comunione ai divorziati risposati.
Prevede che coloro che sono pentiti e vivono in grazia, e cioè senza rapporti adulterini o di fornicazione, possano ricevere l’assoluzione e possano partecipare all’Eucaristia, anche facendo la Santa Comunione, sempre remoto scandalo.
5. Inoltre quando il Papa dice che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» afferma una cosa profondamente vera.
Proprio perché siamo tutti deboli, anche se viviamo in grazia di Dio, abbiamo bisogno di fortificarci di questo Pane per sostenerci nel cammino verso il Cielo.
Ma rimane sempre vero che chi è spiritualmente morto, perché si trova in peccato mortale, prima di nutrirsi in maniera salutare di questo cibo, ha bisogno di risuscitare e di ritrovare la vita soprannaturale attraverso la Confessione, che dai santi Padri viene definita come un secondo Battesimo.
Pertanto il sacramento proprio di chi è spiritualmente morto è la confessione.
Diversamente si realizza quanto ha detto la Sacra Scrittura: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1 Cor 11,27).
6. Qualcuno ha detto giustamente che dar da mangiare ad un morto serve a farlo puzzare ancora di più.
Ed è per questo che Giovanni Paolo II ha detto: “A questo dovere lo richiama lo stesso Apostolo con l’ammonizione: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice» (1 Cor 11,28). San Giovanni Crisostomo, con la forza della sua eloquenza, esortava i fedeli: «Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta.
Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi» (Omelie su Isaia 6, 3).
In questa linea giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolicastabilisce: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione» (CCC 1385).
Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell’apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia, si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale” (Ecclesia de Eucaristia, 36).
7. Al n. 298 il Papa riconosce che vi sono “divorziati che vivono una nuova unione… consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe” e che “seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”.
In nota (n. 329) aggiunge: “In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Gaudium et spes, 51).
In merito a questa nota che ha attirato l’attenzione di molti va detto:
- primo: il Papa ricorda l’insegnamento di Familiaris consortio che chiede di non vivere more uxorio e cioè in castità, come amici e fratelli e sorelle;
-secondo: il Papa, pur facendo riferimento al Concilio che parla di intimità coniugale, parla solo di intimità. È chiaro che in ogni caso non sarebbe coniugale perché i due non sono marito e moglie.
- terzo: vuol dire che pur “accettando di vivere come fratello e sorella”, se succede che talvolta vadano oltre, si deve usare pazienza ed esortarli a fare quanto dice Paolo VI nell’Humanae vitae: “E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza” (HV 25).
Questo significa comprendere in meliorem partem.
Dare un’altra interpretazione significa che il 6° comandamento che vieta i rapporti sessuali tra persone che fra di loro non sono sposate subisca delle eccezioni.
Ma “i precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti” (Veritatis Splendor, 52)
8. In merito al n. 301 si legge: “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”.
A dire il vero questo non è mai stato detto né nel Magistero né nei manuali di Teologia.
Basterebbe ricordare la Dichiarazione della Congregazione del Clero in riferimento al cosiddetto ‘caso Washington’: “Le particolari circostanze che accompagnano un atto umano oggettivamente cattivo, mentre non possono trasformarlo in un atto oggettivamente virtuoso, possono renderlo incolpevole o meno colpevole o soggettivamente giustificabile” (26.4.1971).
Il Papa allora si riferisce a quello che può essere stato detto da prete Tizio o Caio. Qui troviamo, come si diceva all’inizio, il carattere parenetico e proprio di Papa Francesco.
Presa la frase in se stessa, bisognerebbe dire che non corrisponde alla realtà perché questo non è mai stato detto.
9. Analogamente al n. 304 si legge: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.
Letta superficialmente quest’affermazione sembra una critica alla morale finora insegnata.
Ma questo non corrisponde alla verità perché si è sempre detto che i criteri per discernere la moralità di un atto sono tre: oggetto (finis operis), intenzione (finis operantis) e circostanze.
Anche qui il Papa si riferisce al comportamento di qualcuno che senza guardare al soggetto e alle circostanze può aver giudicato solo in base alla legge morale. Allora questo, sì, è meschino, anzi è sbagliato.
10. Sempre al n. 301 il Papa scrive: “Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù (Somma Teologica I-II, 65, 3, ad 2), in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù» (Ib., ad 3)”.
San Tommaso, dopo aver detto che insieme alla grazia vengono infuse anche le virtù morali, dice: “Talora capita, per una difficoltà nata dall’esterno, che chi possiede un abito provi difficoltà nell’operare, e quindi non senta piacere e compiacimento nell’atto: è il caso di chi avendo l’abito della scienza, per la sonnolenza o per un’infermità, prova difficoltà nell’intendere. Allo stesso modo talora provano difficoltà nell’operare gli abiti delle virtù morali infuse, a causa delle disposizioni contrarie lasciate dagli atti precedenti. La quale difficoltà non capita ugualmente nelle virtù morali acquisite: poiché mediante l’esercizio degli atti, col quale vennero acquistate, furono tolte anche le disposizioni contrarie” (ad 2).
E nell’ad 3: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, per il motivo indicato sopra; sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù”.
Ebbene, qui San Tommaso vuol dire che alcuni esercitano malamente una determinata virtù o non la esercitino affatto (ad esempio: la devozione o il raccoglimento nella preghiera) a motivo delle disposizioni lasciate dalle azioni precedenti (ad esempio: l’essere afflitti o contrariati per una brutta notizia o per una grossa discussione. Allora, come emerge dall’esperienza, si prega male, con poco raccoglimento e con molte distrazioni).
Ma un conto è esercitare male una virtù o non esercitarla affatto, per cui si ha poco merito o non si merita niente.
Un altro conto invece è compiere un peccato grave contrario a quella virtù. Col peccato si demerita sempre e si offende il Signore.
Tra l’altro per San Tommaso se un singolo atto contrario ad una virtù acquisita non fa perdere tale virtù perché l’atto contraria l’atto ma non l’abito (sicché se uno si ubriaca una volta non si può dire che ha perso la virtù della sobrietà), tuttavia vi farebbe eccezione la lussuria: “Ma con un atto di lussuria la castità viene meno di per se stessa” (Sed actu luxuriae castitas per se privatur”, s. tommaso, In II Sent., d. 42, q. 1, a. 2, ad 4).
Per cui interpretando in meliorem partem questo n. 301 dell’Esortazione si può dire che i divorziati risposati, anche se vivono come fratello e sorella, dovendo stare insieme a motivo della presenza dei figli, non esercitano nel migliore modo la castità.
Ma se con questo testo si volesse dire che vivono in grazia anche se hanno rapporti sessuali sarebbe completamente sbagliato, perché è contrario non solo all’insegnamento di San Tommaso, ma a quello di Dio e della Chiesa.
Interpretati così, i punti più scottanti dell’Esortazione non fanno difficoltà.
Mentre molte difficoltà nascono da una lettura diversa.
Va considerato infine che questa Esortazione è tutta permeata da un clima di accoglienza e di misericordia. Questo è lo stile che le si è voluto dare.
E ne va tenuto conto.

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