Due interventi provvidenziali

Due interventi in questo momento provvidenziali: uno del cardinale L. Muller su omosessualità, comunione ai divorziati risposati,  Lutero, sacerdozio femminile, celibato del clero; l’altro del Vescovo di Verona nell’Omelia della Messa del Crisma su “una questione insidiosa e devastante” su valori cristiani senza la Fonte, la presenza di Gesù Cristo

Qui di seguito cinque passaggi del libro-intervista di Gerhard L. Muller:
"CHI SONO IO PER GIUDICARE?"

Proprio quelli che fino ad oggi non hanno mostrato alcun rispetto per la dottrina della Chiesa si servono di un frase isolata del Santo Padre, "Chi sono io per giudicare?", tolta dal contesto, per presentare idee distorte sulla morale sessuale, avvalorandole con una presunta interpretazione del pensiero "autentico" del papa al riguardo.

La questione omosessuale che diede spunto alla domanda posta al Santo Padre è già presente nella Bibbia, tanto
nell'Antico Testamento (cfr. Gen 19; Dt 23, 18s; Lev 18, 22; 20, 13; Sap 13-15) quanto nelle lettere paoline (cfr. Rom 1, 26s; 1 Cor 6, 9s), trattata come soggetto teologico, sia pure con i condizionamenti propri inerenti alla storicità della divina rivelazione.

Dalla Sacra Scrittura si ricava il disordine intrinseco degli atti omosessuali, poiché non procedono da una vera complementarietà affettiva e sessuale. Si tratta di una questione molto complessa, per le numerose implicazione che sono emerse con forza negli ultimi anni. In ogni caso, la concezione antropologica che si ricava dalla Bibbia comporta alcune ineludibili esigenze morali e nello stesso tempo uno scrupoloso rispetto per la persona omosessuale. Queste persone, chiamate alla castità ed alla perfezione cristiana attraverso la padronanza di sé e a volte con l'aiuto di un'amicizia disinteressata, vivono "una autentica prova. Perciò devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione" (Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359).

Tuttavia, oltre al problema suscitato della decontestualizzazione della citata frase di papa Francesco, pronunciata come segno di rispetto per la dignità della persona, mi sembra sia evidente che la Chiesa, con il suo magistero, ha la capacità di giudicare la moralità di certe situazioni. Questa è una verità indiscussa: Dio è il solo giudice che ci giudicherà alla fine dei tempi e il papa ed i vescovi hanno l'obbligo di presentare i criteri rivelati per questo giudizio finale che oggi già si anticipa nella nostra coscienza morale.

La Chiesa ha detto sempre "questo è vero, questo è falso" e nessuno può interpretare in modo soggettivista i comandamenti di Dio, le beatitudini, i concili, secondo i propri criteri, il proprio interesse o persino le proprie necessità, come se Dio fosse solo lo sfondo della sua autonomia. Il rapporto tra la coscienza personale e Dio è concreto e reale, illuminato dal magistero della Chiesa; la Chiesa possiede il diritto e l'obbligo di dichiarare che una dottrina è falsa, precisamente perché una tale dottrina devia la gente semplice dalla strada che porta a Dio.

A partire dalla rivoluzione francese, dai successivi regimi liberali e dai sistemi totalitari del secolo XX, l'obiettivo dei principali attacchi è sempre stato la visione cristiana dell'esistenza umana ed del suo destino.

Quando non si poté vincere la sua resistenza, si permise il mantenimento di alcuni dei suoi elementi, ma non del cristianesimo nella sua sostanza; il risultato fu che il cristianesimo cessò di essere il criterio di tutta la realtà e si incoraggiarono le suddette posizioni soggettiviste.

Queste hanno origine in una nuova antropologia non cristiana e relativista che prescinde del concetto di verità: l'uomo odierno si vede obbligato a vivere perennemente nel dubbio. Di più: l'affermazione che la Chiesa non può giudicare situazioni personali si basa su una falsa soteriologia, cioè che l'uomo è il suo proprio salvatore e redentore.

Nel sottomettere l'antropologia cristiana a questo riduzionismo brutale, l'ermeneutica della realtà che da ciò deriva adotta soltanto gli elementi che interessano o sono convenienti all'individuo: alcuni elementi delle parabole, certi gesti benevoli di Cristo o quei passaggi che lo presentano come un semplice profeta del sociale o un maestro in umanità.

E al contrario si censura il Signore della storia, il Figlio di Dio che invita alla conversione o il Figlio dell'Uomo che verrà a giudicare i vivi ed i morti. In realtà, questo cristianesimo semplicemente tollerato si svuota del suo messaggio e dimentica che il rapporto con Cristo, senza la conversione personale, è impossibile.


CHI PUÓ FARE LA COMUNIONE


Papa Francesco dice nella "Evangelii gaudium" (n. 47) che l'eucaristia "non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli". Vale la pena analizzare questa frase con profondità, per non equivocarne il senso.

In primo luogo, bisogna notare che questa affermazione esprime il primato della grazia: la conversione non è un atto autonomo dell'uomo, ma è, in se stessa, un'azione della grazia. Tuttavia da ciò non si può dedurre che la conversione sia una risposta esterna di gratitudine per ciò che Dio ha fatto in me per conto suo, senza di me. Nemmeno posso concludere che chiunque possa accostarsi a ricevere l'eucaristia sebbene non sia in grazia e non abbia le dovute disposizioni, solo perché è un alimento per i deboli.

Prima di tutto dovremmo chiederci: che cos'è la conversione? Essa è un atto libero dell'uomo e, nello stesso tempo, è un atto motivato dalla grazia di Dio che previene sempre gli atti degli uomini. È per questo un atto integrale, incomprensibile se si separa l'azione di Dio dall'azione dell'uomo. […]

Nel sacramento della penitenza, per esempio, si osserva con tutta chiarezza la necessità di una risposta libera da parte del penitente, espressa nella sua contrizione del cuore, nel suo proposito di correggersi, nella sua confessione dei peccati, nel suo atto di penitenza. Per questo la teologia cattolica nega che Dio faccia tutto e che l'uomo sia puro recipiente delle grazie divine. La conversione è la nuova vita che ci è data per grazia e nello stesso tempo, anche, è un compito che ci è offerto come condizione per la perseveranza nella grazia. […]

Ci sono solo due sacramenti che costituiscono lo stato di grazia: il battesimo e il sacramento della riconciliazione. Quando uno ha perso la grazia santificante, necessita del sacramento della riconciliazione per ricuperare questo stato, non come merito proprio ma come regalo, come un dono che Dio gli offre nella forma sacramentale. L'accesso alla comunione eucaristica presuppone certamente la vita di grazia, presuppone la comunione nel corpo ecclesiale, presuppone anche una vita ordinata conforme al corpo ecclesiale per poter dire "Amen". San Paolo insiste sul fatto che chi mangia il pane e beve il vino del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11. 27).

Sant'Agostino afferma che "colui che ti creò senza di te non ti salverà senza di te" (Sermo 169). Dio chiede la mia collaborazione. Una collaborazione che è anche regalo suo, ma che implica la mia accoglienza di questo dono.

Se le cose stessero diversamente, potremmo cadere nella tentazione di concepire la vita cristiana nel modo delle realtà automatiche. Il perdono, per esempio, si convertirebbe in qualcosa di meccanico, quasi in una esigenza, non in una domanda che dipende anche da me, poiché io la devo realizzare. Io andrei, allora, alla comunione senza lo stato di grazia richiesto e senza accostarmi al sacramento della riconciliazione. Darei per scontato, senza nessuna prova di ciò a partire dalla Parola di Dio, che mi è concesso privatamente il perdono dei miei peccati tramite questa stessa comunione. Ma questo è un falso concetto di Dio, è tentare Dio. E porta con sé anche un concetto falso dell'uomo, col sottovalutare ciò che Dio può suscitare in lui.



PROTESTANTIZZAZIONE DELLA CHIESA


Strettamente parlando, noi cattolici non abbiamo alcun motivo per festeggiare il 31 ottobre 1517, cioè la data considerata l'inizio della Riforma che portò alla rottura della cristianità occidentale.

Se siamo convinti che la rivelazione divina si è conservata integra ed immutata attraverso la Scrittura e la Tradizione, nella dottrina della fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondata sul sacramento del sacro ordine, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa.

I membri delle comunità ecclesiali protestanti guardano a questo evento da un'ottica diversa, poiché pensano che sia il momento opportuno per celebrare la riscoperta della "parola pura di Dio", che presumono sfigurata lungo la storia da tradizioni meramente umane. I riformatori protestanti arrivarono alla conclusione, cinquecento anni fa, che alcuni gerarchi della Chiesa non solo erano corrotti moralmente, ma avevano anche travisato il Vangelo e, di conseguenza, avevano bloccato il cammino di salvezza dei credenti verso Gesù Cristo. Per giustificare la separazione accusarono il papa, presunto capo di questo sistema, di essere l'Anticristo.

Come portare avanti, oggi, in modo realistico, il dialogo ecumenico con le comunità evangeliche? Il teologo Karl-Heinz Menke dice il vero quando asserisce che la relativizzazione della verità e l'adozione acritica delle ideologia moderne sono l'ostacolo principale verso l'unione nella verità.

In questo senso, una protestantizzazione della Chiesa cattolica a partire da una visione secolare senza riferimento alla trascendenza non soltanto non ci può riconciliare con i protestanti, ma nemmeno può consentire un incontro con il mistero di Cristo, poiché in Lui siamo depositari di una rivelazione sovrannaturale alla quale tutti noi dobbiamo la totale ubbidienza dell'intelletto e della volontà (cfr. "Dei Verbum", 5).

Penso che i principi cattolici dell'ecumenismo, così come furono proposti e sviluppati dal decreto del Concilio Vaticano II, sono ancora pienamente validi (cfr. "Unitatis redintegratio", 2-4). D'altra parte, il documento della congregazione per la dottrina della fede "Dominus Iesus", dell'anno santo del 2000, incompreso da molti e ingiustamente rifiutato da altri, sono convinto che sia, senza alcun dubbio, la magna carta contro il relativismo cristologico ed ecclesiologico di questo momento di tanta confusione.


SACERDOZIO FEMMINILE


La domanda se il sacerdozio femminile sia una questione disciplinare che la Chiesa potrebbe semplicemente cambiare non tiene, poiché si tratta di una questione già decisa.

Papa Francesco è stato chiaro, come anche i suoi predecessori. Al riguardo, ricordo che san Giovanni Paolo II, al n. 4 dell'esortazione apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 1994, rafforzò con il plurale maiestatico ("declaramus"), nell'unico documento nel quale quel papa utilizzò questa forma verbale, che è dottrina definitiva insegnata infallibilmente dal magistero ordinario universale (can. 750 § 2 CIC) il fatto che la Chiesa non ha autorità per ammettere le donne al sacerdozio.

Compete al Magistero decidere se una questione è dogmatica o disciplinare; in questo caso, la Chiesa ha già deciso che questa proposta è dogmatica e che, essendo di diritto divino, non può essere cambiata e nemmeno rivista. La si potrebbe giustificare con molte ragioni, come la fedeltà all'esempio del Signore o il carattere normativo della prassi multisecolare della Chiesa, tuttavia non credo che questa materia debba essere discussa di nuovo a fondo, poiché i documenti che la trattano espongono a sufficienza i motivi per respingere questa possibilità.

Non voglio mancare di segnalare che c'è una essenziale uguaglianza tra l'uomo e la donna nel piano della natura ed anche nel rapporto con Dio tramite la grazia (cfr. Gal 3, 28). Ma il sacerdozio implica una simbolizzazione sacramentale del rapporto di Cristo, capo o sposo, con la Chiesa, corpo o sposa. Le donne possono avere, senza nessun problema, più incarichi nella Chiesa: al riguardo, colgo volentieri l'occasione di ringraziare pubblicamente il numeroso gruppo di donne laiche e religiose, alcune della quali con qualificati titoli universitari, che prestano la loro indispensabile collaborazione nella congregazione per la dottrina della fede.

D'altra parte non sarebbe serio avanzare proposte in merito partendo da semplici calcoli umani, dicendo per esempio che "se apriamo il sacerdozio alle donne superiamo il problema vocazionale" o "se accettiamo il sacerdozio femminile daremmo al mondo un'immagine più moderna".

Credo che questo modo di porre il dibattito è molto superficiale, ideologico e soprattutto antiecclesiale, perché omette di dire che si tratta di una questione dogmatica già definita da chi ha il compito di farlo, e non di una materia meramente disciplinare.


CELIBATO SACERDOTALE


Il celibato sacerdotale, così contestato in certi ambienti ecclesiastici odierni, ha le sue radici nei Vangeli come consiglio evangelico, ma ha anche un rapporto intrinseco con il ministero del sacerdote.

Il sacerdote è più di un funzionario religioso al quale sia stata attribuita una missione indipendente dalla sua vita. La sua vita è in stretto rapporto con la sua missione evangelica e pertanto, nella riflessione paolina come anche nei Vangeli stessi, chiaramente il consiglio evangelico appare legato alla figura dei ministri scelti da Gesù. Gli apostoli, per seguire Cristo, hanno lasciato tutte le sicurezze umane dietro di loro e in particolare le rispettive spose. Al riguardo, san Paolo ci parla della sua esperienza personale in 1 Cor 7, 7, ove sembra considerare il celibato come un carisma particolare che ha ricevuto.

Attualmente, il vincolo tra celibato e sacerdozio in quanto dono peculiare di Dio attraverso il quale i ministri sacri possono unirsi più facilmente a Cristo con un cuore indiviso (can. 277 § 1 CIC; "Pastores dabo vobis", 29), si trova in tutta la Chiesa  universale, anche se in forma diverso. Nella Chiesa orientale, come sappiamo, riguarda solo il sacerdozio dei vescovi; ma il fatto stesso che per loro lo si esiga ci indica che tale Chiesa non lo concepisce come una disciplina esterna.

Nel suddetto menzionato ambiente di contestazione al celibato, è molto diffusa la seguente analogia. Alcuni anni fa sarebbe stato inimmaginabile che una donna potesse fare il soldato, mentre oggi, invece, gli eserciti moderni contano su un gran numero di donne soldato, pienamente atte a un compito considerato, tradizionalmente, come esclusivamente maschile. Non succederà lo stesso con il celibato? Non è un inveterato costume del passato che bisogna rivedere?

Tuttavia la sostanza dell'attività militare, a parte alcune questioni di tipo pratico, non esige che chi la esercita appartenga a un determinato sesso; mentre il sacerdozio è invece in intima connessione con il celibato.

Il Concilio Vaticano II e altri documenti magisteriali più recenti insegnano una tale conformità o adeguazione interna tra celibato e sacerdozio che la Chiesa di rito latino non sente di avere la facoltà di cambiare questa dottrina con una decisione arbitraria che romperebbe con lo sviluppo progressivo, durato secoli, della regolamentazione canonica, a partire dal momento in cui è stato riconosciuto questo vincolo interno, anteriormente alla suddetta legislazione. Noi non possiamo rompere unilateralmente con tutta una serie di dichiarazioni di papi e di concili, come neppure con la ferma e continua adesione della Chiesa cattolica all'immagine del sacerdote celibe.

La crisi del celibato nella Chiesa cattolica latina è stato un tema ricorrente in momenti specialmente difficili nella Chiesa. Per citare qualche esempio, possiamo ricordare i tempi della riforma protestante, quelli della rivoluzione francese e, più recentemente, gli anni della rivoluzione sessuale, nei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia della Chiesa e delle sue istituzioni è che queste crisi hanno sempre mostrato e consolidato la bontà della dottrina del celibato.
Cattedrale di Verona, 24 marzo 2016 Omelia alla Missa Chrismatis
Carissimi presbiteri, la proclamazione del testo di Isaia, riportato all’inizio della pericope del vangelo di Luca, ha in noi una singolare risonanza, in questo Anno Giubilare della Misericordia. Soprattutto, quel «Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Lc 4, 21). In Gesù Cristo la profezia di Isaia ha trovato il suo pieno avveramento, al punto che ci è lecito affermare che l’Anno di Grazia non è un tempo, ma una Persona: Gesù Cristo è l’Anno di Grazia, è l’Anno Giubilare della Misericordia del Padre.

Gesù Cristo è l’Anno Giubilare della Misericordia
Se Lui è l’Anno Giubilare della Misericordia del Padre, lo scopo definitivo di questo Anno Giubilare, indetto da Papa Francesco, è la riscoperta della persona e della missione salvifica di Gesù Cristo, e di accoglierla nella fede nella nostra vita. Da questo punto di vista, dobbiamo purtroppo riconoscere che stiamo vivendo un dramma epocale, il più preoccupante e sconvolgente dramma, almeno per noi, ordinati esattamente a tale scopo: nonostante l’iniziazione cristiana garantita a tutti e accolta da quasi tutti, Gesù Cristo non è conosciuto e accolto come Verità, Misericordia, Signore, nemmeno da tanti, troppi battezzati. Si evita persino di parlarne. Attorno a Lui e al suo nome si è creato come una barriera di sacro pudore; si percepisce una certa allergia; è sceso un cupo e inquietante silenzio. Si preferisce parlare quasi esclusivamente di valori. Magari anche cristiani, cioè di matrice cristiana. Ma in tal modo la Persona stessa di Cristo verrebbe ridotta a un fondatore di religione, morto da due millenni, che ha lasciato in eredità pensieri interessanti ed esempi di vita squisiti e persino affascinanti. La questione è insidiosa e devastante. Non che siano da snobbare i valori. Ma il compito dell’evangelizzazione è quello di segnalare senza equivoci e annebbiamenti la fonte dei valori, cioè il Valore, Colui vivendo il quale si esprimono valori degni dell’uomo. Senza rossori e tentennamenti ne proferiamo, adoranti, il nome: Gesù Cristo!
Del resto, è Gesù stesso che nell’ultima Cena ha evidenziato il fine dell’evangelizzazione: «Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l’unico vero Dio, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). E alla conclusione del vangelo di Matteo: «Andate, fate miei discepoli tutti i popoli» (Mt 28, 19) o in quella di Marco: «Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 16). Tutto il resto dell’azione evangelizzatrice è finalizzato a questo obiettivo. Comunque vadano le cose. Questo è il metro di validità dell’evangelizzazione, non il successo di iniziative autoreferenziali, benché realizzate con ottimi scopi. Certo, ci muoviamo su questa direzione senza strategie da crociati, ma con la forza intrinseca della Parola annunciata, accompagnata da una infinita benevolenza e una permanente pazienza dei tempi lunghi di maturazione, consci dei corrispondenti travagli interiori.

Annunciare e trasmettere la Misericordia
Ecco il nucleo del nostro ministero di ordinati: annunciare il Padre delle Misericordie, il Figlio quale Misericordia incarnata del Padre, lo Spirito che ce la trasmette sacramentalmente. Annunciamolo con gioia, con parresia, con entusiasmo, con grande convincimento, con affabilità, con una forte carica di umanità, come ci ricorda Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium. A noi compete questo. È la nostra missione che dà sostanza alla nostra identità battesimale e ordinata. Privo di tale missione evangelizzatrice, l’uomo di oggi, smarrito e stordito, mancherebbe di orizzonte di senso. E sarebbe per tutti un impoverimento di umanesimo e di civiltà.
La gente vuole sperimentare un Dio che la ama così come è, aiutandola a diventare sempre più quello che desidera per il suo bene. Vuole sentirlo vibrare in cuore come Misericordia e non come giudice implacabile e punitore. Come penitenti e come confessori ne abbiamo fatto ampia esperienza. Specialmente come confessori. Il prete e il confessionale! Quale scuola di umanità nell’essere luogo della divina Misericordia. Se la gente ci trova davvero presbiteri di Misericordia, carichi di delicatezza, di gentilezza, di venerazione, almeno in cuor suo ci ringrazia e si sente sospinta a tornare. L’esperienza dei santuari con la Porta Santa e la stessa Tenda della Misericordia piantata in Piazza Brà ne danno una consolante testimonianza.
Del resto, questo è un ministero che ci compete in esclusiva, ci qualifica e ci identifica. Nemmeno gli psicoterapeuti possono sostituirci.

Il Presbiterio testimone di Misericordia fraterna
Il nostro è un altro ministero, abilitato a operare nello spirito dell’uomo, là dove l’uomo compie le scelte valoriali secondo Dio o contro Dio. Riconosciamo di essere i protagonisti della Misericordia sacramentale di Dio. Ma lo saremo in modo credibile, se daremo concorde testimonianza dell’accoglienza della Misericordia di Dio e del suo dono reciproco tra confratelli. Ho precisato “concorde testimonianza”, in quanto basta anche una sola contro-testimonianza e l’intero Presbiterio ne subisce un grave danno, almeno di immagine.
Carissimi, in questa celebrazione, del tutto singolare, particolarmente collegata con l’essere Presbiterio, ravviviamo la coscienza del nostro essere Presbiterio della nostra Chiesa particolare, della Diocesi di San Zeno. Il nostro, ve lo posso assicurare, nella sua sostanza è un buon Presbiterio, zelante, volonteroso, laborioso. Tuttavia, ha bisogno costante di essere lubrificato dalla reciproca Misericordia che concretizza nel nostro cuore gli effetti delle viscere materne di Misericordia di Dio: una volta concesso il perdono, Dio dimentica in modo radicale ogni nostro peccato. Per così dire, nell’hard disk della sua memoria, grazie alla potenza della sua Misericordia, non ne resta traccia.
Di conseguenza, sentiamo nascere spiritualmente in noi il bisogno di imitare Dio, come garanzia che davvero Dio ci abbia perdonato: perdonare al punto da cancellare in noi il ricordo dei torti subiti da parte dei confratelli, delle sopraffazioni, dei pettegolezzi, delle calunnie, delle parole pesanti, delle animosità, delle umiliazioni, delle denigrazioni, delle insinuazioni malevoli, delle delazioni, delle indifferenze, delle battute ironiche e pesanti … tutto ciò insomma che ci ha fatto star male, che ci ha fatto male. Se Dio è misericordioso con noi non perché ce lo meritiamo, ma perché ne abbiamo bisogno, anche noi vogliamo essere disposti alla Misericordia verso i nostri confratelli, non perché se lo meritano, ma perché ne hanno bisogno e perché sono fratelli, non meno di quelli di sangue, in virtù del sacramento dell’Ordine. Certo, ci occorre una buona dose di buon senso, di pazienza e di umiltà. Sentiamo allora particolarmente rivolta a noi l’esortazione di Paolo agli Efesini: «Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4, 32). Non dimentichiamo mai che la condizione per essere perdonati da Dio è la disponibilità reale di perdonarci tra di noi (cf Mt 6, 14-15.18,35).
Per questo, pur consapevoli che un Anno Giubilare non si consuma in un gesto, ma si sviluppa in un processo spirituale di lunga durata, vogliamo, tutti concordi, che il segno della pace che ci scambieremo prima della Comunione, in questa Messa Crismale, sia un abbraccio non di cortesia affrettata, ma “liturgico-sacramentale”, come dovrebbe essere sempre: di Misericordia ricevuta da Dio in Cristo Gesù e di Misericordia donata ai confratelli che riscatta e rappacifica reciprocamente il cuore. Senza tenere nei caveaux sotterranei residui di rancore e di polveri sottili di reminiscenze negative. Ci sia tra noi un vero condono giubilare fraterno. Un vero condono giubilare in questo Anno Giubilare per noi. Che ci fa ripartire tutti “riscattati e risanati, ariosi ed entusiasti”. Per una più efficace opera di evangelizzazione. Ci chiederemo scusa reciprocamente e attraverso l’abbraccio di pace con i vicini lo scambieremo con l’intero Presbiterio. Nessuno escluso. Da parte mia lo scambierò con tutti i Vicari foranei e con i Canonici. E da parte dei religiosi, come lo scambiassero con tutti i confratelli. Parta da noi la rivoluzione evangelica della Misericordia! Saremo di esempio a quanti sono chiamati al Presbiterato e oggi sono qui con noi. Segniamo un solco profondo che diventi tradizione anche per loro di un bisogno di continua riconciliazione fraterna tra presbiteri. E quale carica profetica per altri, come le comunità religiose, le comunità parrocchiali, i gruppi ecclesiali, le famiglie!
Carissimi presbiteri, non c’è dubbio che siamo nell’occhio del ciclone di un passaggio d’epoca culturale che non ha precedenti. Facciamoci però convinti che il vangelo della gioia, in quanto vangelo della Misericordia, ha come destinatario proprio l’uomo di questa fase della storia, complessa, travagliata e affascinante. E noi ne siamo i ministri. Coraggio! Non lasciamoci prendere dalla paura come gli apostoli sul lago in tempesta. Il Mistero Pasquale, essenzialmente mistero di Misericordia che, in qualità di presidenti dell’assemblea celebriamo ogni giorno e soprattutto ogni domenica, Pasqua settimanale, è finalizzato a questa umanità, alla nostra gente. E siamo certi che non lo celebreremo mai invano, inutilmente: è sovrabbondanza di Misericordia per l’umanità intera!
Maria, Madre di Misericordia ci ottenga il miracolo della riconciliazione fraterna generale, come una sanatio in radice, per ripartire per la missione evangelizzatrice equipaggiati e purificati, credibili agli occhi della nostra gente.

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