Nessuna pace nel mondo senza pace tra religioni

Hans Kung: “Nessuna pace nel mondo senza pace tra religioni”, dichiarando in tal modo la pace religiosa, l’ecumenismo delle religioni, compito primario di tutte le comunità religiose

Joseph Ratzinger ha scritto un libro MOLTE RELIGIONI UN’UNICA ALLEANZA. E a proposito dell’unità nella diversità si è chiesto: “Come può accadere ciò? Come è possibile l’incontro nella diversità delle religioni e fra i contrasti che proprio oggi assumono spesso forme violente? Che tipo di
unità può mai esserci? In quale misura si può almeno tentare di perseguirla? Se ci si sforza di riconoscere degli elementi di contatto nella varietà sconcertante delle religioni mondiali, si può anzitutto distinguere le religioni etniche dalle religioni universali, benché certamente, anche le religioni etniche siano caratterizzate da modelli fondamentali comuni che, a loro volta, sono in modo diverso legati alle grandi credenze delle religioni universali.
“Di conseguenza, tra i due ambiti esiste una sorta di continuo passaggio che ci dà il diritto di concentrare la nostra riflessione sul tema dell’ecumenismo riferito anzitutto alle religioni universali. In esse, allo stato attuale della ricerca, possiamo distinguere due tipi fondamentali, che J.A. Cuttat ha cercato di caratterizzare con i  concetti di “interiorità” e “trascendenza” e che qui, a partire dal loro centro concreto e anche dall’atto centrale del loro culto, mi permetto di contrapporre, certamente con una qualche semplificazione, come tipo teistico e tipo mistico. Per l’ecumenismo delle religioni, se queste diagnosi sono corrette, si offrono due vie: si può tentare di accogliere il modello teistico in quello mistico, considerando quindi il modello mistico come il più ampio, in cui l’eredità teistica può trovare posto, oppure si può tentare di percorrere la via opposta.
“Oggi è entrata in campo una terza alternativa, che vorrei definire “pragmatica”: tutte le religioni dovrebbero rinunciare all’interminabile controversia sulla verità e riconoscere la loro vera essenza, la loro effettiva finalità spirituale, nell’orto prassi, la cui via, ancora una volta, appare chiaramente tracciata dalle sfide del tempo presente. L’orto prassi potrebbe in fondo consistere solo nel servizio alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Le religioni potrebbero conservare tutti i loro credi, forme e riti, ma finalizzati a questa giusta prassi: “Le riconoscerete dai loro frutti”. Potrebbero quindi tutte mantenere le proprie consuetudini; ogni controversia diverrebbe superflua ed esse diventerebbero una cosa sola nella modalità richiesta dalle sfide del momento”(pp. 69-70).
Dopo aver analizzato il modello teistico, mistico e pragmatico Ratzinger Benedetto XVI si pone la domanda: “Che significa questo concretamente? Che cosa ci si può aspettare da una simile lettura del cristianesimo per il dialogo interreligioso? Il modello teistico dell’incarnazione porta più in là rispetto a quello mistico e a quello pragmatico?
“Ebbene, diciamolo subito francamente: chi volesse puntare all’unificazione delle religioni come risultato del dialogo interreligioso, può solo restarne deluso. Nelle nostre circostanze storiche una cosa simile è difficilmente possibile e forse non è nemmeno auspicabile. E allora? Desidero fare tre osservazioni.
Nessuna rinuncia alla verità
La prima: l’incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé.
La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l’uomo, ma lo consegna al calcolo dell’utile, privandolo della sua grandezza.
Vanno invece incoraggiati il rispetto profondo per la fede dell’altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata  la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse.
Va inoltre incoraggiata la disponibilità ad abbandonare la ristrettezza del nostro modo di intendere la verità, così da comprendere meglio ciò che ci appartiene, imparando a capire l’altro e lasciandoci così guidare sulla strada del Dio più grande – nella convinzione di non possedere pienamente la verità su Dio e di essere sempre dinnanzi a essa persone che imparano, pellegrini alla sua ricerca, su una strada che mai avrà fine.
Critiche anche alla propria religione
Seconda osservazione: se le cose stanno così, se bisogna cioè cercare sempre il positivo anche nell’altro e se, quindi, anche l’altro deve diventare per me un aiuto sulla strada verso la verità, non può e non deve mancare però l’elemento critico. La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l’uomo da essa. La critica della religione presente nell’Antico Testamento oggi non ha affatto perso la sua fondatezza. Può risultare relativamente facile porsi in un atteggiamento critico nei confronti di un’altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche a noi stessi, alla nostra religione.
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza religione è irreale, essa implica la religione, e la fede deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione nell’affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d’altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
Annuncio come processo dialogico
Terza osservazione: significa questo che la missione deve venir meno ed essere sostituita dal dialogo, in cui ciò che conta non è la verità ma l’aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei musulmani, induisti o buddisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui – con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio – non prenderemo sul serio né noi né gli altri e rinunceremo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.
Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall’altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si cominciasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.
Questa è certamente un’eventualità reale e lo sarà forse sempre di più in un mondo che in molte parti sta diventando ateo. Ma nel mondo delle religioni incontriamo uomini che attraverso la loro religione hanno una percezione di Dio e cercano di vivere in rapporto con Lui. Per questo l’annuncio deve diventare necessariamente un processo dialogico. All’altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede.
E d’altra parte colui che annuncia non è semplicemente uno che dà, ma è anche uno che riceve. In questo senso nel dialogo interreligioso dovrebbe avvenire quello che Cusano ha espresso come desiderio e speranza nella sua visione del concilio celeste: il dialogo tra religioni dovrebbe diventare sempre più un ascolto del Verbo, che ci indica l’unità in mezzo alle nostre divisioni e contraddizioni” (pp. 82-85).

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