Sussurro al cuore e grido sui tetti
L’evangelizzazione è inscindibilmente sussurro al cuore da persona a persona e grido, piena cittadinanza nella cultura alla fede cristiana
Anche la seconda
omelia si concentra su due aspetti inscindibili nella gioia
dell’evangelizzazione: il sussurro come un grido al cuore di ogni persona per
cui la fede si comunica da persona a persona dando slancio, movimento,
rivoluzione cioè grido alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa
alla fede piena cittadinanza, predicando sui tetti della comunicazione. “Vorrei
che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida
dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una
concordia che nasca “Dalla gioia del Vangelo”, che “riempie il cuore e la vita
intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da
Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore,
dall’isolamento” (Evangelii gaudium, n.1), dalla coscienza isolata. Noi qui
riuniti, tutti insieme alla mensa con Gesù, diventiamo un grido, un clamore
nato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge verso l’unità e “segnala
un orizzonte bello, un banchetto desiderabile”(ibid, 14). Anche qui il metodo
dell’attualizzazione del Vangelo: Papa Francesco è partito dalle ore precedenti
alla Passione, quando Gesù “sta sperimentando nella propria carne il peggio di
questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento,
però non nasconde la testa, però non si nasconde, non si lamenta”. Anche noi
“constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato da guerre e dalla
violenza”. Ma il Signore “ci invia ad amare proprio questo mondo che ci sfida,
con i suoi egoismi, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere
che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia
il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità”. E’ questo il
senso di rivoluzione più volte ripetuto da Papa Francesco: ”Fratelli, abbiate
gli stessi sentimenti di Gesù: siate una testimonianza di comunione fraterna
che diventa risplendente”. “Questo significa evangelizzare, questa è la nostra
rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo è il
nostro più profondo e costante grido”. Benedetto XVI nel 2008 in Germania ha
detto ai giovani che i veri rivoluzionari sono i santi.
Abbiamo visto in concreto l’Evangelii gaudium
con celebrazioni eucaristiche veramente fedeli alla liturgia cattolica e
partecipate da tutti con la propria identità.
“La
parola di Dio ci invita a vivere l’unità perché il mondo creda.
Immagino
quel sussurro di Gesù nell’ultima cena come un grido, in questa Messa che
celebriamo nella Piazza del Bicentenario. Immaginiamoli insieme. il
Bicentenario di quel grido di indipendenza dell’America Ispanofona. Quello è
stato un grido nato dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere
spremuti e saccheggiati, «soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di
turno» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 213).
Vorrei
che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida
dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una
concordia che nasca “dalla gioia del Vangelo”, che «riempie il cuore e la vita
intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da
Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore,
dall’isolamento» (ibid., 1), dalla coscienza isolata. Noi qui riuniti, tutti
insieme alla mensa con Gesù, diventiamo
un grido, un clamorenato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge
verso l’unità e «segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14).
“Padre,
che siano una cosa sola perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21): così Gesù manifestò il suo
desiderio guardando il cielo. Nel cuore di Gesù sorge questa domanda in un
contesto di invio: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati
nel mondo» (Gv 17,18).
In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di
questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento,
però non si nasconde, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che
viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza. Sarebbe
superficiale ritenere che la divisione e l’odio riguardano soltanto le tensioni
tra i Paesi o i gruppi sociali. In realtà, sono manifestazioni di quel “diffuso
individualismo” che ci separa e ci pone l’uno contro l’altro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 99),
frutto della ferita del peccato nel cuore delle persone, le cui conseguenze si
riversano anche sulla società e su tutto il creato. Proprio a questo mondo che
ci sfida, con i suoi egoismi, Gesù ci invia, e la nostra risposta non è fare
finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La
nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito
dell’unità.
A
quel grido di libertà che proruppe poco più di 200 anni fa non mancò né
convinzione né forza, ma la storia ci dice che fu decisivo solo quando lasciò
da parte i personalismi, l’aspirazione ad un’unica autorità, la mancanza di
comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma
non per questo antagoniste.
E
l’evangelizzazione può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità,
di sogni e persino di certe utopie. Certamente lo può essere e questo noi
crediamo e gridiamo. Già ho avuto modo di dire: «Mentre nel mondo, specialmente
in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani
insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di
costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci a portare i pesi gli uni degli
altri» (ibid., 67). L’anelito all’unità suppone la dolce e confortante
gioia di evangelizzare, la convinzione di avere un bene immenso da comunicare,
e che, comunicandolo, si radica; e qualsiasi persona che abbia vissuto questa
esperienza acquisisce una sensibilità più elevata nei confronti delle necessità
altrui (cfr ibid., 9). Da qui, la necessità di lottare per l’inclusione a
tutti i livelli, lottare per l’inclusione a tutti i livelli!, evitando egoismi,
promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione. «Bisogna
affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze … Affidarsi all’altro è qualcosa di
artigianale, la pace è artigianale» (ibid., 244). E’ impensabile che risplenda l’unità se la
mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di
potere, prestigio, piacere o sicurezza economica. E questo sulle spalle dei più
poveri, dei più esclusi, dei più indifesi, di quelli che non perdono la loro
dignità a dispetto del fatto che la colpiscono tutti i giorni.
Questa
unità è già un’azione missionaria “perché il mondo creda”. L’evangelizzazione
non consiste nel fare proselitismo – il proselitismo è una caricatura
dell’evangelizzazione – ma nell’attrarre con la nostra testimonianza i lontani,
nell’avvicinarsi umilmente a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla
Chiesa, avvicinarsi a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da
quelli che si sentono perfetti e puri. Avvicinarci a quelli che hanno paura o
agli indifferenti per dire loro: «Il Signore chiama anche te ad essere parte del
suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore» (ibid., 113). Perché il nostro Dio ci rispetta persino nella
nostra bassezza e nel nostro peccato. Questa chiamata del Signore con che
umiltà e con che rispetto lo descrive il testo dell’Apocalisse: Vedi? Sto alla
porta e chiamo; se vuoi aprire…; non forza, non fa saltare la serratura, semplicemente
suona il campanello, bussa dolcemente e aspetta. Questo è il nostro Dio!
La
missione della Chiesa, come sacramento di salvezza, è coerente con la sua
identità di Popolo in cammino, con la vocazione di incorporare nel suo sviluppo
tutte le nazioni della terra.
Quanto
più intensa è la comunione tra di noi, tanto più sarà favorita la missione (cfr
Giovanni Paolo II, Pastores gregis, 22) Porre la Chiesa in stato di
missione ci chiede di ricreare la comunione, dunque non si tratta solo di
un’azione verso l’esterno; noi siamo missionari anche verso l’interno e verso
l’esterno manifestandoci come si manifesta «una madre che va incontro, una casa
accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria» (Documento
di Aparecida, 370).
Questo
sogno di Gesù è possibile perché ci ha consacrato: «per loro io consacro me
stesso – dice -, perché anch’essi siano consacrati nella verità» (Gv 17,19). La vita spirituale
dell’evangelizzatore nasce da questa verità così profonda, che non si confonde
con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo – una spiritualità
piuttosto diffusa -; Gesù ci consacra per suscitare un incontro con Lui, da
persona a persona, un incontro che alimenta l’incontro con gli altri, l’impegno
nel mondo, la passione evangelizzatrice (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 78).
L’intimità
di Dio, per noi
incomprensibile, ci si rivela con immagini che ci parlano di comunione,
comunicazione, donazione, amore. Per questo l’unione che chiede Gesù non è
uniformità ma la «multiforme armonia che attrae» (ibid., 117). L’immensa ricchezza del diverso, il molteplice che
raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci
allontana da tentazioni di proposte integraliste, più simili a dittature,
ideologie o settarismi. La proposta di Gesù è concreta, non è un’idea, è
concreta: “Va’ e fa’ lo stesso”, dice a quell’uomo che gli chiede: “Chi è il
mio prossimo?”, dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano: “Va’ e
fa’ lo stesso”.
La
proposta di Gesù non è neppure un aggiustamento fatto a nostra misura, nel
quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed
escludiamo gli altri. Una religiosità di élite… Gesù prega perché formiamo
parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo
fratelli. Nessuno è escluso, e questo non trova il suo fondamento nell’avere
gli medesimi gusti, le stesse preoccupazioni, gli talenti. Siamo fratelli
perché, per amore, Dio ci ha creato e ci ha destinati, per pura sua iniziativa,
ad essere suoi figli (cfr Ef 1,5). Siamo fratelli perché «Dio ha
infuso nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: Abbà!, Padre!» (Gal 4,6). Siamo fratelli perché,
giustificati dal sangue di Cristo Gesù (cfr Rm 5,9), siamo passati dalla morte
alla vita diventando «coeredi» della promessa (cfr Gal 3,26-29; Rm 8,17). Questa è la salvezza che Dio
compie e che la Chiesa annuncia con gioia: fare parte di un “noi” che porta
fino al “noi” divino.
Il
nostro grido, in questo luogo che ricorda quel primo grido di libertà, attualizza
quello di san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). E’ tanto urgente e pressante
come quello che manifestava il desiderio di indipendenza. Ha un fascino simile,
ha lo stesso fuoco che attrae. Fratelli, abbiate i sentimenti di Gesù! Siate
una testimonianza di comunione fraterna che diventa risplendente!
E che
bello sarebbe che tutti potessero ammirare come noi ci prendiamo cura gli uni
degli altri, come ci diamo mutuamente conforto e come ci accompagniamo! Il dono
di sé è quello che stabilisce la relazione interpersonale che non si genera
dando “cose”, ma dando sé stessi. In qualsiasi donazione si offre la
propria persona. “Darsi” significa lasciare agire in sé stessi tutta la potenza
dell’amore che è lo Spirito di Dio e in tal modo aprirsi alla sua forza
creatrice. E darsi anche nei momenti più difficili, come in quel Giovedì Santo
di Gesù in cui Lui sapeva come si tessevano i tradimenti e gli intrighi, ma si
donò, si donò, si donò a noi con il suo progetto di salvezza. L’uomo donandosi
si incontra nuovamente con sé stesso, con la sua vera identità di figlio di
Dio, somigliante al Padre e, in comunione con Lui, datore di vita, fratello di
Gesù, del quale rende testimonianza. Questo significa evangelizzare, questa è
la nostra rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo
è il nostro più profondo e costante grido” (Papa Francesco, Quito, 7 luglio 2015).
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