Il destino dell’occidente e la secolarizzazione
Il destino dell’occidente e la secolarizzazione: il vero senso, in questo contesto della dottrina Sociale.
Due
interventi di Stefano Fontana pubblicati dall’Osservatorio Internazionale
Cardinale Van Thuan, cui aggiungo il n. 25 e 26 Dalla Spe salvi di Benedetto
XVI
Il destino dell’Occidente è legato al tema della
secolarizzazione, tema che purtroppo continua a sfuggirci nelle sue dimensioni
più profonde. Non temo di segnalare questa mancanza di comprensione: del
processo di secolarizzazione non abbiamo ancora compreso tutto quello che serve
comprendere.
I cattolici in particolare – i laici, a partire da Karl
Löwith hanno visto forse più in profondità – hanno espresso una sorprendente
ingenuità circa il processo di secolarizzazione. Lo hanno confuso con la
legittima
autonomia delle realtà terrene, con la laicità, con l’ambito dei
diritti umani, oppure con il piano naturale rispetto a quello soprannaturale.
Sono tutte interpretazioni corrette ma ampiamente
insufficienti. La secolarizzazione si è rivelata essere molto di più e di
peggio.
Una lunga fase storica dei cattolici è stata caratterizzata
dall’ingenua illusione che la secolarizzazione fosse cosa in sé buona e che
potesse fermarsi ad un livello di compatibilità con la fede cattolica. Forse potremmo
indicare Jacques Maritain come il campione di questa lunga fase che, per altro,
ha molti altri protagonisti. E’ sorprendente leggere oggi “L’uomo e lo Stato”,
con quella fiducia infondata su una fede ed una morale comune laica e
democratica che già ai tempi di Maritain era in via di dissoluzione. Del resto,
l’ottuagenario Maritain ripensava criticamente a tutto ciò ne “Il contadino
della Garonna”.
A lungo i cattolici hanno cercato di convergere con gli
altri sulla persona umana ed intanto la secolarizzazione aveva secolarizzato la
persona umana. Di dialogare con gli altri sul piano della natura e intanto la
secolarizzazione secolarizzava la natura. Ci si è a lungo illusi di fondare
l’incontro sulla libertà e intanto la secolarizzazione rendeva gli uomini non
più desiderosi di essere liberi. La ragione, e la verità, sono stati
individuati da Benedetto XVI come interlocutori privilegiati della fede e
intanto la secolarizzazione secolarizzava la stessa ragione, al punto da
renderla irriconoscibile alla fede.
L’attuale “crisi antropologica” che sta svuotando
l’Occidente di se stesso è, in fondo, frutto del processo di secolarizzazione,
il quale non finisce mai. La secolarizzazione è un processo vorace ed
insaziabile. Su questo ci siamo illusi a lungo. All’inizio sembrava riguardare
solo la religione, poi ha secolarizzato anche la morale ed ora sta
secolarizzando la natura umana in quanto tale. L’ideologia del gender è la
completa secolarizzazione della natura umana e della natura in genere.
I cattolici si sono divisi in due schieramenti. La teologia
di Karl Rahner ha accettato e battezzato la secolarizzazione, sostituendo il
mondo alla Chiesa come evento dell’auto comunicazione di Dio e unificando
storia sacra e storia profana. Col Concilio la Chiesa si è “aperta al mondo”, e
quindi anche alla secolarizzazione. Ma nel post concilio – a seguito della
diffusione della teologia rahneriana – ha accettato la sostituzione del mondo a
se stessa. La Chiesa che condivide questa impostazione non solo oggi accetta la
secolarizzazione ma la promuove. L’altro campo è occupato dal tradizionalismo,
che si pone in antagonismo con la secolarizzazione. Esso è costretto a rimanere
attaccato alla natura, riesce così a salvaguardare la tradizione ma non riesce
a farla diventare storia.
Quali sono i punti da chiarire sulla secolarizzazione in
modo da riuscire a comprendere il fenomeno e a dare all’Occidente qualche
chance rispetto al nichilismo che lo estenua?
Il primo è che la secolarizzazione spietata di oggi ha una
dimensione assoluta, è un nuovo assoluto che si contrappone alla religione
cattolica come da assoluto ad assoluto. La secolarizzazione non si ferma su un
piano di neutralità, tanto è vero che, per esempio, la negazione della natura
si esprime riplasmando una nuova natura.
Il secondo è che essa avviene non teoricamente ma
praticamente, ossia facendo fare alle persone delle cose. Mettendo in mano alla
gente nuove tecniche, nuove possibilità e chance di vita, nuovi modi di
relazionarsi, di lavorare, di impiegare il tempo libero, di vestire, di
divertirsi.
Senza approfondire la nostra conoscenza di questi due
aspetti non riusciremo a fermare e invertire il processo.
Il vero senso della Dottrina Sociale
Anche per Papa Francesco avviene quanto già accaduto per i
precedenti Pontefici. C’è chi dice che sul piano economico è di sinistra, ossia
contro il mercato, chi invece che è di destra, perché vorrebbe moralizzare il
mercato, cioè lubrificarlo meglio. C’è anche chi dice che di economia non ne
capisce niente e che sarebbe meglio si astenesse. Quando uscì la Centesimus
annus, nell’ormai lontano 1991, Giovanni Paolo II fu accusato di
neocapitalismo in quanto aveva elogiato l’impresa e l’imprenditore e affermato
la bontà del profitto. Dopo la pubblicazione della Caritas in veritate,
nel 2009, numerosi circoli di politica economica statunitensi criticarono
Benedetto XVI per i motivi opposti: retorica del dono e scarsa attenzione alle
istituzioni economiche. Come ha recentemente documentato Sandro Magister nel su
blog, qualcosa del genere sta avvenendo anche per Papa Francesco.
Da un certo di punto di vista la cosa è persino ovvia.
Questi approcci assumono un punto di vista particolare e lo proiettano
sull’enciclica di volta in volta in questione. La vedono quindi in modo
parziale. Più spesso, però, il motivo è più profondo: non si sa bene cosa sia
la Dottrina sociale della Chiesa e quindi la si distorce, non prendendola per
quello che è. Questo, però, non è colpa solo di affrettati e tendenziosi
interpreti.
La Dottrina sociale della Chiesa è prima di tutto l’annuncio
della dimensione pubblica della fede cattolica, della salvezza di Cristo che
riguarda anche l’ordine temporale – quindi la giustizia e la pace – dato che
Cristo è venuto per la salvezza di tutto l’uomo. La Dottrina sociale pretende
che nella fede apostolica sia contenuto qualcosa di fondamentale che riguarda
anche l’organizzazione della vita umana su questa terra, dato che la vocazione
alla salvezza è unica e in questa vita sono in gioco valori assoluti che
splenderanno in quella eterna.
La Dottrina sociale della Chiesa è appunto “della Chiesa” ed
è quindi connessa – non come pura appendice – con la dottrina della fede, la
vita sacramentale e liturgica e con l’intera tradizione apostolica. Poiché essa
riguarda l’agire dei cristiani nel mondo, sia come singoli che come comunità
ecclesiale, appartiene alla teologia morale, ma non è proprietà dei teologi
moralisti. E’ “della Chiesa” e come tale è anche una categoria a sé.
Non bisogna mai dimenticare questo orizzonte quando si esaminano
le indicazioni politiche, economiche o sociali dei documenti del magistero
sociale. E’, appunto, quando lo si dimentica che poi si finisce per sostenere
che il tale Papa è neocapitalista o neosocialista. La Dottrina sociale della
Chiesa contiene anche elementi di pura ragione e principi e orientamenti di
legge naturale che possono essere condivisi da tutti, anche dai non credenti.
Ma ciò non significa che questi elementi non dogmatici né dottrinali non
ricevano la loro piena luce dal complesso della fede cattolica. Da qui i
possibili equivoci da parte di chi prescinde da questo più ampio contesto. In
altre parole, anche il non credente non dovrebbe accostarsi alla Dottrina
sociale della Chiesa come se non fosse “della Chiesa” e non implicasse tutta la
fede cattolica. Cosa difficile, ma non impossibile.
Del resto accade spesso così anche quando ad interpretarla
sono i fedeli cattolici. Il motivo strutturale è presto detto. I testi del
magistero sociale hanno bisogno di essere accompagnati e adeguatamente mediati
in una paziente opera educativa. Non basta organizzare la serata sull’ultima
enciclica. Serve un percorso coerente che parta dai documenti del Magistero –
anzi anche da ben prima – ed arrivi a indicazioni generali di impegno con sani
criteri formativi. Ora, da un lato questo non è mai avvenuto perché non è mai
partita una vera pastorale sociale degna di questo nome, dall’altro quando
avviene, avviene tramite visioni teologiche e filosofiche disturbanti e
devianti. In questo caso fa più male che bene.
I punti nevralgici di una simile (assente ma necessaria)
formazione sono soprattutto due. Il primo era stato evidenziato dalla Nota
su alcuni aspetti dell’evangelizzazione della Congregazione per la Dottrina
della Fede del 3 dicembre 2007: la Dottrina sociale della Chiesa ha per scopo
l’evangelizzazione e non la partecipazione, la piena occupazione e l’equità
fiscale, che verranno semmai di conseguenza. Il secondo è la questione della
collaborazione dei cattolici con correnti filosofiche e politiche altre. Questa
non deve essere ingenua. Non c’è dubbio che anche il Leoncavallo troverà
qualcosa di buono in qualche frase della Evangelii Gaudium, però la
contestualizza poi in un universo deformante. I cattolici non possono andare a
braccetto con tutti.
Ricordo infine un alto aspetto. Proprio per prevenire le
deformazioni di cui stiamo parlando è bene che i testi magisteriali siano
chiari e non si avventurino con troppa facilità in terreni scivolosi che non
sono loro propri. Ricordo che Giovanni Paolo nel Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace del 1990 scrisse contro «la distruzione progressiva dello
strato di ozono e l’effetto serra ... a seguito dello sviluppo costante
... del consumo di energia». Una presa di posizione forse troppo dipendente
dallo sviluppo scientifico del momento che infatti non fu poi più ripresa in
questi termini dettagliati. Nei documenti magisteriali non è bene prendere a
prestito concetti e valutazioni dalla sociologia o dalla scienza contemporanea
che non sono certi. E non è da escludere che anche oggi, nell’ansia di
comunicare, alcune espressioni prese troppo facilmente dalla cronaca economica
o politica inducano poi a interpretazioni inopportune.
Questi due articoli di Stefano Fontana sono un contributo al
Convegno della Chiesa italiana sull’umanesimo. Penso utile riportare anche il
n. 24 e 25 della Spe salvi di
Benedetto XVI:
24. “Chiediamoci: che cosa sperare? E che cosa
non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile
è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle
strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate,
si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più
grande della natura. Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della
decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice
motivo della libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere
le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in
tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle
decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio.
Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle
esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro
morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può
avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale
dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso
esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa. Ma ciò significa:
a) il retto uso delle
cose umane non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per
quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie;
esse tuttavia non possono e non devono metter fuori gioco la libertà dell’uomo.
Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive
delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera
adesione all’ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione;
una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata
comunitariamente.
b) Poiché l’uomo
rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non
esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi
promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una
promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo
essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai
semplicemente da sé. Se ci fossero
strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona –condizione
del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non
sarebbero, in definiva, per nulla strutture buone.
25. Conseguenza di
quanto detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le
cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente
concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo
per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di bene, che aiutino la
generazione successiva come orientamento per l’uso retto della libertà umana e
diano così, sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In
altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non
può mai essere redento semplicemente dall’esterno. Francesco Bacone e gli
aderenti alla corrente di pensiero dell’età moderna a lui ispirata, nel
ritenere che l’uomo sarebbe stato redento mediante scienza (cioè in modo
secolarizzato), sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza,
questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto
all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere
l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori
di essa. D’altra parte dobbiamo constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva
strutturazione (secolare) del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto
sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua
speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo
compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella
cura dei deboli e dei sofferenti.
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