La barca di Pietro sballottata dalle onde

Di fronte a reazioni provocate dalla coerenza e trasparenza di questo pontefice Papa Francesco non sembra esserne più di tanto spaventato. “La notte e il potere delle tenebre sono sempre vicini”, anche “la barca di Pietro può essere sballottata dalle onde”. Esattamente come lo fu la Compagnia di Gesù quando venne soppressa tre secoli fa. Nella Chiesa di Gesù il Papa, davanti alla tomba di Sant’Ignazio, traccia un paragone tra ieri e oggi. “Costa fatica remare” dice. Ma anche lui “rema insieme a tutti gli altri” e col “vento contrario”. Poi rivolto ai gesuiti che si trovano lì per celebrare il 200esimo anniversario della ricostituzione dell’ordine religioso, ma anche a tutta la Chiesa cattolica, incalza: i gesuiti devono essere rematori esperti. “Remate dunque. Remate, siate forti”. Ma poi, soprattutto: “dobbiamo pregare tanto” perché Dio possa storicamente intervenire col dono soprannaturale del suo aiuto.

Cari fratelli e amici nel Signore,
la Compagnia insignita del nome di Gesù ha vissuto tempi difficili, di persecuzione. Durante il generalato del p. Lorenzo Ricci «i nemici della Chiesa giunsero ad ottenere la
soppressione della Compagnia» (Giovanni Paolo II, Messaggio a p. Kolvenbach, 31 luglio 1990) da parte del mio predecessore Clemente XIV. Oggi, ricordando la sua ricostituzione, siamo chiamati a recuperare la nostra memoria, a fare memoria, richiamando alla mente i benefici ricevuti e i doni particolari (cfr Esercizi Spirituali, 234). E oggi voglio farlo qui con voi.
In tempi di tribolazione e di turbamento si solleva sempre un polverone di dubbi e di sofferenze, e non è facile andare avanti, proseguire il cammino. Soprattutto nei tempi difficili e di crisi vengono tante tentazioni: fermarsi a discutere di idee, lasciarsi trasportare dalla desolazione, concentrarsi sul fatto di essere perseguitati e non vedere altro. Leggendo le lettere del p. Ricci una cosa mi ha molto colpito: la sua capacità di non farsi imbrigliare da queste tentazioni e di proporre ai gesuiti, in tempo di tribolazione, una visione delle cose che li radicava ancora di più nella spiritualità della Compagnia.
Il p. Generale Ricci, che scriveva ai gesuiti di allora vedendo le nubi addensarsi all’orizzonte, li fortificava nella loro appartenenza al corpo della Compagnia e alla sua missione. Ecco: in un tempo di confusione e di turbamento ha fatto discernimento. Non ha perso tempo a discutere di idee e a lamentarsi, ma si è fatto carico della vocazione della Compagnia. Lui doveva custodirla, e si è fatto carico.
E questo atteggiamento ha portato i gesuiti a fare l’esperienza della morte e risurrezione del Signore. Davanti alla perdita di tutto, perfino della loro identità pubblica, non hanno fatto resistenza alla volontà di Dio, non hanno resistito al conflitto cercando di salvare sé stessi. La Compagnia – e questo è bello – ha vissuto il conflitto fino in fondo, senza ridurlo: ha vissuto l’umiliazione con Cristo umiliato, ha ubbidito. Non ci si salva mai dal conflitto con la furbizia e con gli stratagemmi per resistere. Nella confusione e davanti all’umiliazione la Compagnia ha preferito vivere il discernimento della volontà di Dio, senza cercare un modo per uscire dal conflitto in modo apparentemente tranquillo. O almeno elegante: non lo ha fatto.
Non è mai l’apparente tranquillità ad appagare il nostro cuore, ma la vera pace che è dono di Dio. Non si deve mai cercare il «compromesso» facile né si devono praticare facili «irenismi». Solo il discernimento ci salva dal vero sradicamento, dalla vera «soppressione» del cuore, che è l’egoismo, la mondanità, la perdita del nostro orizzonte, della nostra speranza, che è Gesù, che è solo Gesù. E così il p. Ricci e la Compagnia in fase di soppressione ha privilegiato la storia rispetto a una possibile «storiella» grigia, sapendo che è l’amore a giudicare la storia, e che la speranza – anche nel buio – è più grande delle nostre attese.
Il discernimento deve essere fatto con intenzione retta, con occhio semplice. Per questo il p. Ricci giunge, proprio in questa occasione di confusione e di smarrimento, a parlare dei peccati dei gesuiti. Sembra fare pubblicità al contrario! Non si difende sentendosi vittima della storia, ma si riconosce peccatore. Guardare a se stessi riconoscendosi peccatori evita di porsi nella condizione di considerarsi vittime davanti a un carnefice. Riconoscersi peccatori, riconoscersi davvero peccatori, significa mettersi nell’atteggiamento giusto per ricevere la consolazione.
Possiamo ripercorrere brevemente questo cammino di discernimento e di servizio che il padre Generale indicò alla Compagnia. Quando nel 1759 i decreti di Pombal distrussero le province portoghesi della Compagnia, il p. Ricci visse il conflitto non lamentandosi e lasciandosi andare alla desolazione, ma invitando alla preghiera per chiedere lo spirito buono, il vero spirito soprannaturale della vocazione, la perfetta docilità alla grazia di Dio. Quando nel 1761 la tempesta avanzava in Francia, il padre Generale chiese di porre tutta la fiducia in Dio. Voleva che si approfittasse delle prove subite per una maggiore purificazione interiore: esse ci conducono a Dio e possono servire per la sua maggior gloria; poi raccomanda la preghiera, la santità della vita, l’umiltà e lo spirito di obbedienza. Nel 1767, dopo l’espulsione dei gesuiti spagnoli, ancora continua a invitare alla preghiera. E infine, il 21 febbraio 1773, appena sei mesi prima della firma del Breve Dominus ac Redemptor, davanti alla totale mancanza di aiuti umani, vede la mano della misericordia di Dio che invita coloro che sottopone alla prova a non confidare in altri che non sia solamente Lui. La fiducia deve crescere proprio quando le circostanze ci buttano a terra. L’importante per il padre Ricci è che la Compagnia fino all’ultimo sia fedele allo spirito della sua vocazione, che è la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime.
La Compagnia, anche davanti alla sua stessa fine, è rimasta fedele al fine per il quale è stata fondata. Per questo Ricci conclude con una esortazione a mantenere vivo lo spirito di carità, di unione, di obbedienza, di pazienza, di semplicità evangelica, di vera amicizia con Dio. Tutto il resto è mondanità. La fiamma della maggior gloria di Dio anche oggi ci attraversi, bruciando ogni compiacimento e avvolgendoci in una fiamma che abbiamo dentro, che ci concentra e ci espande, c’ingrandisce e ci rimpicciolisce.
Così la Compagnia ha vissuto la prova suprema del sacrificio che ingiustamente le veniva chiesto facendo propria la preghiera di Tobi, che con l’animo affranto dal dolore sospira, piange e poi prega: «Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere. Ogni tua via è misericordia e verità. Tu sei il giudice del mondo. Ora, Signore, ricordati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. Violando i tuoi comandi, abbiamo peccato davanti a te. Ci hai consegnato al saccheggio; ci hai abbandonato alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi». E conclude con la richiesta più importante: «Signore, non distogliere da me il tuo volto» (Tb 3,1-4.6d).
E il Signore rispose mandando Raffaele a togliere le macchie bianche dagli occhi di Tobi, perché tornasse a vedere la luce di Dio. Dio è misericordioso, Dio corona di misericordia. Dio ci vuol bene e ci salva. A volte il cammino che conduce alla vita è stretto e angusto, ma la tribolazione, se vissuta alla luce della misericordia, ci purifica come il fuoco, ci dà tanta consolazione e infiamma il nostro cuore affezionandolo alla preghiera. I nostri fratelli gesuiti nella soppressione furono ferventi nello spirito e nel servizio del Signore, lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera (cfr Rm 12,13). E questo ha dato onore alla Compagnia, non certamente gli encomi dei suoi meriti. Così sarà sempre.
Ricordiamoci la nostra storia: alla Compagnia «è stata data la grazia non solo di credere nel Signore, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1,29). Ci fa bene ricordare questo.
La nave della Compagnia è stata sballottata dalle onde e non c’è da meravigliarsi di questo. Anche la barca di Pietro lo può essere oggi. La notte e il potere delle tenebre sono sempre vicini. Costa fatica remare. I gesuiti devono essere «rematori esperti e valorosi» (Pio VII, Sollecitudo omnium ecclesiarum): remate dunque! Remate, siate forti, anche col vento contrario! Remiamo a servizio della Chiesa. Remiamo insieme! Ma mentre remiamo – tutti remiamo, anche il Papa rema nella barca di Pietro – dobbiamo pregare tanto: «Signore, salvaci!», «Signore salva il tuo popolo!». Il Signore, anche se siamo uomini di poca fede e peccatori ci salverà. Speriamo nel Signore! Speriamo sempre nel Signore!
La Compagnia ricostituita dal mio predecessore Pio VII era fatta di uomini coraggiosi e umili nella loro testimonianza di speranza, di amore e di creatività apostolica, quella dello Spirito. Pio VII scrisse di voler ricostituire la Compagnia per «sovvenire in maniera adeguata alle necessità spirituali del mondo cristiano senza differenza di popoli e di nazioni» (ibid). Per questo egli diede l’autorizzazione ai gesuiti che ancora qua e là esistevano grazie a un sovrano luterano e a una sovrana ortodossa, a «restare uniti in un solo corpo». Che la Compagnia resti unita in un solo corpo!
E la Compagnia è stata subito missionaria e si è messa a disposizione della Sede Apostolica, impegnandosi generosamente «sotto il vessillo della croce per il Signore e il suo vicario in terra» (Formula Instituti, 1). La Compagnia riprese la sua attività apostolica con la predicazione e l’insegnamento, i ministeri spirituali, la ricerca scientifica e l’azione sociale, le missioni e la cura dei poveri, dei sofferenti e degli emarginati.
Oggi la Compagnia affronta con intelligenza e operosità anche il tragico problema dei rifugiati e dei profughi; e si sforza con discernimento di integrare il servizio della fede e la promozione della giustizia, in conformità al Vangelo. Confermo oggi quanto ci disse Paolo VI alla nostra trentaduesima Congregazione generale e che io stesso ho ascoltato con le mie orecchie: «Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti» (Insegnamenti XII (1974), 1181). Sono parole profetiche del futuro beato Paolo VI.
Nel 1814, al momento della ricostituzione, i gesuiti erano un piccolo gregge, una «minima Compagnia», che però si sapeva investito, dopo la prova della croce, della grande missione di portare la luce del Vangelo fino ai confini della terra. Così dobbiamo sentirci noi oggi, dunque: in uscita, in missione. L’identità del gesuita è quella di un uomo che adora Dio solo e ama e serve i suoi fratelli, mostrando attraverso l’esempio non solo in che cosa crede, ma anche in che cosa spera e chi è Colui nel quale ha posto la sua fiducia (cfr 2 Tm 1,12). Il gesuita vuole essere un compagno di Gesù, uno che ha gli stessi sentimenti di Gesù.
La bolla di Pio VII che ricostituiva la Compagnia fu firmata il 7 agosto 1814 presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, dove il nostro santo padre Ignazio celebrò la sua prima Eucaristia nella notte di Natale del 1538. Maria, nostra Signora, Madre della Compagnia, sarà commossa dai nostri sforzi per essere al servizio del suo Figlio. Lei ci custodisca e ci protegga sempre (Papa Francesco, Vesperi nella Chiesa del Gesù, 27 settembre 2014).

Questo intervento non può che fare venire in mente quello che disse il suo predecessore, Benedetto XVI durante uno dei primi giorni di pontificato, rivolgendosi ad una gremita piazza san Pietro: pregate per me, affinché non debba mai “arrestare davanti ai lupi”. Già, le belve come immagini di Satana, pronte ad azzannare l’agnello. Immagini che rispecchiavano i movimenti nascosti della fronda ai tempi di Benedetto XVI, e che evocano quelli che si compattano sotto Francesco. Ma lui, il Papa venuto da molto lontano, testimonia, almeno in pubblico, di non essere turbato e appare con la luce e la forza della fede, della speranza e dell’amore, molto sereno. ”In tempi di tribolazione e turbamento si solleva sempre un polverone di dubbi e sofferenze, e non è facile andare avanti, proseguire il cammino. Soprattutto in tempi difficili e di crisi vengono tante tentazioni, fermarsi a discutere di idee, lasciarsi trasportare dalla desolazione, concentrarsi sul fatto di essere perseguitati e non vedere altro” aggiunge Papa Francesco nell’omelia nella chiesa del Gesù. Non sembra nemmeno prendersela troppo per i litigi tra i cardinali sulle diverse visioni dottrinali riguardanti la famiglia. Anche a pochi giorni dall’inizio del Sinodo sulla famiglia le liti non mancano a distanza ma il suo stile pastoralmente  resta concentrato sull’essenziale.
Tempi tribolati questi che viviamo ma che richiedono pastoralmente, missionariamente, grande serenità interiore. Proprio come ai tempi di padre Lorenzo Ricci, il Generale dei Gesuiti che si vide sopprimere la Compagnia nel 1773 da Clemente XIV. “Leggendo le lettere del padre Ricci una cosa mi ha colpito: la sua capacità di non farsi imbrigliare da queste tentazioni e di proporre ai gesuiti, in tempo di tribolazione, una visione delle cose che li radicava ancora di più nella spiritualità della Compagnia” riflette Bergoglio. “La fiducia in Dio deve crescere e proprio quando le circostanze ci buttano a terra”. Tanto prima o poi la verità cioè la realtà in tutti gli ambiti che ha il futuro di Dio dalla sua parte salta fuori. Lo sa bene anche il Papa emerito, Ratzinger, che non ha mai smesso di dare sostegno a Papa Francesco. E anche alla festa dei nonni è a fianco di Papa Francesco in piazza san Pietro. Ha accettato l’invito uscendo dal convento di preghiera per la Chiesa. Una delle sue rarissime apparizioni pubbliche. Segno che non bisogna mai arretrare davanti ai lupi: il futuro di Dio è sempre dalla parte di chi crede alla verità e all’amore con la sola forza della verità e dell’amore.

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