Dogma e pastorale distinti ma non separati

Il prossimo Sinodo sulla famiglia è atteso da molti con una certa inquietudine. C’è la sensazione di due correnti di pensiero che in quel contesto si misureranno fra loro. In questa fase pre-sinodale, dopo la lezione del Cardinale Kasper, le due correnti stanno predisponendo le truppe, elaborando strategie e tattiche. Molti risolvono il problema
affidandosi al Papa che, così si dice, tirerà poi le somme e farà sintesi. Però il Papa non è lì per fare sintesi tra due o più contendenti in campo, non è un paciere, il mediatore di un dibattito televisivo né il segretario di un partito capace di fare sintesi tra le correnti.

L’inquietudine non si dirada ma, anzi, aumenta man mano che ci avviciniamo alla data di inizio del Sinodo per un motivo semplice nella sua individuabilità ma profondo e difficilmente districabile nella sua complessità. Questo motivo di incertezza e inquietudine è quello del rapporto tra dottrina e pastorale, che una volta si chiamava teoria e prassi e oggi viene chiamato spesso verità e misericordia.

Il tema del Sinodo, si sa, è la famiglia e il matrimonio. In particolare l’attenzione si concentrerà sull’argomento della comunione ai divorziati risposati. Però, a ben vedere, il tema vero, su ci si sarà – umanamente parlando – battaglia è appunto quello della dottrina e della pastorale. Su questo i giochi tattici stanno dando il meglio di sé e la retorica del linguaggio teologico sta già facendo scintille.

Coloro che insistentemente riaffermano la dottrina sul matrimonio e dicono, sicuri, che il Sinodo non la potrà cambiare – da ultimo il cardinale Collins di Toronto – affermano una verità che, alla lettera, va bene anche ai fautori della linea Kasper, la linea del cambiamento. Infatti anch’essi dicono che la dottrina non si tocca, però che sono urgenti alcuni nuovi atteggiamenti pastorali. Tutti sanno, però, che in qualche caso nuovi atteggiamenti pastorali esprimono una nuova concezione della dottrina. I progressisti assicurano di volere solo cambiamenti pastorali e non dottrinali, ma né loro né i loro oppositori credono veramente che saranno solo pastorali. Così facendo, questa fase pre-sinodale non riesce a chiarine granché, nonostante l’enorme mole di discorsi e dichiarazioni, anche di alto livello sia per il contenuto sia per gli autori.

Il fatto è che del rapporto dottrina-pastorale esistono oggi in campo molte visioni, che si possono sommariamente ridurre a due. Per l’una la pastorale dipende dalla dottrina (teologia della pastorale), per l’altra la pastorale è tutt’uno con la dottrina o addirittura viene prima (teologia pastorale). Il magistero ha sempre chiarito che la versione corretta è la prima. Ma la prassi teologica prevalente è ormai da tempo la seconda. Queste due visioni saranno in competizione anche al prossimo Sinodo.

Potremmo anche chiamare le due visioni come una visione metafisica la prima e una visione ermeneutica la seconda. Ed infatti, nella teologia di oggi, metafisica ed ermeneutica sono in lotta tra loro. Uno degli ultimi autorevoli sostenitori della visione metafisica è stato Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, per il quale l’incontro della fede cristiana con il pensiero greco è stato provvidenziale. Ma anche a leggere la Fides et Ratio non c’è dubbio della scelta per la metafisica in luogo dell’ermeneutica. Durante il postconcilio, però, e in competizione col magistero ufficiale, è diventata di moda l’altra visione, quella ermeneutica.

La visione del primato della dottrina sulla pastorale ha bisogno dello strumento della metafisica, che permette di intendere la fede come vera e propria conoscenza di verità sottratte al tempo, pur avendo fondamentali ricadute storiche. La visione del primato della pastorale sulla dottrina ha bisogno, invece, dello strumento dell’ermeneutica, perché qui la verità è intesa come qualcosa da scoprire ed anche da fare. La verità di fede non ci sarebbe data in senso trascendente, metafisico e definitorio, ma esistenzialmente dentro i rapporti spazio-temporali. Delle verità rivelate, quindi, fanno parte sia l’annuncio sia la recezione dell’annuncio in un circolo, appunto, ermeneutico.

Già nel Concilio era emerso il problema su cui in seguito si sono assiepati moltissimi equivoci. Divenne subito chiaro, infatti, che il desiderio di Giovanni XXIII di mantenere salda la dottrina e di pensare a riproporla in modo nuovo presupponeva il primato della dottrina sulla pastorale. Ma emerse subito, soprattutto per l’influenza di Karl Rahner, la visione del primato della pastorale sulla dottrina, che produsse cambiamenti dottrinali partendo da esigenze pastorali.

Succederà così anche al prossimo Sinodo sulla famiglia? Ci sono molte probabilità che l’equivoco continui anche in questa occasione. Finora non ho visto interventi di chiarimento sul vero tema del Sinodo, appunto il rapporto tra dottrina e pastorale. In questa zona nebbiosa si potranno inserire nuovi equivoci, potrà perfino nascere uno “spirito del Sinodo” – per certi versi già in atto con l’ausilio dei media - che farà passare innovazioni dottrinali non mediante la modifica esplicita della dottrina ma mediante una rinnovata prassi pastorale.

Stefano Fontana

Le statistiche sui divorzi nelle moderne società occidentali sono catastrofici. Esse mostrano che il matrimonio non è più visto come una nuova, indipendente realtà che trascende le individualità dei coniugi, una realtà che non può essere dissolta dalla volontà di un solo partner. Ma può essere dissolta dal consenso di entrambe le parti, oppure dalle disposizoni di un Sinodo o del Papa? La risposta è no, per ciò che Cristo stesso ha detto: l’uomo non divida ciò che Dio ha unito. Questo è l’insegnamento della Chiesa cattolica.

La visione cristiana della vita buona ha la pretesa di essere valida per tutti. Anche i discepoli di Gesù furono molto colpiti dalle parole del Maestro: sarebbe meglio – replicarono – non sposarsi? Lo stupore dei discepoli sottolinea il contrasto tra la visione cristiana della vita e quella dominante nel mondo. Che si voglia o no, la Chiesa in occidente sta diventando una controcultura, e il suo futuro dipende primariamente dal fatto di essere in in grado – come sale del mondo – di mantenere il suo sapore senza essere messa sotto i piedi dagli uomini.

La bellezza dell’insegnamento della Chiesa può risplendere solo se non viene annacquato. La tentazione di diluire la dottrina è oggi rafforzata da un fatto: i cattolici divorziano quasi con la stessa frequenza dei laici. Chiaramente c’è qualcosa che non va. E’ irragionevole pensare che tutti i cattolici sposati civilmente e poi risposati avessero dato vita al loro primo matrimonio fermamente convinti della sua indissolubilità e che abbiano poi cambiato parere lungo il percorso. E’ più ragionevole ritenere che si siano sposati senza la chiara consapevolezza di cosa stessero facendo in primo luogo: tagliare i ponti dietro di sè per sempre (ossia fino alla morte), in modo che un’idea di un secondo matrimonio semplicemente non esisteva per loro.

Purtroppo, la Chiesa cattolica non è senza colpe. La preparazione al matrimonio cristiano spesso non riesce a dare alle coppie una visione chiara delle sue implicazioni. Molte coppie decidono così di non sposarsi in Chiesa, per altre una buona preparazione al matrimonio fornisce un buon aiuto alla conversione. C’è un immenso fascino nell’idea che l’unione di un uomo e di una donna è “scritta nelle stelle”, che essa durerà e niente la potrà distruggere, “nella buona e nella cattiva sorte”. Questa convinzione è una meravigliosa fonte di energia e gioia per gli sposi che vivono crisi matrimoniali e cercano di dare un soffio di vita nuova al loro vecchio amore.

Invece di rafforzare il fascino naturale della permanenza del matrimonio, molti uomini di Chiesa, compresi vescovi e cardinali, prefersicono raccomandare, o almeno considerare, un’altra opzione, alternativa all’insegnamento di Gesù e fondamentalmente una capitolazione allo spirito del secolo. Il rimedio all’adulterio conseguente ad un nuovo matrimonio dopo il divorzio - ci dicono - non è il pentimento, l’astinenza, l’oblio ma il passaggio da un habitus ad un altro come se l’approvazione sociale e il nostro personale benessere rispetto alle nostre decisioni e alle nostre vite avessero un potere soprannaturale. Questa alchimia trasforma un concubinaggio adulterino, chiamato “secondo matrimonio”, in una accettabile unione da benedirsi dalla Chiesa nel nome di Dio. Data questa logica, naturalmente, diventa giusto che la Chiesa benedica anche le unioni omosessuali.

Ma questo modo di pensare si basa su un profondo errore. Il tempo non è di per sè creativo. Il suo trascorrere non ristabilisce l’innocenza perduta. La sua tendenza è piuttosto il contrario: aumenta l’entropia. Ogni istanza di ordine in natura viene distorta dall’entropia e col tempo cade nuovamente sotto il suo dominio. Come diceva Anassimando, “Dall’àpeiron le cose provengono e ad esso ritorneranno secondo l’ordine del tempo”. E’ sbagliato presentare il principio della decadenza e della morte come qualcosa di buono. Non possiamo confondere la morte graduale del senso del peccato con la sua scomparsa e tralasciare la nostra responsabilità davanti ad esso.

Il pensiero di Aristotele dice che c’è un male maggiore in un peccato fatto abitualmente che in una singola caduta accompagnata dal rimorso. L’adulterio è un caso di questo genere, specialmente quando conduce a nuove e legali sistemazioni – “secondi matrimoni” – che sono quasi impossibili da annullare senza grande sofferenza e sforzo. Per casi di questo tipo Tommaso d’Aquino adoperava la parola perplexitas. Sono situazioni dalle quali non c’è via d’uscita che non implichi una colpa di un genere o di un altro. Anche un singolo atto di infedeltà intrappola l’adultero nella perplexitas. Deve confessare il suo atto alla moglie o no? Se confessa può salvare il matrimonio ed evitare una bugia che può distruggere la fiducia reciproca. D’altro canto, una confessione può costituire una minaccia al matrimonio più grave del peccato stesso (e questo è il motivo per cui spesso i sacerdoti consigliano i penitenti di non rivelare l’infedeltà alle loro mogli). Si noti che San Tommaso insegna che non si rimane intrappolati nella perplexitas senza una certa qual colpa individuale e che Dio lo permette come punizione per il peccato.

Stare vicino ai nostri fratelli cristiani che si trovano nel mezzo della perplexitas del secondo matrimonio, mostrare empatia nei loro confronti e assicurare loro la solidarietà della comunità, è un’opera di compassione. Ma ammetterli alla comunione senza pentimento e regolarizzare la loro situazione sarebbe un’offesa al Santo Sacramento. Le indicazioni di San Paolo sull’Eucarestia nella prima lettera ai Corinzi culminano in un ammonimento contro una ricezione indegna del Corpo di Cristo: colui che mangia e beve indegnamente mangia e beve la propria condanna. Perché la riforma liturgica non ha collocato questi versi decisivi in tutte le feste e non solo nella seconda lettura del Giovedì Santo e del Corpus Domini? Quando l’intera comunità è in piedi per ricevere la comunione domenica dopo domenica ci si dovrebbe chiedere: le parrocchie cattoliche sono costituite solo da santi?

Ma c’è ancora un ultimo punto, che avrebbe molti diritti di essere considerato il primo. La Chiesa ammette di aver trattato gli abusi sessuali sui minori  senza un sufficiente riguardo per le vittime. Lo stesso schema viene ripetuto qui. Qualcuno ha parlato anche delle vittime? Qualcuno parla della donna che l’uomo ha abbandonato e dei suoi quattro figli? Lei potrebbe volere che tornasse indietro, anche solo per assicurare che possa provvedere ai bambini, ma egli ha una nuova famiglia e non ha intenzione di tornare.  

Intanto il tempo passa. L’adultero vuole ricevere ancora la comunione. E’ pronto a confessare la sua colpa, ma non vuole pagarne il prezzo, ossia una vita di continenza. La donna abbandonata è costretta a vedere che la Chiesa accetta e benedice la nuova unione. Aggiungendo la beffa al danno, il suo abbandono riceve un timbro di approvazione ecclesiale. Sarebbe più onesto sostituire la frase “finché la morte non vi separi” con “finché l’amore di uno di voi due non si raffreddi”. Parlare qui di una “liturgia di benedizione” piuttosto che di un nuovo matrimonio davanti all’altare è un ingannevole colpo di mano che getta solamente polvere negli occhi della gente.

Robert Spaemann

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