La Chiesa non può rinchiudersi nel passato
Ogni momento storico porta con sé possibilità e pericoli per la Chiesa , anche il momento odierno con Papa Francesco impegnato per forme specifiche di tradizioni democratiche della Chiesa offuscate: non è formale la sua continua richiesta di preghiera! E’ sciocco e ingenuo pensare che solo oggi la Chiesa potrebbe davvero realizzare nella maniera giusta il suo compito istituzionale con una struttura più sinodale; e non meno sciocco e ingenuo sarebbe pensare che il momento presente di democratizzazione non avrebbe alcunché da dire alla Chiesa e che essa potrebbe tranquillamente
rinchiudersi nel passato criticando l’intenzione di riforma di Papa Francesco. Anche e proprio l’epoca della democrazia è un appello rivolto alla Chiesa, appello nei confronti del quale essa deve prendere posizione in maniera critica e al tempo stesso aperta. Ma l’attuale processo di riforma come è ingrandito dai mezzi di comunicazione sociale, ovvero l’abilitare
Papa Francesco si trova davanti all’epoca della democratizzazione che interpella la Chiesa con l’urgenza di prendere posizione con riforme in maniera critica e al tempo stesso aperta. Penso utile, anche se lungo, proporre il tema DEMOCRATIZZAZIONE DELLA CHIESA? trattato da Joseph Ratzinger e pubblicato nel settimo volume dell’Opera omnia da pagina 164 a 197. Oltre che uniti nella preghiera e nella fede con Papa Francesco possiamo essere vicini nella comprensione alla luce dell’ecclesiologia conciliare.
“Introduzione
In tutte le epoche della storia sono state adottate nella Chiesa forme di organizzazione mondane e ci sono stati uomini che hanno saputo motivare e difendere le buone ragioni di tali imprestati. In tutte le epoche, d’altra parte, si è anche insistito su ciò che è proprio e distintivo della Chiesa e si è fatta sentire la voce di coloro che protestavano contro il conformismo rispetto al proprio tempo. Non stupisce perciò che, nell’epoca della democrazia, si invochi con decisione una democratizzazione della Chiesa e che ci siano non pochi teologi che mostrano con chiarezza che nessuna epoca quanto l’epoca della democrazia ha mai offerto la possibilità di realizzare finalmente quanto è per davvero conforme all’essenza della Chiesa. Di conseguenza, diversamente dal passato, anche la critica e le riserve sembrano diventate immotivate, anzi inammissibili: se la democratizzazione più ampia possibile significa realizzare i diritti umani nella misura più grande possibile, la critica sembra solo essere un impegno a favore della mancanza di libertà, della disuguaglianza, della mancanza di fraternità, e sembra solo essere profondamente riprovevole. Chi, infatti, vorrebbe mai passare per un sostenitore della mancanza di libertà e quindi della coercizione e della dittatura?
A causa della pretesa assolutista che traspare in simili valutazioni, il dibattito sulla democratizzazione è però andato decisamente oltre un dibattito sulla forma più opportuna delle pubbliche istituzioni; non sembra essere in ballo ciò che è opportuno, bensì valori che esigono rispetto incondizionato, una dottrina salvifica, si direbbe. E in effetti Georges Burdeau ultimamente ha richiamato a buon diritto l’attenzione sul fatto che oggi il termine “democrazia” sarebbe primariamente un termine espressivo dei più alti valori dell’esistenza umana, “una filosofia, un modo di vivere, una religione; e quasi solo accessoriamente “ un termine che indica una forma di costituzione statale. In realtà dobbiamo dire che oggi esistono due concetti completamente diversi di democrazia e occorre anzitutto eliminare la confusione inconsapevole (in parte anche consapevole) fra di loro, se vogliamo arrivare a un dialogo che abbia senso a proposito di quello che dobbiamo propriamente intendere per democratizzazione.
1. IL PUNTO DI PARTENZA DEL CONCETTO DI DEMOCRAZIA
1. La democrazia totale
Anzitutto il termine “democrazia” è, specialmente nell’ambito dei movimenti studenteschi, ma non solo, una cifra che indica una dottrina salvifica, cifra che di recente Karl Rahner ha sorprendentemente adottato senza alcun “distinguo” in una sua conferenza su “Libertà e manipolazione nella Chiesa”. In questa concezione, la libertà è equiparata alla totale mancanza di limiti dell’io, che non sottostà ad alcuna limitazione sociale; l’istituzione in quanto tale diventa perciò sinonimo di manipolazione. Certo, esiste poi una manipolazione in favore o contro la libertà; tuttavia simili distinzioni nel concetto di mani0plazione non modificano minimamente il fatto che qualsiasi norma imposta dall’esterno all’uomo e quindi l’istituzione e il diritto in tutta la loro estensione siano concepiti come una forma di manipolazione. La democrazia perfetta non sarebbe più perciò una forma di governo, bensì la mancanza di governo; solo l’anarchia sarebbe vera democrazia, perché solo essa significherebbe la fine della manipolazione. La radicalizzazione di ideali democratici occidentali sfocia qui direttamente nell’utopia marxista della società senza classi; il marxismo ancora una volta si impone a partire dalle frustrazioni della società occidentale. L’errore decisivo di tutta questa concezione sta nel fraintendimento dell’uomo in essa presente: in questa visione l’uomo è scambiato per Dio, dal momento che è considerato come l’essere della libertà assoluta, per il quale la limitazione significa in linea di principio qualcosa di peggiorativo: il concetto di libertà rimane impigliato nel risentimento contro le condizioni di fatto sperimentate e sfocia così nella verità apparente del sogno, in cui è evidente la paura del risveglio e dei suoi pericoli.
In proposito si può evidenziare la falsità antropologica di questo concetto di libertà addirittura come una falsità immanente al sistema. Lo faccio a partire da un episodio che si è verificato qualche tempo fa in una delle nostre università; probabilmente ci saranno molti casi analoghi a quello qui raccontato. In una lezione pubblica assai partecipata si era infiltrato un piccolo gruppo di contestatori allo scopo di “democratizzare” l’università; in questo caso la democratizzazione doveva essere portata avanti mediante il disturbo della “comunicazione autoritaria del sapere” a un cospicuo uditorio da parte di un docente. Il docente, che concepiva la democrazia nel senso della democrazia costituzionale occidentale, fece votare per stabilire se la lezione dovesse continuare o se si dovesse tenere la discussione voluta dagli intrusi per illuminare le coscienze. Le varie centinaia di ascoltatori presenti si espressero tutti quanti in favore della prosecuzione della lezione, ma il gruppo di “democratizza tori”, forte di circa venti unità, non se ne diede per inteso. Si dice allora che in quel caso erano in gioco due diversi concetti di democrazia. Gli intrusi non furono sorpresi dal risultato della votazione; gli studenti presenti avevano appunto votato in maniera conforme al sistema, e ciò semplicemente confermava che erano succubi al sistema, e ciò semplicemente confermava che erano succubi di quel sistema coercitivo e che non erano in grado di esprimersi liberamente; questo dimostrava in maniera quanto mai chiara la necessità di una discussione capace di illuminare le coscienze quale presupposto di una vera democratizzazione. La contestazione fu pertanto portata avanti: contrariamente alla votazione appena avvenuta, essa andava vista come manipolazione in favore della libertà.
IL cinismo di questo comportamento è evidente; però in esso viene a galla un problema importante. Infatti ci viene detto: quel che l’uomo comunemente ritiene essere la sua libertà è solo la coercizione del sistema divenuta immanente alla sua stessa coscienza e perciò da lui non più percepibile. Il fatto che egli consideri la stessa coercizione del sistema come sua libertà è l’autentico abisso della sua schiavitù. Chi potrebbe contestare che, nel caso dell’uomo, la situazione possa essere effettivamente questa? E di conseguenza, come non diventare scettici di fronte a ciò che l’uomo, così come si trova ad essere, concepisce proprio come sua libertà? Non potrebbe davvero essere che la possibilità di fare ciò che vuole non sia altro che il gioco, portato cinicamente a termine, di una manipolazione deleteria? Oggi, ad esempio, l’uomo non è forse manipolato senza ritegno, sotto le smentite spoglie della libertà, come fattore del mercato e degradato al rango di strumento per aumentare i profitti da una gran parte dell’industria cinematografica? La critica del concetto di libertà qui messa in atto è quindi, in linea di principio, giustificata e mostra la tragica superficialità che sta alla base di una costruzione il cui punto di partenza consiste nella mancanza di limiti del singolo. Ma bisogna chiedersi: chi decide che cosa è coercizione del sistema divenuta immanente alla coscienza e che cosa è realmente libertà? La risposta dei “democratici radicali” suonerebbe: la coercizione del sistema è tutto ciò che non concorre al superamento dei sistemi di dominio esistenti e che non serve all’introduzione dell’an - anarchia, cioè di una condizione di assenza di sovranità. Tale risposta presuppone dogmaticamente l’uomo non soggetto ad alcuna sovranità e quindi una definizione dell’uomo che è una contraddizione in termini. Comunque, in questo modo diventa riconoscibile il problema del concetto di libertà: la libertà non è affatto sic et simpliciter identica a ciò che viene sperimentato come libertà del singolo; nella situazione del “non ancora”, quale sembra essere in questa luce il presente, essa può essere costruita e resa irriconoscibile dal suo contenuto.
Una discussione approfondita dell’immagine dell’uomo e del mondo insita in questa dottrina “salvifica” sembra essere necessaria anche nel caso in cui uno provi una profonda avversione per le forme in cui essa compare. Una cosa dovrebbe però essere diventata chiara grazie a questi accenni: partendo da qui non è possibile arrivare a fare delle affermazioni che abbiano senso sulla Chiesa, come invece ha sostanzialmente cercato di fare Rahner. Anche se la critica del presente e la prospettiva di una specie di futuro escatologico contengono delle analogie con i dati della fede cristiana, analogie da non sottovalutare, non può risieder qui il punto di riferimento di un dialogo ragionevole sulla democratizzazione della Chiesa.
2. Lo Stato costituzionale
In secondo luogo dobbiamo prendere in considerazione il concetto di democrazia che corrisponde alla realtà statale del mondo occidentale attuale: la democrazia costituzionale, che in quanto democrazia parlamentare non è una democrazia diretta ma una democrazia rappresentativa, non è veicolo di mancanza di sovranità, bensì una forma per esercitare una sovranità e tenerla sotto controllo. La portata di questo concetto di democrazia è molto più ridotta: non si tratta di un messaggio circa il fine dell’uomo, bensì del mezzo per rendere possibile un funzionamento ottimale dello Stato e della società, nonché un intreccio ottimale tra vincoli e libertà. Eppure anche questa forma di democrazia rimane sostanzialmente e irriducibilmente distinta dalla Chiesa a motivo di due dati di fatto.
a) Nel caso dello Stato, il soggetto della sovranità è soltanto il popolo stesso considerato nel suo insieme. La democrazia si preoccupa soltanto che sia amministrata nel modo giusto la cosa comune di tutto il popolo, la “res pubblica”. Si tratta, cioè, della amministrazione fiduciaria in nome del vero sovrano, che è il popolo. Qui si potrebbe obiettare: la teologia cattolica ha contestato per lungo tempo la dottrina della sovranità popolare e ha invece difeso quella della sovranità concessa per grazia di Dio; per questo adesso le è difficile ricorrere alla sovranità popolare come aiuto per sottrarsi alla democratizzazione della Chiesa. Si potrebbe presumere che un giorno la concessione per grazia di Dio del ministero ecclesiastico finirà per cadere, come i ministeri mondani, e che anche a questo livello alla fine verrà a galla quel che altre chiese già da lungo tempo sanno, e cioè che il soggetto della sovranità spirituale è il popolo spirituale, così come il popolo mondano è il detentore della sovranità mondana. Su questo dovremmo tornare quando parleremo della Chiesa. Per il momento limitiamoci a osservare che la dottrina della sovranità popolare ha in realtà bisogno di una doppia limitazione: anzitutto c’è da ricordare che la fine dello Stato nazionale limita necessariamente anche la dottrina della sovranità popolare. Il popolo in realtà è una parte dell’umanità; lo Stato ha degli obblighi sovrastatali e il popolo degli obblighi sovra etnici; la sua sovranità consiste in verità soltanto nella sottomissione ai fini sovra ordinati dell’umanità nel suo complesso e chi si interroga sui fini dell’umanità si imbatte in una questione metafisica che non è più possibile risolvere nella cornice delle semplici dottrine della sovranità. A ciò si aggiunge il fatto che, secondo Rm 13, l’esistenza di una !autorità” appartiene in linea di principio all’ordine della creazione (non è perciò una manipolazione); certo, non che il singolo governante detenga il potere direttamente “per grazia di Dio” e indipendentemente dal popolo, ma che appunto l’esistenza di ordinamenti di governo è come tale conforme all’uomo, indispensabile, e di conseguenza “per grazia di Dio”.
b) Lo Stato è in fondo fine per se medesimo. Esso raggiunge il proprio scopo nel bonum commune, nel bene comune dei suoi cittadini. Il funzionamento ottimale delle sue istituzioni è in una certa misura anche realizzazione di quello a cui esso propriamente tende. Comunque la si pensi in dettaglio a proposito dei problemi del fine della comunità e della fondazione della sovranità, una cosa è chiara: nel caso dello Stato, la questione si pone in maniera fondamentalmente diversa rispetto alla Chiesa. Per quel che riguarda la Chiesa , bisogna infatti dire anzitutto che essa, conformemente alla concezione della fede.
· non ha alcuna sovranità che scaturisca da se stessa e non è assolutamente il risultato della somma delle attività umane, bensì l’appello rivolto all’uomo da parte di qualcuno e in ordine a qualcosa che l’uomo non possiede in forza di se stesso. Il che vuol dire:
· il fine della chiesa non è l’amministrazione comunitaria dei propri valori e beni, quale quella a cui compagini statali e sociali aspirano con un maggiore o un minore raggio di azione, a seconda dei bene in questione. Nella Chiesa si tratta piuttosto della verità del vangelo di Gesù Cristo come realtà che viene dall’esterno e tende a far suoi gli uomini. In essa non si tratta quindi di suddividere in maniera equa dei prodotti comuni, di tutelare e salvaguardare i diritti rispettivi dei singoli e dell’insieme, bensì di mantenere presente la irriducibile Parola di Dio quale pretesa sull’uomo e quale speranza per lui. La qual cosa a sua volta significa:
· nella compagine della Chiesa, il governo non occupa a livello strutturale la stessa posizione che hanno le istituzioni statali nella comunità politica. Possiamo forse illustrare quanto intendiamo con l’aiuto della linguistica comparata. Nel suo operare, questa scienza non prende in considerazione solo gli elementi comuni del lessico, ma nello stesso tempo deve tenere conto della posizione delle parole nella compagine strutturale delle lingue, cosicché concordanze materiali nel lessico possono coesistere con una posizione strutturale del tutto diversa dai relativi termini. Solo se si tiene conto dell’inserimento nella rispettiva struttura linguistica si può valutare nel modo giusto la relazione nel vocabolario. Similmente dobbiamo dire che, alla luce della forma di sovranità della Chiesa e del suo fine, le istituzioni che fino a un certo livello essa condivide con altre comunità occupano una posizione strutturale diversa da quelle che esse occupano in tali comunità. Chi ignora questo fatto è a priori indirizzato verso una impostazione sbagliata, perché parte da una analogia compresa solo a metà e, di conseguenza, da un completo fraintendimento.
Detto in maniera più concreta: mentre l’interesse per lo Stato e per il suo benessere coincide in larga misura con l’interesse per le sue istituzioni, l’interesse rettamente inteso per la Chiesa non ha in primo luogo per oggetto la Chiesa stessa, bensì ciò da cui la Chiesa proviene e a ciò a cui essa tende, ha cioè per oggetto (tanto per dirlo con le parole della Confessione di Augusta) il fatto che la Parola di Dio sia predicata nella sua purezza e senza falsificazioni e che il culto divino sia celebrato correttamente. La questione dei ministeri è importante solo nella misura in cui essi sono una condizione per questo. Detto ancora in altro modo: l’interesse della Chiesa è diretto non alla Chiesa, ma al vangelo. Il ministero dovrebbe funzionare il più possibile senza far rumore e non promuovere primariamente se stesso. Certo, qualsiasi apparato ha anche bisogno di impiegare una parte della propria energia per mantenersi in vita e funzionare. Esso però è tanto peggiore quanto più si risolve nella cura di se stesso, e non avrebbe più motivo di esistere se si preoccupasse solo di sé.
Sotto questo aspetto, però, oggi le cose vanno molto male. Il necessario processo di riforma, ovvero l’abilitare la Chiesa a svolgere il suo compito nella mutata situazione odierna ha talmente concentrato tutto l’interesse della Chiesa sulla sua autorealizzazione da farla apparire come se non fosse preoccupata che di se stessa. Il prossimo sinodo generale della Chiesa tedesca potrà senza dubbio svolgere un compito importante nell’odierna situazione della Chiesa; esso però è per molti versi necessario. Tuttavia la sua preparazione, come procede in alcuni luoghi, sembra rafforzare la tendenza testé menzionata. Ci si lamenta perché la grande massa di fedeli dimostra in generale troppo poco interesse per le faccende del sinodo. Confesso che a me questo riserbo sembra piuttosto un segno di salute. Cristianamente infatti, cioè per quel che il Nuovo testamento realmente intende come proprio scopo, non si è fatto un granché se degli uomini discutono in maniera appassionata fra di loro dei problemi del sinodo. Così come uno non diventa uno sportivo perché si occupa a fondo della struttura del Comitato olimpico. Il fatto che l’impegno dell’apparato ecclesiale a far parlare e a lasciare memoria di sé venga accolto con indifferenza dalla gente non è solo comprensibile, bensì oggettivamente giusto da un punto di vista ecclesiale. La gente infatti non vuole di continuo sapere come vescovi, sacerdoti e cattolici impegnati riescono a coordinare le loro attività, bensì vuol sapere che cosa Dio vuole e cosa non vuole da loro in vita e in morte. E così facendo essi sono sulla retta vita, perché una chiesa che fa parlare troppo di sé non parla di quello di cui dovrebbe parlare. Purtroppo sotto questo aspetto (e non solo sotto questo aspetto) oggi constatiamo una notevole decadenza della teologia e delle sue forme di volgarizzazione: la disputa intorno a nuove forme di strutture ecclesiali sembra in larga misura diventata il suo unico contenuto. Il timore espresso alla fine del Concilio di Henri de Lubac che si potesse arrivare a un positivismo dell’autopromozione ecclesiale, dietro il quale in fondo si nasconderebbe la perdita della fede, purtroppo si mostra fondato.
Con queste riflessioni, che non dicono affatto che il ministero ecclesiale sia qualcosa di indifferente, bensì intendono chiarire la sua giusta posizione nella realtà complessiva della Chiesa, Si è nello stesso tempo acquisito il criterio fondamentale in base al quale deve essere edificata la Chiesa e il ministero ecclesiale: la forma di ministero migliore e più conforme al vangelo è quella di rimanere più fedele all’istanza specifica del Vangelo.
II. INTERPRETAZIONE DEMOCRATICA DEGLI ELEMENTI FONDAMENTALI DEL CONCETTODI CHIESA
In questo modo è diventato al contempo necessario un nuovo punto di partenza per la nostra questione. Finora avevamo cercato di spiegarla partendo da concetti correnti di democrazia, che determinano in larga misura, in forma più o meno illuminata, il dibattito attuale. Dovrebbe essere diventato chiaro che, partendo da qui, non è possibile trovare alcuna risposta, perché le differenze sono troppo grandi. Dobbiamo perciò tentare di percorrere la via inversa e affrontare il problema partendo dal concetto di Chiesa. A prima vista sembra che questa via sia già stata percorsa in molti dei precedenti tentativi. Di conseguenza, si dovrebbe ritenere che proprio quegli elementi del concetto di Chiesa che dal Concilio sono stati posti esplicitamente in risalto presentino una tendenza chiaramente democratica, per cui alla loro luce il concetto radicale o moderato di democrazia sono sembrati nel contempo eredità ecclesiale e compito per la Chiesa. Si tratta soprattutto delle seguenti parole chiave dell’ecclesiologia conciliare, che sembrano allo stesso tempo proporsi come punti di aggancio della tesi di democratizzazione: fraternità, concezione funzionale del ministero, carisma, collegialità,sinodalità, popolo di Dio. Il nostro tema esige perciò anzitutto una analisi – necessariamente sommaria – di questi concetti; se nel farlo risulterà che, nell’interpretazione dominante, essi sono fraintesi, la tesi della democratizzazione non risulterà con ciò affatto liquidata, bensì risulteranno liquidate solo una forma della sua motivazione e di conseguenza anche determinate concezioni della sua realizzazione.
1. diversi concetti parziali
Pur senza poter qui discutere i singoli problemi insiti nel concetto di fraternità cristiana, possiamo affermare quanto segue: in senso biblico fraternità rimanda alla paternità di Dio e all’adozione dell’uomo nell’uno e unico figlio Gesù, con cui i credenti sembrano giuridicamente identificati nella predestinazione. Il termine fraternità indica perciò la qualificazione fondamentale dell’esistenza nella fede e stabilisce così un deciso imperativo per qualsiasi realizzazione istituzionale della realtà cristiana. Di per sé, però, esso non offre alcun modello istituzionale e non è neppure mai stato concepito come un modello istituzionale. Non è perciò oggettivamente giusto assegnarlo direttamente al piano politico – istituzionale, anche se il suo imperativo etico contiene senza dubbio una rilevanza politica, che non può essere eliminata relegando tale termine, attraverso una riduzione speculare, all’ambito puramente spirituale.
Più grossolana e grave è la falsa interpretazione che si nasconde dietro le parole che esprimono una concezione funzionale del ministero. L’idea che il ministero vada concepito in modo puramente funzionale scaturisce anzitutto dal tentativo di interpretare il principio dell’uguaglianza direttamente in chiave istituzionale. Essa si riallaccia poi concretamente alla denominazione del ministero neotestamentario come “servizio”. Il fatto che il “ministero” nella Chiesa del Nuovo testamento sia essenzialmente un “servizio” non solo è interpretato come conferma di una concezione della società non autoritaria, e così inavvertitamente trasposto in un contesto storicamente ad esso estraneo, ma vale soprattutto come prova del carattere puramente contingente dei ministeri cristiani primitivi: in quanto servizi, essi sarebbero prestazioni fornite caso per caso, nient’altro. Perciò al posto del padre, dal quale ci si congeda con grande riverenza (Paolo non si era vergognato del considerarsi così), si crea il funzionario; se ciò costituisca una prospettiva migliore, ciascuno lo giudichi da sé. La conseguenza di questo modo di procedere comunque è che, al posto dell’ideale della costante disponibilità a servire finora in vigore per il ministero ecclesiale sulla base della sua considerazione cristologica, subentra l’immagine del funzionario, che preme per una accurata delimitazione dei propri doveri, considera in primo luogo i propri diritti e non si cura molto del diritto dell’altro. Attraverso il concetto di funzione si è allegramente capovolta l’esigenza, insita nelle parole “servizio” e “servire”, nel suo esatto contrario. L’abuso del termine “servizio” per trasformare il ministero nel compito di un funzionario ed eliminare il suo effettivo carattere di servizio va catalogato tra gli esempi più grossolani, che mai si siano verificati nella storia della Chiesa, di stravolgimento della Parola della Scrittura mediante un interpretazione ingannevole. Purtroppo stiamo ancora aspettando che gli esegeti protestino su questo punto.
Le parole chiave che propriamente definiscono la problematica relativa a “democratizzazione” sono comunque: carisma; sinodalità, come forma ampliata di collegialità; popolo di Dio. La parola chiave carisma è collegata con il concetto di democrazia mediante l’idea della “costituzione carismatica” della Chiesa, che rappresenta a sua volta una variante dell’idea di società non autoritaria con compiti puramente funzionali. Chi cerca di comprendere il termine carisma alla luce delle fonti trova difficile comprendere la logica di questa presentazione. Infatti, a parte le intricate questioni che senza dubbio il concetto di carisma comporta, una cosa possiamo chiaramente constatare, che fa subito implodere questa tesi. Dal punto di vista storico, il carisma non è un principio democratico ma pneumatico, cioè è espressione di un’autorizzazione sovrana dall’alto, non di una disposizione comunitaria dal basso. Perciò il termine di carisma dovrebbe logicamente scomparire dal dibattito sulla democratizzazione, nel quale esso non ha nulla da dire. Delle parole chiave menzionate, rimangono così “struttura sinodale” e la denominazione della Chiesa come “popolo di Dio”. Non nego che ambedue le espressioni sono di grande importanza per la nostra questione e che possono o addirittura devono essere utilizzate anche positivamente per la costruzione di forme democratiche nella Chiesa. Ma allo stesso tempo bisogna affermare che la forma nella quale sono comunemente usate è acritica e quindi inammissibile.
2. “Popolo di Dio”
Per quanto riguarda l’espressione “popolo di Dio”, si rimanda al fatto che nella costituzione Lumen gentiumdel Concilio, al capitolo sulla gerarchia e al capitolo sui laici, è stato anteposto un capitolo sul popolo di Dio, a cui tanto la gerarchia quanto i laici parimenti appartengono: il concetto di popolo di Dio esprimerebbe perciò la fondamentale uguaglianza di tutti i battezzati. Questo è giusto. Tanto più sbagliato però, è, ad esempio, parlare di una specie di diritto elettorale del “popolo di Dio”, sentir dire che il ruolo del “popolo di Dio” non va inteso solo come un ruolo passivo, o criticare una concezione del ministero episcopale il cui detentore possederebbe un carattere assoluto che troverebbe il suo limite solo nel Papa ma non nel popolo di Dio. In tutti questi casi l’espressione “popolo di Dio” non indica più la realtà globale della Chiesa che sta alla base della divisione in gerarchia e laici, bensì indica esclusivamente i laici, che vengono ora indicati con questo titolo come un grupponella Chiesa. Contro questa concezione, in pratica puramente sociologica del concetto di popolo di Dio, occorre protestare in maniera molto decisa. Usare l’espressione “popolo di Dio” sullo stesso piano dell’espressione “popolo francese” o “popolo tedesco” non è solo sbagliato, ma è in fondo un’usurpazione. Nel Nuovo testamento e nei Padri l’espressione “popolo di Dio” indica comunemente solo il popolo di Israele, quindi una determinata tappa dell’elezione divina: nella misura in cui con questa espressione si passa a indicare la Chiesa , l’espressione entra a far parte dell’interpretazione allegorica (spirituale) dell’Antico Testamento. Solo nel contesto della trasposizione spirituale di una realtà antico testamentaria, quindi solo nella relazione tra la lettera e lo spirito, nella spiritualizzazione della lettera, l’espressione ha un significato sostenibile.
Possiamo anzi precisare in maniera ancora più chiara il processo di questa adozione spiritualeggiante che conserva sempre il riferimento a ciò che la precede. Inizialmente, nel Nuovo Testamento l’idea di popolo di Dio è ripresa solo nella forma di “ekklesia” (raduno). “Raduno” è, per così dire, la forma attiva del termine fondamentale “popolo”. Ciò dipende a sua volta dal fatto che Gesù comparve in seno al popolo d’Israele per predicare il Regno di Dio. Nella tradizione profetica di Israele la predicazione del Regno di Dio, però, non è mai solo un evento verbale, ma si attua come raccolta e pacificazione del popolo per il Regno. Questo modo di procedere ha determinato in modo decisivo la concezione della Chiesa nascente. La Chiesa non è affatto un popolo nuovo a fianco di uno antico, ma sussiste solo, per così dire, come processo (che prosegue e, d’altra parte, ora supera Israele) di raccolta e purificazione del popolo per il Regno. Essa sussiste nella forma attiva, come processo di riunione, di convenire, e perciò non è detta làos bensì ecclesìa, non popolo ma raduno. Ed è perciò se stessa nella forma più autentica proprio come raduno: sempre il termine ekklesìa indica principalmente il convenire dei cristiani per l’anamnesi della morte e Risurrezione del Signore. La Chiesa ha pertanto il suo modello costituzionale nel raduno anamnestico, non in qualche concetto di popolo comunque articolato. Faremmo bene a lasciar cadere il prima possibile dal dibattito il malinteso concetto di popolo di Dio; così come viene adoperato esso rappresenta una ricaduta rispetto al piano neotestamentario, perché ignora la trasposizione spirituale che la Chiesa significa di fronte alle parole e alle realtà fondamentali dell’Antico Testamento.
3. Sulla questione della “struttura sinodale”
La questione si presenta in modo ancora diverso nel caso della cosidetta struttura sinodale della Chiesa. Nella sua conferenza, più volte citata, Karl Rahner ha nuovamente avanzato una richiesta che da qualche tempo va sempre più diffondendosi. Si dice: ci dovrebbe finalmente essere un sinodo generale tedesco ( e corrispondentemente di altre nazioni) fatto di vescovi, sacerdoti e laici (magari un terzo per ogni componente?), che sia il supremo organo di governo delle singole chiese nazionali, organo a cui anche i vescovi dovrebbero essere soggetti. Una simile idea è estranea tanto al Nuovo Testamento quanto a tutta la Tradizione della Chiesa, e questa per la Chiesa , che poggia sulla Tradizione, non è una cosa indifferente come potrebbe esserlo per progetti costituzionali statali. L’affermazione che i concili della Chiesa antica sarebbero stati composti da laici e vescovi e che solo il Concilio di Trento o addirittura il Vaticano I avrebbero segnato il passaggio al concilio puramente episcopale è, dal punto di vista storico, semplicemente sbagliata: anzi, essa non è vera neppure per quanto riguarda il criterio con cui venne convocata l’adunanza svoltasi a Gerusalemme e raccontata in At 15, riunione che prese una decisione a proposito del rapporto tra giudeocristiani e pagano cristiani. Luca presenta questo incontro piuttosto secondo il modello dell’antica ekklesìa (raduno di popolo). La peculiarità delle antiche riunioni, che in questo sembrano assolutamente moderne, consisteva nel fatto che esse erano in linea di principio riunioni aperte, che peraltro presupponevano la distinzione tra l’organo decisionale e il pubblico presente alla decisione. Il pubblico non era affatto condannato alla passività: con le sue “acclamazioni” (positive e negative) influenzava non di rado l’evento in maniera decisiva, senza partecipare direttamente al suffragium (votazione).
Secondo At 15 il “concilio degli apostoli” si svolse secondo questo modello: esso si svolse davanti al pubblico di tutta l’ekklesìa, ma quali soggetti della decisione sono menzionati soltanto “apostoli e presbiteri” (15 e 15,22). Nei suoi concili la Chiesa antica è rimasta fedele a questa forma dall’inizio alla fine, e ogni affermazione in senso contrario manca semplicemente di fondamento storico. Naturalmente i concili medioevali non furono soltanto concili della Chiesa, bensì nello stesso tempo riunioni generali della cristianità latina, che cercava di regolare in essi in maniera unitaria le proprie relazioni verso l’esterno. Interpretare la rappresentanza dei ceti del Corpus christianum a queste riunioni come partecipazione di laici al concilio significa un misconoscimento delle prospettive storiche. Quanto alla concezione di fondo del concilio come assemblea episcopale (che come tale può naturalmente concedere un diritto di voto anche a non vescovi), nulla è cambiato durante il Medioevo. L’ovvietà con cui il Concilio di Trento, che doveva lavorare solo comeconcilio e non come assemblea politico – economica, si radunò di nuovo come pura assemblea episcopale rimarrebbe altrimenti incomprensibile.
L’idea del sinodo misto quale suprema autorità permanente di governo delle chiese nazionali è, alla luce della Tradizione della Chiesa, così come alla luce della struttura sacramentale e del fine specifico della Chiesa, una chimera. A un sinodo del genere mancherebbe ogni legittimità e ad esso bisognerebbe decisamente e chiaramente rifiutare l’obbedienza. Esso poggia oggettivamente su una divisione semplicemente inamissibiletra potere d’ordine e potere di governo, divisione che relega l’uno nel campo della magia e l’altro nel campo del profano. Il sacramento è concepito soltanto in maniera rituale e non come incarico di guidare la Chiesa mediante la parola e la liturgia; a sua volta, la funzione di guida è vista come una faccenda puramente politico – amministrativa, perché evidentemente si vede la Chiesa solo come strumento politico. In verità, il ministero della presidenza è, nella Chiesa, un servizio indivisibile. La Chiesa che si è chiamati a presiedere è nel suo nucleo un raduno. E tale raduno ha luogo per annunciare la morte e la Risurrezione di Gesù Cristo. La presidenza in essa non viene perciò esercitata se non nella potestà della predicazione sacramentale. Con le parole di Hans Maier: “Il governo di una diocesi è sicuramente un atto di potestà spirituale- Sarebbe impensabile che lo compisse un laico. La responsabilità del ministero ecclesiale è legata all’Ordinazione, al ministero nel senso vero e proprio del termine. Ma questo potere sacro non è necessario per le finanze ecclesiali….” Stupisce davvero che oggi sia necessario ricordare queste ovvietà a teologi di professione, e non solo a teologi di terza categoria.
Ma la cosi detta idea sinodale di cui abbiamo detto risulta curiosamente obsoleta anche a livello dello sviluppo sociale e politico in generale. Nel nostro Stato oggi si tende a ridurre sempre più l’ambito di ciò che è espressamente statale a favore di iniziative sociali che nello Stato trovano soltanto la loro cornice e il loro arbitro; ci troviamo di fronte a un crescente “alleggerimento” dello Stato a favore della società, e io ritengo che questa tendenza vada decisamente favorita. Nella Chiesa oggi ci viene proposto l’esatto contrario: totale integrazione di tutte le iniziative in un regime sinodale onnicomprensivo che in una comunità completamente integrata regola tutto, dalla liturgia fino al mandato politico, che sembra, da parte sua, mettere in ombra tutti gli altri compiti. Questo programma, che ci viene decantato come la prospettiva di riforma del futuro a livello nazionale, è già stato nel frattempo messo in atto con zelo nelle cellule germinali di tali idee, nelle comunità studentesche: minoranze attive – che, nel silenzio dei compagni disinteressati a simili esperimenti, si sono potute spacciare per “assemblea generale” e quindi per rappresentanti “democraticamente legittimati” di tutti – hanno elaborato costituzioni “sinodali” delle comunità, nelle quali la conseguenza totalitaria di questa concezione è diventata spaventosamente chiara. Nell’università la Chiesa non significava più l’offerta liberadella Parola e del Sacramento, bensì il sequestro non richiesto di tutti i cristiani nell’ambito accademico da parte di un gruppo di “impegnati”, definito in maniera completamente indipendente dalla fede. Sulla base della costituzione sinodale è sempre la comunità come insieme ad esprimersi, e tale comunità si esprime anche sull’insieme, cioè su tutto; nessun singolo e nessuna realtà singola può chiamarsi fuori: l’amministrazione globale amministra la globalità.
L’unica via possibile di fronte a questa posizione è stata percorsa, ad esempio, dalla comunità studentesca di Colonia, allorché essa respinse decisamente il complotto sinodale e sostenne con fermezza che appartiene alla comunità, cioè alla Chiesa, soltanto colui che vuole farne parte nella libertà della fede (quindi nessuno si senta spinto a rifiutare questo libero assenso) e che la comunità così liberamente fondata soltanto su una cosa è, nella libertà della fede, comunitariamente obbligante e vincolante: il vangelo di Gesù Cristo, così come esso è confessato dalla fede della Chiesa. A nient’altro la comunità può essere comunitariamente costretta, neppure da parte di un cosi detto sinodo. Questo non significa affatto, come poi si afferma beffardamente e demagogicamente, una privatizzazione del messaggio, bensì significa che la forza dirompente del vangelo (pubblica, sociale e politica) non fa sentire i suoi effetti in forme sinodalmente stabilite, bensì che essa, come libera chiamata, impegna e abilita i credenti a prendere iniziative. Detto in altri termini: il vangelo non finisce affatto con la predica, ma diffonderlo e far sentire i suoi effetti è cosa demandata a libere associazioni all’interno della comunità che non possono pretendere di coincidere con la comunità stessa. Esiste l’elemento comune del vangelo attualizzato nel culto liturgico ed esiste poi, nella comunità, la molteplicità delle iniziative “laicali” che accolgono e attuano il vangelo. Va detto che è essenziale per il vangelo che ci siano tali iniziative. Ma non meno essenziale è che esse devono essere libere iniziative. La comunità, e così la Chiesa come tale, può e deve operare come arbitro, a questo livello, ma non essa stessa come soggetto (cosa che del resto andrebbe detta criticamente anche a proposito dell’idea di “Azione Cattolica”, così come essa è stata sviluppata prima e dopo la seconda guerra mondiale nei Paesi latini).
III. POSSIBILITA’ E COMPITI
Con ciò dovrebbe essere diventato chiaro che, né partendo dal concetto di democrazia né partendo dalle parole chiave di “popolo di Dio” e “struttura sinodale della Chiesa”, intese politicamente, si arriva a qualche risultato utile; nello stesso tempo, nel corso delle nostre analisi, abbiamo intravisto, ambedue le volte, anche una corrispondenza positiva con intenzioni importanti sul concetto di democrazia. Perciò è necessario un terzo passo per tentare di mettere in luce fino a che punto, all’interno stesso della Chiesa, ci siano delle realtà che corrispondono a quello che nell’ambito politico chiamiamo democrazia. La Chiesa ha infatti sue specifiche, anche se per molti versi offuscate, tradizioni democratiche, che è conforme alla sua essenza sviluppare di nuovo. Una esposizione dettagliata dovrebbe praticamente chiamare in causa tutta l’ecclesiologia; in questo contesto, dobbiamo accontentarci di alcuni accenni significativi. Vedo quattro punti in cui la stessa costituzione della Chiesa rimanda a forme e possibilità democratiche:
1.La limitazione del raggio d’azione del sacerdozio ministeriale e la conseguente libertà della “società” ecclesiale nella realizzazione delle iniziative conformi al vangelo.
2. Il carattere di soggetto delle singole comunità e, ad esso collegato, il particolare rapporto tra chiesa locale e Chiesa universale, che è una delle peculiarità tipiche della costruzione della comunione ecclesiale
4. La dottrina del sensus fidei, cioè dell’infallibilità del popolo di Dio nel suo complesso e la libertà ad essa collegata della struttura ecclesiale degli ordinamenti politici e sociali del momento.
1. La limitazione del raggio d’azione del sacerdozio ministeriale
Quel che intendiamo dire parlando della limitazione del raggio d’azione del sacerdozio ministeriale dovrebbe già essere il risultato chiaro della critica mossa al cosi detto sistema sinodale: nella Chiesa presiedere è presiedere per il vangelo, che viene attualizzato e offerto in maniera vincolante su mandato di Gesù Cristo. Al contempo, il legame al vangelo e alla sua forma concreta presente nella fede della Chiesa è la libertà dei fedeli. Inoltre il credo della Chiesa è sempre difesa nei confronti dell’arbitrio del parroco o di chiunque sia a presiedere. Il fatto che soltanto questo Credo sia il vero contenuto del sacerdozio ministeriale significa, nello stesso tempo, che l’integrazione della Chiesa sta unicamente nella forza integrante dell’unica fede. Tutto il resto non porta alla liberazione, ma alla tirannia. Questo modo di vedere dischiude un vasto campo di libere iniziative democratiche sotto un duplice aspetto:
a) Sa qui emerge anzitutto (come già detto) la possibilità e, eventualmente, anche il dovere di unirsi in specifiche associazioni per realizzare il messaggio della fede nel proprio ambiente, dal Kolping alWerkvolk (organizzazioni in favore dei lavoratori e dell’edilizia abitativa), fino alle associazioni accademiche: se queste o altre forme e associazioni dovessero essere superate, con ciò non sarebbe superato il modello della libera associazione in virtù del vangelo.
b) Ma questo significa anche che tutti quei campi del governo ecclesiastico che non riguardano la vera e propria guida della Chiesa in forza del vangelo, come l’edilizia delle chiese, l’amministrazione delle finanze della Chiesa, ecc., possono e devono essere regolati in maniera adeguata a tali campi e, fin dove oggettivamente possibile, in maniera democratica. Nell’uno come nell’altro caso, non si confina affatto così l’elemento laicale e democratico nella sfera puramente tecnica e amministrativa: l’applicazione del vangelo alla situazione concreta della Chiesa e della società è uno dei necessari risvolti dell’evangelizzazione, indispensabile come l’assemblea liturgica, una faccenda che riguarda senz’altro il vangelo stesso. Neppure realtà come l’amministrazione delle finanze della Chiesa, la cura dell’edilizia, ecc. possono essere isolate nella Chiesa, dal cuore del suo compito. Per fare due esempi: se in futuro continueranno a essere erette delle chiese vere e proprie oppure solo degli “spazi multiuso” è una questione di grande portata, così come la creazione di un’amministrazione degli affari economici della Chiesa. Se in futuro decisioni di questo tipo saranno prese in collaborazione tra i “membri della gerarchia” e i “laici”, una simile forma di “democrazia” ecclesiale spingerà molto al di là degli ambiti periferici dell’esistenza ecclesiale.
c) Hans Maier ha giustamente richiamato l’attenzione su un altro ambito: la Chiesa non può e non deve trasformarsi in una democrazia basata sui partiti. Tanto più essa dovrebbe adottare un elemento fondamentale essenziale della democrazia moderna: un’amministrazione indipendente della giustizia e la tutela giuridica del singolo, che solo così è attuabile, di fronte all’amministrazione e all’esecutivo.
2. La comunità come oggetto di diritto. Sulla questione dell’attribuzione dei ministeri mediante elezioni
Chi considera l’odierna forma di sistematizzazione del Diritto canonico constaterà che la Chiesa si costruisce unicamente a partire dai suoi ministeri. Il Diritto delle persone si apre sì con l’affermazione di fondo che, nella Chiesa, ciascuno acquisisce personalità giuridica mediante il Battesimo; ma i cardini dell’impianto successivo sono i singoli ministeri: Papa, vescovi, presbiteri, con l’aggiunta dei religiosi. Al riguardo, si è spesso criticato il fatto che mancherebbe un Diritto dei laici e adesso, in occasione della riforma del Codice, sono stati forniti degli schemi in questo senso. Ma, per quanto ciò possa essere utile, a me sembra che con questo non si colga il vero problema. Manca piuttosto il riconoscimento che la singola ecclesia è nella Chiesa un soggetto giuridico in quanto ecclesia, cioè in quanto comunità; il riconoscimento quindi che nella Chiesa non esistono semplicemente i ministeri, da un lato, e tanti singoli fedeli, dall’altro, e di volta in volta diritti per gli uni e per gli altri, bensì la Chiesa come tale, in concreto come singola comunità, è soggetto giuridico, anzi l’autentico soggetto a cui tutto il resto si riferisce.
Nella scienza liturgica questa visione fondamentale della Chiesa antica è stata di nuovo evidenziata negli ultimi decenni soprattutto da Josef A. Jungmann. Se nella scienza liturgica degli anni Trenta si poteva ancora leggere che il soggetto del culto liturgico (ad esempio della Messa) è solo il sacerdote celebrante e che, per l’essenza della celebrazione, sarebbe irrilevante che ad essa assista o meno anche qualche altro individuo,Jungmann ha dimostrato che il soggetto della celebrazione è proprio la comunità radunata nel suo complesso e che il sacerdote lo è soltanto nella misura in cui impersona tale soggetto ed è il suo portavoce. Se ci si rende conto che l’assemblea liturgica costituisce il punto di partenza del concetto di Chiesa, allora emerge già il fondamentale carattere di soggetto della comunità in quanto tale. Il fatto che sia stato offuscato è il vero motivo per cui l’attività della comunità come comunità è oggi in larga misura completamente dimenticata. Con ciò tocchiamo un problema molto discusso ai nostri giorni: la questione della partecipazione comunitaria alla nomina dei ministri. Il fatto che fin nel Medioevo inoltrato le singole comunità eleggessero da sé i propri presidenti era per esse l’ovvia espressione del carattere di soggetto delle singole ecclesiae. Prima però di occuparci direttamente della questione pratica deve essere chiarita ancora un po’ meglio la base teologica. Il carattere di soggetto delle singole ecclesiae poggia infatti su due dati, che hanno già fatto la loro comparsa in precedenza e che ora vanno ulteriormente utilizzati per il nostro problema.
a) La Chiesa non è popolo, ma raduno. Perciò l’elemento attivo vero e proprio della Chiesa, la Chiesa come tale, è dato concretamente dall’assemblea liturgica. Questa è il luogo primario della Chiesa, di conseguenza il concetto di Chiesa ha qui il suo luogo primario. L’assemblea liturgica non è un qualcosa di supplementare rispetto alla Chiesa, bensì è la sua prima forma. La comunità radunata per il culto liturgico è perciò Chiesa nel senso pieno del termine. Detto ancora non altre parole: il contenuto della Chiesa è la Parola che diventa carne e chiama a sé gli uomini. Poiché in ogni comunità ecclesiale legittimamente radunata è presente integralmente la Parola del Vangelo ed è presente integralmente il Signore, in essa è presente integralmente la Chiesa.
b) Tuttavia la Chiesa universale non è, come in parte si è da qui dedotto e si deduce, un’addizione successiva o un tetto organizzativo che non rientrerebbe nel concetto vero e proprio di Chiesa e nella sua vera e propria natura. Il Signore è invece tutto in ogni comunità, ma è anche uno solo in tutta la Chiesa. Perciò il criterio per sapere se si sta presso l’unico Signore è quello di sapere se si sta nell’unità dell’unica Chiesa. La Parola del Signore è sì tutta dappertutto, ma la si può avere tutta soltanto se la si hanel tutto e con il tutto. Corrispondentemente dobbiamo dire: l’Eucaristia è sempre tutta intera e tuttavia è se stessa soltanto se è condivisa con tutti. Benché quindi la singola comunità sia totalmente Chiesa, essa lo è tuttavia solo se lo è in seno a tutta la Chiesa , a partire da essa e in ordine ad essa.
E uesta a sua volta significa che la singola comunità ha carattere di soggetto ma lo può esercitare nella maniera giusta soltanto se sta nell’unità con la Chiesa universale. Da questo intreccio semplice e nello stesso complesso tra chiesa locale e Chiesa universale derivano la forma e i limiti delle varie attività. Qui dobbiamo rinunciare a una presentazione dettagliata, che tenga conto del materiale storico. Provo solo a dare un’indicazione sul risultato di un simile lavoro. Dopo quanto abbiamo detto, quando si tratta di nominare i ministri bisognerebbe tenere conto del carattere di soggetto della comunità, rendendo possibile la sua propriaattività comunitaria (“democratica”). Secondo questo principio, le nomine dei ministri non dovrebbero mai essere effettuate solo dall’alto. – al riguardo si deve criticare in maniera decisa lo sviluppo affermatosi a partire dal XIII secolo. D’altra parte, la nomina dei ministri non può mai essere effettuata solo dal basso, dalla singola comunità, ma deve racchiudere in sé anche il fattore della Chiesa universale: il coordinamento fra i due fattori mi sembra costitutivo per un giusto ordinamento ecclesiale.
Si possono perciò commettere degli errori in una duplice direzione: sbagliata è una nomina esclusivamente intracomunitaria, che contraddice la natura aperta della comunità e il suo riferimento alla Chiesa universale e che non per nulla è scomparsa dalla storia; ma sbagliata è pure una nomina esclusivamente dall’alto, che non tiene conto del carattere di soggetto della comunità. Mi sembra che possiamo riassumere in due tesi i criteri da seguire:
a). Corrispondente al rapporto tra chiesa locale e Chiesa universale, la nomina di un ministro comporta sempre un aspetto ecclesiale locale e un aspetto ecclesiale universale. Come la Chiesa universale non dovrebbe mai procedere ad una nomina senza il coinvolgimento dell’unità di volta in volta immediatamente inferiore, così a suo volta la chiesa locale non dovrebbe mai, oggettivamente parlando, procedere alla nomina di un ministro da sola. La partecipazione della Chiesa universale deve essere tanto più ampia, quanto più il relativo ministero in questione coinvolge tutta la Chiesa. L ’elezione e la nomina non vanno separate, dal momento che il fattore della Chiesa universale non può affatto essere relegato semplicemente all’Ordinazione.
b). Criterio supremo della nomina dei ministri della Chiesa deve sempre essere la libertas Evangelii come libertà del vangelo da interessi locali e particolari: il regolamento migliore è quello che è più conforme a questo criterio.
3.La struttura collegiale della Chiesa
I due ministeri fondamentali della Chiesa, il presbiterato e l’episcopato, sono strutturati collegialmente ed esprimono così sul piano istituzionale il peculiare rapporto esistente tra la singola comunità e la Chiesa universale. Non si è presbiteri per proprio conto, ma soltanto nel presbiterio di un vescovo. E così non si è vescovi per proprio conto, bensì in seno al collegio episcopale, che trova il suo punto di unità nel vescovo di Roma. E infine: non si è cristiani per proprio conto, ma come appartenenti a una ecclesia concreta, che ha la sua unità nel presbitero responsabile. I tre collegi in cui così ci imbattiamo: comunità, presbiterio, episcopato, sono inseriti l’uno nell’altro e sempre specificamente in rapporto biunivoco fra di loro. I reciproci rapporti e le reciproche relazioni non sono reversibili e sono irriducibili a modelli parlamentari; ma sono comunquerelazioni: il parroco è più di un amministratore della comunità, il vescovo è più di un presidente che ha il compito di gestire i suoi parroci, e il Papa è più di un segretario generale con il compito di coordinare le conferenze episcopali nazionali riunite. Ognuno ha al suo livello una irreversibile, propria specifica responsabilità per il vangelo, in cui si esprime la non deducibilità parlamentare della fede. E tuttavia nessuno dei ministri citati è un autocrate. Dato lo spazio a mia disposizione, devo rinunciare a spiegare in modo dettagliato questo punto. Rimando solo alla classica formulazione del duplice aspetto del rapporto fatta da Cipriano. Egli afferma, da un lato, con una forza che continua a farsi sentire nel corso della storia: nihil sineepiscopo (niente senza il vescovo); l’esigenza della pubblicità e dell’unità della chiesa locale sotto il vescovo raggiunge in lui, nella lotta contro comunità di elettori e contro la formazione di gruppi, la sua forma più netta e chiara. Ma lo stesso Cipriano dichiara in modo non meno chiaro e davanti al suo presbiterio: nihil sineconsilio vestro (Niente senza il vostro consiglio); e dice in maniera altrettanto chiara alla sua comunità: nihilsine consensu plebis ( niente senza il consenso del popolo). In questa triplica forma di cooperazione alla costruzione della comunità sta il modello classico della “democrazia” ecclesiale, che non nasce da una trasposizione insensata di modelli estranei alla Chiesa, bensì dall’intima struttura dello stesso ordinamento ecclesiale, e perciò è conforme all’esigenza specifica della sua natura.
4. La “voce del popolo” quale istanza nella Chiesa
Una tradizione democratica specificamente ecclesiale si manifesta laddove si osserva che, in tempi di crisi, la Chiesa , contro i governanti, si è sempre appellata con forza al popolo, alla comunità dei credenti, e ha fatto entrare in gioco l’elemento democratico contro quello principesco. Ciò avvenne quando Ambrogio si richiamò alla Chiesa pubblicamente riunita e alla sua eclesialità contro il tentativo di decidere politicamente le faccende ecclesiali in seno al gabinetto imperiale: le cose della Chiesa possono essere decise soltanto dalla Chiesa e solo davanti alla comunità dei credenti pubblicamente riunita. Ciò si verificò di nuovo quando Gregorio VII e i sostenitori della sua azione riformatrice fecero ricorso al popolo credente contro l’usurpazione nazionalistica della Chiesa quale mezzo della politica imperiale e, appoggiandosi al popolo, si sforzarono di affermare la Chiesa come Chiesa contro il potere dei principi. In modo analogo questo si verificò quando, nel XIX secolo,la Chiesa si alleò momentaneamente con il liberalismo attendendosi dalla sua forza d’urto democratica e trovando effettivamente in essa un sostegno per superare l’istituzione della Chiesa di Stato. La stessa cosa avvenne in senso opposto quando, nella crisi ariana, il popolo dei fedeli perseverò nella fede contro i compromessi e i “progressi” teologico – politici concordati dai teologi e dalla gerarchia, e dimostrò così di essere un fattore di rigenerazione della Chiesa. Ciò si verificherà di nuovo anche oggi, quando contro i compromessi delle leadership della Chiesa e contro il conformismo di tanti intellettuali, che si presentano indebitamente come la voce della democrazia nella Chiesa, la fede delle comunità plasmerà la vera forma della Chiesa del futuro. Questo è notoriamente un fattore difficile da inquadrare giuridicamente, un fattore tuttavia di non poco peso. In ogni caso stupisce vedere come oggi quei gruppi, che parlano a voce così alta della democratizzazione della Chiesa, siano non di rado quelli che dimostrano meno rispetto di tutti nei confronti della fede comune delle comunità e che vedono in questa voce della maggioranza dei credenti solo l’apparente libertà immanente al sistema, una libertà che solo il loro lavoro critico sarebbe in grado di smascherare come mancanza di libertà. L’arroganza dell’auto dogmatizzazione, che viene qui a galla, non può certamente costituire il rimedio per il futuro della Chiesa.
Sarebbe però sbagliato pensare di aver liquidato il problema con la necessaria sconfessione di gruppi del genere. Le ultime riflessioni dovrebbero aver chiarito che dietro la parole ad effetto “democratizzazione”, parola ambigua e per molti versi fraintesa, si nascondono un problema reale e un compito reale, che nulla perdono della loro importanza a motivo di molte iniziative sbagliate. Ogni momento porta con sé possibilità e pericolo per la Chiesa , anche il momento odierno. E’ sciocco e ingenuo pensare che solo oggi la Chiesa potrebbe davvero realizzare nella maniera giusta il suo compito costituzionale; e non meno sciocco e ingenuo sarebbe pensare che il momento presente non avrebbe alcunché da dire alla Chiesa e che essa potrebbe tranquillamente rinchiudersi nel passato. Anche e proprio l’epoca della democrazia è un appello rivolto alla Chiesa, appello nei confronti del quale essa deve prendere posizione in maniera critica e al tempo stesso aperta.
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