La donna nella Chiesa
“Io – Papa Francesco – ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio”
Il primo Papa religioso dopo 182 anni…
Papa Francesco è il primo Pontefice a provenire da un Ordine religioso dopo il camaldolese Gregorio XVI, eletto nel 1831, 182 anni fa. Chiedo dunque: “Qual è oggi nella Chiesa il posto specifico dei religiosi e delle religiose?”.
“I religiosi sono profeti. Sono coloro che hanno scelto una sequela di Gesù che imita la sua vita con l’obbedienza al Padre, la povertà, la via di comunità e la castità. In questo senso i voti non possono finire per essere caricature, altrimenti, ad esempio, la vita di comunità diventa un inferno e la castità un modo di vivere da zitelloni. Il voto di castità deve essere un voto
di fecondità. Nella Chiesa i religiosi sono chiamati in particolare ad essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il regno di Dio sarà nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia. Questo non significa contrapporsi alla parte gerarchica della Chiesa, anche se la funzione profetica e la struttura gerarchica non coincidono. Sto parlando di una proposta positiva, che però non deve essere timorosa. Pensiamo a ciò che hanno fatto tanti grandi santi monaci, religiosi e religiose, sin da san’Antonio abate. Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo”.
Dicasteri romani, sinodalità, ecumenismo
Considerando il riferimento alla gerarchia, chiedo a questo punto al Papa: “Che cosa pensa dei dicasteri romani?”.
“I dicasteri romani sono al servizio del Papa e dei Vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolarisia le Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. E’ impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori”.
Ricordo al Papa che il 29 giugno scorso, durante la cerimonia della benedizione e dell’imposizione del pallio a 34 arcivescovi metropoliti, aveva affermato “la strada della sinodalità” come la strada che porta la Chiesa unita a “crescere in armonia con il servizio del primato”. Ecco la mia domanda, dunque: “Come conciliare in armonia primato petrino e sinodalità? Quali strade sono praticabili, anche in prospettiva ecumenica?”.
“Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo. Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada”.
Cerco di capire come il Papa veda il futuro dell’unità della Chiesa. Mi risponde: “dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci. Questa è la strada di Gesù”.
E il ruolo della donna nella Chiesa? Il Papa ha più volte fatto riferimento a questo tema in varie occasioni. Inuna intervista aveva affermato che la presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio di ritorno Da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una profonda teologia della donna. Allora ,chiedo: “Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?”.
“E’ necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa”.
Il Concio Vaticano II
“Che cosa ha realizzato il Concilio vaticano II? Che cosa è stato?”, gli chiedo alla luce delle sue affermazioni precedenti, immaginando una risposta lunga e articolata. Ho invece l’impressione che il papa semplicemente consideri il Concilio come un fatto talmente indiscutibile che non vale la pena parlarne troppo a lungo, come per doverne ribadire l’importanza.
“Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione”.
Cercare e trovare Dio in tutte le cose
Il discorso di Papa Francesco è molto sbilanciato sulle sfide dell’oggi. Anno fa aveva scritto che per vedere la realtà è necessario uno sguardo di fede, altrimenti si vede una realtà a pezzi, frammentata. E’ questo anche uno dei temi dell’enciclica Lumen fidei. Ho in mente anche alcuni passaggi dei discorsi di Papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro. Glieli cito:”Dio è reale se si manifesta nell’oggi”; “Dio sta da tutte le parti”. Chiedo dunque al Papa: “Santità, come si fa a cercare e trovare Dio in tutte le cose?”.
“Quel che ho detto a Rio ha un valore temporale. C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lacsiato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi”.
“Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa”.
“Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. E’ necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio”.
Certezza ed errori
“Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” – dico al Papa – e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono anche commettere errori…”.
“Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale”.
“Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. E’ questa l’esperienza dei grandi Padri nella fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano…Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio”.
“Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primera. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia. Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E’ relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e quindi non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi del’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale”.
“Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio”.
Dobbiamo essere ottimisti?
Queste parole del Papa mi ricordano alcune riflessioni del passato, nele equali l’allora cardinal Bergoglio ha scritto che Dio vive già nella città, vitalmente mescolato in mezzo a tutti e unito a ciascuno. E’ un altro modo, a mio avviso, per dire ciò che sant’Ignazio scrisse negli Esercizi spirituali, cioè che Dio “lavora e opera” nel nostro mondo. Gli chiedo dunque: “dobbiamo essere ottimisti? Quali sono i segni di speranza nel mondo d’oggi? Come si fa ad essere ottimisti in un mondo così in crisi?”.
“A me non piace usare la parola “ottimismo”, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola “speranza” secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini”, mi chiede il Papa.
Sul momento ho ricordato un po’ a memoria i versi di quell’enigma della principessa che ha come risposta la speranza: Nella cupa notte vola un fantasma iridescente. / Sale spiega l’ale / sulla nera infinita umanità. / Tutto il mondo l’invoca / e tutto il mondo l’implora. / Ma il fantasma sparisce con l’aurora / per rinascere nel cuore. / Ed ogni notte nasce / ed ogni giorno muore! Versi che rivelano il desiderio di una speranza che qui però è fantasma iridescente e che sparisce con l’aurora.
Ecco – prosegue Papa Francesco -, la speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. E’ una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defraudare la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa”.
L’arte e la creatività
Rimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della speranza. Vorrei meglio capire quali sono i suoi riferimenti artistici e letterari di Papa Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li accomuna…
“Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Honderlin. Di Holderlinvoglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. E’ quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lìHonderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di quel libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…”. Anche Gerard Manley Hopkins mi è piaciuto tanto”.
“In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…”.
“In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart eseguito da Clara Haskil. Mozart mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me èFurtwangler. E poi le Passioni di Bach. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich, il pianto di Pietro della Passione secondo Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita da Furtwangleralla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche Parsifal eseguito nel ’62 da Knappertbusch”.
“Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema”.
“Comunque in generale amo glia artisti tragici, specialmente i più classici. C’è una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del bacelliere Carrasco per fare l’elogio di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i giovani la leggono, glia adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa per me può essere una buona definizione per i classici”.
Mi rendo conto di essere assorbito da questi suoi riferimenti, e di avere il desiderio di entrare nella sua vita entrando per la porta delle sue scelte artistiche. Sarebbe un percorso, immagino lungo, da fare. E includerebbe anche il cinema, dal neorealismo italiano a Il pranzo di Babette. Mi vengono in mente altri autori e altre opere che lui ha citato in altre occasioni, anche minori e meno noti o locali: dal Martin Fierro di José Hernandez alalpoesia di Nino Costa, a Il grande esodo di Luigi Orsenigo. Ma penso anche a Joseph Malègue e José MariaPemàn. E ovviamente a Dante e Borges, ma anche a Leopoldo Marechal, l’autore di Adàn Buenosayres, ElBanquete de Severo Arcangelo e Megafòn o la guerra.
Penso in particolare proprio a Borges, perché di lui Bergoglio, ventottenne professore di Letteratura a SantaFé presso il Collegio de la Immaculada Concepciòn, ebbe una conoscenza diretta. Bergoglio insegnava agli ultimi due anni del Liceo e avviò i suoi ragazzi alla scrittura creativa. Ho avuto una esperienza simile alla sua, quando avevo la sua età, presso l’Istituto Massimo di Roma, fondando Bomba Carta, e gliela racconto. Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza.
“E’ stata una cosa un po’ rischiosa – risponde -. Dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero ElCid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere Garcia Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa. E durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”, contemporanee come Lacasada infiel, o classiche come La Celestina di Fernando de Rojas. Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano più gusto in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il programma, ma in maniera destrutturata, cioè non ordinata secondo ciò che era previsto, ma secondo un ordine che veniva naturale nella lettura degli autori. E questa modalità mi corrispondeva molto: non amavo fare una programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho cominciato anche a farli scrivere. Alla fine ho deciso di far leggere a Borges due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui propose di scrivere l’introduzione a una raccolta”.
“Allora, Padre Santo, per la vita di una persona la creatività è importante?”, gli chiedo. Lui ride e mi risponde: “Per un gesuita è estremamente importante! Una gesuita deve essere creativo”.
Frontiere e laboratori
Creatività, dunque: per un gesuita è importante. Papa Francesco, ricevendo i Padri e i collaboratori dellaCiviltà Cattolica, aveva scandito una triade di altre caratteristiche importanti per il lavoro culturale dei gesuiti. Ritorno alla memoria a quel giorno, il 14 giugno scorso. Ricordo che allora, mi aveva preannunciato la triade: dialogo, discernimento, frontiera. E aveva insistito particolarmente sull’ultimo punto, citandomi Paolo VI, che in un famoso discorso aveva detto dei gesuiti: “Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti”.
Chiedo a Papa Francesco qualche chiarimento: “Ci ha chiesto di stare attenti a non cadere nella “tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle e addomesticarle”. A che cos si riferiva? Che cos intendeva dirci esattamente? Questa intervista è stata concordata tra un gruppo di riviste dirette dalla Compagnia di Gesù: quale invito desidera esprimere loro?Quali devono essere le loro priorità?”.
“Le tre parole chiave che ho rivolto alla Civiltà Cattolica possono essere estese a tutte le riviste della Compagnia, magari con accentuazioni diverse sulla base della loro natura e dei loro,obiettivi. Quando insisto sulla frontiera, in maniera particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede – laboratorio, ma una fede – cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori del loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci”.
Chiedo al Papa se può fare qualche esempio sulla base della sua esperienza personale.
Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in unavilla miseria, ed un’altra cos è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre Arrupe ai Centros de Investigaciòn y Acciòn Social (CIAS) sulla povertà, nella quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si esperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa parola “inserzione” è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è davvero importante”.
“E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e streptomicina in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza.”.
Come l’uomo comprende se stesso
Chiedo allora al Papa se questo valga e come anche per una frontiera culturale importante che è quella dellasfida antropologica. L’antropologia a cui la Chiesa ha tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio conla quale l’ha espressa restano un riferimento solido, frutto di saggezza ed esperienza secolare. Tuttavia l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non sembra più comprenderli o considerarli sufficienti. Comincio a ragionare sul fatto che l’uomo si sta interpretando in maniera diversa dal passato, con categorie diverse. E questo anche a causa dei grandi cambiamenti nella società e di un più ampio studio di se stesso…
Il papa a questo punto si alza e va a prendere sulla sua scrivania il Breviario. E’ un Breviario in latino, ormai logoro per l’uso. E lo apre all’Ufficio delle Letture della Feria sexta, cioè venerdì, della XXVIII settimana.Mi legge un passaggio tratto dal Communitòrum Primum di san Vincenzo di Lerins: ita éetiam christiànaereligiònis dogmam sequatur has decet profectuum leges, ut annis scilicet consolidétur, dilatétur tempore,sublimetur aetàte (“Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi con il tempo, approfondendosi con l’età”).
E così il papa prosegue: “San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta con il tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro valutazione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata”.
Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se stesso. E dunque l’uomo con il tempo cambia il modo di percepire se stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella di Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalì. Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile”.
“L’uomo è alla ricerca di se stesso, e ovviamente in questa ricerca può anche commettere errori. La Chiesa ha vissuto tempi di genialità, come ad esempio quello del tomismo. Ma vive anche tempi di decadenza del pensiero. Ad esempio: non dobbiamo confondere la genialità del tomismo con il tomismo decadente. Nel pensare l’uomo, dunque, la Chiesa dovrebbe tendere alla genialità, non alla decadenza”.
“Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare su se stesso. E’ il pensiero ingannato che può essere raffigurato come Ulisse davanti al canto delle sirene, o come Tannhauser, circondato in un’orgia da satiri e baccanti, o come Parsifal, nel secondo atto dell’opera wagneriana, alla reggia diKlingsor. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento”.
Pregare
Pongo al papa un’ultima domanda sul suo modo di pregare preferito.
Prego l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i salmi. Poi, a seguire, celebro la Messa. Prego il rosario. Ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale, anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora di adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal dentista o in altri momenti della giornata”.
“E la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. Per me è la memoria di cui sant’Ignazio parla nella prima Settimana degli Esercizinell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E chi mi chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”. E’ la memoria di cui sant’Ignazio parla anche nella Contemplatio ad amorem, quando chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti. Ma soprattutto io so anche che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui mai si dimentica di me. La memoria fonda radicalmente il cuore di un gesuita:è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. E’ questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre” (Intervista a Papa Francesco, da pag. 464 a pag. 477 di Civiltà Cattolica 2013 III 19 settembre 2013).
Mi chiedo continuamente quale può essere il motivo per cui Papa Francesco scalda l cuore di tanti un tempo indifferenti al Papa, alla Chiesa? Ritengo e per me prete esorcista è un esame di coscienza: “Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. E’ relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale. Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio…”
E alla domanda: “dobbiamo essere ottimisti?”
“A me non piace usare la parola “ottimismo”, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola “speranza” secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei..la speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. E’ una virtù teologale e dunque, in definitiva un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso, Dio è tutta promessa”.
In una intervista nella forma narrativa del proprio cammino evangelico c’è tutta la seconda Enciclica di Benedetto XVI la Spe Salvi : “La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino…(1). E al n. 46 la verità rivelata che nessuno, fino al termine di questa vita, è definito dal Padre dal male che compie: può sempre rendersi conto, lasciarsi perdonare e rialzarsi: Gesù per i crocifissori: Padre perdona loro… Il Padre non guarda quanet volte cadiamo, ma quante volte con il suo perdono ci rialziamo… Non ci ama solamente quando o perché siamo buoni ma per farci amici di Cristo. Non siamo dei robot di fronte a lui ma persone in rapporto personale con Lui, spesso inquieto nell’attenderci.”Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima”.
In forma narrativa Papa Francesco traduce quella speranza affidabile che ogni uomo, comunque ridotto, ne sente il bisogno.
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