Rimanete in me io in voi
“Rimanete un me e io in voi” (Gv 15,4), E noi, vescovi, sacerdoti, consacrati, seminaristi non smemorati, sappiamo bene cosa significa: contemplarLo, adorarLo e abbracciarLo, nel nostro incontro quotidiano con Lui nell’Eucaristia, nella nostra vita di preghiera, nei nostri momenti di adorazione; riconoscerlo presente e abbracciarlo nelle persone più bisognose. Il “rimanere” con Cristo non significa isolarsi, ma è un rimanere per andare incontro agli altri
“Guardando questa cattedrale piena di Vescovi, sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose venuti da tutto il mondo, penso alle parole del Salmo della Messa di oggi: “Ti lodino i popoli, o Dio” (Sal 66).
Sì, siamo qui per lodare il Signore, e lo facciamo riaffermando la nostra volontà di essere suoi strumenti affinché non solo alcuni popoli lodino Dio, ma tutti. Con la stessaparresia di Paolo e Barnaba, vogliamo annunciare il vangelo ai nostri giovani, perché incontrino Cristo e diventino costruttori di un mondo fraterno. In questo senso, vorrei
riflettere con voi su tre aspetti della nostra vocazione: chiamati da Dio; chiamati ad annunciare il Vangelo; chiamati a promuovere la cultura dell’incontro.
1. Chiamati da Dio. Credo che sia importante ravvivare in noi questa realtà, che spesso diamo per scontata in mezzo ai tanti impegni quotidiani: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, ci dice Gesù (Gv 15,16). E’ riandare alla sorgente della nostra chiamata. Per questo, un vescovo, un sacerdote, un consacrato, una consacrata, un seminarista non può essere “smemorato”: perde il riferimento essenziale al momento iniziale del suo cammino. Chiedere la grazia, chiederla alla Vergine, lei che aveva buona memoria; chiedere la grazia di essere persone che conservano la memoria di questa prima chiamata. Siamo stati chiamati da Dio e chiamati per rimanere con Gesù (Mc 3,14), uniti a Lui. In realtà, questo vivere, questo permanere in Cristo segna tutto ciò che siamo e facciamo. E’ precisamente questa “vita in Cristo” ciò che garantisce la nostra efficacia apostolica, la fecondità del nostro servizio: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto sia autentico” (Gv 15,16). Non è la creatività, per quanto pastorale sia, non sono gli incontri o le pianificazioni che assicurano i frutti, anche se aiutano e molto, ma quello eh assicura il frutto è l’essere fedeli a Gesù, che ci dice con insistenza: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4). E noi sappiamo bene che cosa significa: contemplarLo, adorarLo e abbracciarLo, nel nostro incontro quotidiano con Lui nell’Eucaristia, nella nostra vita di preghiera, nei nostri momenti di adorazione; riconoscerlo presente e abbracciarlo anche nelle persone più bisognose. Il “rimanere” con Cristo non significa isolarsi, ma è un rimanere per andare all’incontro con gli altri. Qui voglio ricordare alcune parole della Beata Madre Teresa di Calcutta. Dice così: “Dobbiamo essere molto orgogliose della nostra vocazione che ci dà l’opportunità di servire Cristo nei poveri. E’ nelle “ favelas”, nei “cantegriles”, nelle “villas miseria”, che si deve andare a cercare e servire Cristo. Dobbiamo andare da loro come il sacerdote si reca all’altare, con gioia” (Mother Instructions, I, p. 8°). Gesù è il Buon Pastore, è il nostro vero tesoro; per favore, non cancelliamolo dalla nostra vita!Radichiamo sempre più il nostro cuore in Lui” (Lc 12,34).
2. Chiamati ad annunciare il Vangelo. Molti di voi, carissimi Vescovi e sacerdoti, se non tutti, siete venuti per accompagnare i vostri giovani alla loro Giornata Mondiale. Anch’essi hanno ascoltato le parole del mandato di Gesù: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). E’ nostro impegno di Pastori aiutarli e far ardere nel loro cuore il desiderio di essere discepoli e missionari di Gesù. Certo, molti potrebbero sentirsi un po’ spaventati di fronte a questo invito, pensando che essere missionari significhi lasciare necessariamente il paese, la famiglia e gli amici. Dio chiede che siamo missionari. Dove siamo? Dove lui stesso ci colloca, nella nostra patria o dove ci ponga. Aiutiamo i giovani. Abbiamo l’orecchio attento per ascoltare le loro illusioni – hanno bisogno di essere ascoltati -, per ascoltare i loro successi, per ascoltare le loro difficoltà. Bisogna mettersi seduti, ascoltando lo stesso libretto, ma con una musica diversa, con identità differenti. La pazienza di ascoltare! Questo ve lo chiedo con tutto il cuore! Nel confessionale, nella direzione spirituale, nell’accompagnamento. Sappiamo perdere tempo con loro. Seminare, costa e affatica, affatica moltissimo! Ed è molto più gratificante godere del raccolto! Che furbizia! Tutti godiamo di più con il raccolto! Però Gesù ci chiede che seminiamo con serietà. Non risparmiamo le nostre forze nella formazione dei giovani. San Paolo usa un’espressione, che ha fatto diventare realtà nella sua vita, rivolgendosi ai suoi cristiani: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19). Anche noi facciamola diventare realtà nel nostro ministero! Aiutare i nostri giovani a riscoprire il coraggio e la gioia di essere amati personalmente da Dio, questo è molto difficile, ma quando un giovane lo comprende, quando un giovane lo sente con l’unzione che gli dona lo Spirito santo, questo “essere amato personalmente da Dio” lo accompagna poi per tutta la vita; riscoprire la gioia, che Dio ha dato al suo Figlio Gesù per la nostra salvezza. Educarli, nella missione, ad uscire, ad andare, ad essere “callejeros de la fe” (girovaghi della fede). Così ha fatto Gesù con i suoi discepoli: non li ha tenuti attaccati a sé come una chioccia con i suoi pulcini; li ha inviati! Non possiamo restare chiusi nella parrocchia, nelle nostre comunità, nella nostra istituzione parrocchiale o nella nostra istituzione diocesana, quando tante persone sono in attesa del Vangelo! Uscire inviati. Non è semplicemente aprire la porta perché vengano, per accogliere, ma è uscire dalla porta per cercare e incontrare! Spingiamo i giovani affinché escano. Certo che faranno stupidaggini. Non abbiamo paura! Gli Apostoli le hanno fatte prima di noi. Spingiamoli ad uscire. Pensiamo con decisione alla pastorale partendo dalla periferia, partendo da coloro che sono più lontani, da coloro che di solito non frequentano la parrocchia. Loro sono gli invitati VIP. Andare a cercarli nei crocevia delle strade.
3. Essere chiamati da Gesù, essere chiamati ad evangelizzare, e terzo: chiamati a promuovere la cultura dell’incontro. In molti ambienti, e in generale in questo umanesimo economicista che ci è stato imposto nel mondo, si è fatta strada una cultura dell’esclusione, una “cultura dello scarto”. Non c’è posto per l’anziano né per il figlio non voluto; non c’è tempo per fermarsi con quel povero nella strada. A volte sembra che per alcuni, i rapporti umani siano regolati da due “dogmi” moderni: efficienza e pragmatismo. Cari Vescovi, Sacerdoti, Religiosi e anche voi Seminaristi che vi preparate al ministero, abbiate il coraggio di andare controcorrente a questa cultura. Avere il coraggio! Ricordate una cosa, a me questo fa molto bene e lo medito frequentemente: prendete il Primo Libro deiMaccabei, ricordate quanto molti (Non i Maccabei, NDR) vollero adeguarsi alla cultura dell’epoca: “No…!Lasciamo,no…!Mangiamo di tutto, come tutta la gente…Bene, la Legge sì, ma che non sia tanto…”. E finirono per lasciare la fede per mettersi nella corrente di questa cultura. Abbiate il coraggio di andare controcorrente a questa cultura efficientista, a questa cultura dello scarto. L’incontro e l’accoglienza di tutti, la solidarietà – una parola che si sta nascondendo in questa cultura, quasi fosse una cattiva parola -, la solidarietà e la fraternità, sono elementi che rendono la nostra civiltà veramente umana. Essere servitori della comunione e della cultura dell’incontro! Vi vorrei quasi ossessionati in questo senso. E farlo senza essere presuntuosi, imponendo “le nostre verità”, ma bensì guidati dall’umile e felice certezza di chi è stato trovato, raggiunto dalla Verità che è Cristo e non può non annunciarla (Lc 24,13-35).
Cari fratelli e sorelle, siamo chiamati da Dio, con nome e cognome, ciascuno di noi, chiamati ad annunciare il Vangelo e a promuovere con gioia la cultura dell’incontro. La Vergine Maria è nostro modello. Nella sua vita ha dato “l’esempio di quell’affetto materno che dovrebbe ispirare tutti quelli che cooperano nella missione apostolica che ha la Chiesa di rigenerare gli uomini” (Lumen gentium, 65). Le chiediamo che ci insegni a incontrarci ogni girono con Gesù. E quando facciamo finta di niente, perché abbiamo molte cose da fare e il tabernacolo rimane abbandonato, che ci prenda per mano. Chiediamoglielo! Guarda, madre, quando sono disorientato, conducimi per mano. Che ci spinga a uscire all’incontro di tanti fratelli e sorelle che sono nella periferia, che hanno sete di Dio e non hanno chi lo annunzi. Che non ci butti fuori di casa, ma che ci spinga ad uscire di casa. E così siamo discepoli del Signore. Che Ella conceda a tutti questa grazia” (Papa Francesco,Omelia, 27 luglio 2013).
Sul promuovere la cultura dell’incontro tra generazioni e tra fede e ragione Papa Francesco è tornato nel discorso alla classe dirigente del Brasile. “Memoria del passato e utopia verso il futuro si incontrano nel presente, che non è una congiuntura senza storia e senza promessa, ma un momento nel tempo, una sfida per raccogliere saggezza e saperla proiettare. Quanti, in una Nazione, hanno un ruolo di responsabilità, sono chiamati ad affrontare il futuro “con la sguardo calmo di chi sa vedere la verità”, come diceva il pensatore brasiliano Alceu Amoroso Lima”
Occorre scorgere le utili luci della fede sorte lungo la storia del popolo brasiliano che ha ricevuto anche la linfa del Vangelo, la fede in Gesù Cristo, nell’amore di Dio e la fraternità con il prossimo. “La ricchezza di questa linfa può fecondare un processo culturale fedele all’identità brasiliana e, al tempo stesso, un processo costruttore di un futuro migliore per tutti. Un processo che fa crescere l’umanizzazione integrale e la cultura dell’incontro e della relazione; questo è il modo cristiano di promuovere il bene comune, la gioia di vivere. E qui convergono fede e ragione, la dimensione religiosa con i diversi aspetti della cultura umana: arte, scienza, lavoro, letteratura…Il cristianesimo unisce trascendenza e incarnazione; per la capacità di rivitalizzare sempre il pensiero e la vita, di fronte alla minaccia della frustrazione e del disincanto che possono invadere i cuori”.
“Tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità (cioè alla realtà in tutti gli ambiti). Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media, quando dialogano. E’ impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica e nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti. Considero anche fondamentale in questo dialogo il contributo delle grandi tradizioni religiose, che svolgono un fecondo ruolo di lievito della vita sociale e di animazione della democrazia. Favorevole alla pacifica convivenza tra religioni diverse è la laicità dello Stato, che, senza assumere come propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la dimensione religiosa nella società, favorendone le sue espressioni più concrete….L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia, una società, l’unico per far progredire la vita dei popoli, (come ho detto ai Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e religiose, ai seminaristi) è la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. L’altro ha sempre qualcosa da darmi, se sappiamo avvicinarci a lui con atteggiamento aperto e disponibile, senza pregiudizi. Questo atteggiamento aperto, disponibile e senza pregiudizi, lo definirei come “umiltà sociale” che è ciò che favorisce il dialogo. Solo così può crescere una buona intesa fra le culture e le religioni, la stima delle une per le altre senza precomprensioni gratuite e in un clima di rispetto per i diritti di ciascuna. Oggi, o si scommette sul dialogo, o si scommette sulla cultura dell’incontro, o tutti perdiamo, tutti perdiamo. Per qui va il cammino fecondo”.
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