Nuova evangelizzazione nell'assenza di Dio
La povertà spirituale di non percepire più come privazione l’assenza di Dio rappresenta, anche a livello ecumenico, una sfida per tutti i cristiani e non solo per i cattolici
“Quest’anno la vostra Plenaria focalizza l’attenzione sul tema: “L’importanza dell’ecumenismo per la nuova evangelizzazione”. Con tale scelta vi ponete opportunamente in continuità con quanto è stato preso in esame durante la recente Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, e, in un certo senso, intendete dare una forma concreta, secondo la particolare prospettiva del Dicastero, a quanto è emerso in quell’Assise. Inoltre, la riflessione che state conducendo si inserisce molto bene nel contesto
dell’Anno della fede che ho voluto come momento propizio per riproporre a tutti il dono della fede in Cristo risorto, nell’anno in cui celebriamo il 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II. Come è noto, i Padri conciliari hanno inteso sottolineare lo strettissimo legame che esiste tra il compito dell’evangelizzazione e il superamento delle divisioni esistenti tra cristiani. “Tale divisione – si afferma all’inizio del Decreto Unitatis redintegratio – contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del vangelo a ogni creatura” (n.1). L’affermazione del Decreto conciliare riecheggia la “preghiera sacerdotale” di Gesù, quando, rivolgendosi al Padre, Egli chiede che i suoi discepoli “siano una cosa sola, perché il mondo creda” (Gv 17,21). In questa grande preghiera ben quattro volte invoca l’unità per i discepoli di allora e per quelli del futuro, e due volte indica come scopo di tale unità che il mondo creda, che Lo “riconosca” come mandato dal Padre. C’è dunque uno stretto legame tra la sorte dell’evangelizzazione e la testimonianza dell’unità tra i cristiani.
Un autentico cammino ecumenico non può essere perseguito ignorando la crisi di fede che stanno attraversando vaste regioni del pianeta, tra cui quelle che per prime accolsero l’annuncio del Vangelo e dove la vita cristiana è stata per secoli fiorente. D’altra parte, non possono essere ignorati i numerosi segni che attestano il permanere di un bisogno di spiritualità, che si manifesta in diversi modi. La povertà spirituale di molti dei nostri contemporanei, che non percepiscono più come privazione l’assenza di Dio dalla loro vita, questa povertà spirituale rappresenta una sfida per tutti i cristiani. In questo contesto, a noi credenti in Cristo viene chiesto di ritornare all’essenziale, al cuore della nostra fede, per rendere insieme testimonianza al mondo del Dio vivente, cioè di un Dio che ci conosce e che ci ama, nel cui sguardo viviamo; di un Dio che aspetta la risposta del nostro amore nella vita di ogni giorno. E’ dunque motivo di speranza l’impegno di Chiese e Comunità Ecclesiali per un rinnovato annuncio del Vangelo all’uomo contemporaneo. Date infatti testimonianza del Dio vivente, che si è fatto vicino in Cristo, è l’imperativo più urgente per tutti i cristiani, ed è anche un imperativo che ci unisce, malgrado l’incompleta comunione ecclesiale che tutt’ora sperimentiamo. Non dobbiamo dimenticare ciò che ci unisce, cioè la fede in Dio, Padre e Creatore, che si è rivelato nel Figlio Gesù Cristo, effondendo lo Spirito che vivifica e santifica. Questa è la fede del Battesimo che abbiamo ricevuto ed è la fede che, nella speranza e nella carità, possiamo insieme professare. Alla luce della priorità della fede si comprende anche lì’importanza dei dialoghi teologici e della conversazioni con le Chiese e le Comunità ecclesiali in cui la Chiesa cattolica è impegnata. Anche quando non si intravvede, in un immediato futuro, la possibilità del ristabilimento della piena comunione, essi permettono di cogliere, insieme e resistenze e ostacoli, anche ricchezze di esperienze di vita spirituale e di riflessioni teologiche, che diventano stimolo per una sempre più profonda testimonianza.
Non dobbiamo, però dimenticare che la meta dell’ecumenismo è l’unità visibile tra i cristiani divisi. Questa unità non è un’opera che possiamo semplicemente realizzare noi uomini. Noi dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, ma dobbiamo anche riconoscere che, in ultima analisi, questa unità è dono di Dio, può venire solamente dal Padre mediante il Figlio, perché la Chiesa è la sua Chiesa. In questa prospettiva, appare l’importanza di invocare l’unità visibile dal Signore, ma emerge anche come la ricerca di tale meta sia rilevante per la nuova evangelizzazione. Il fatto di camminare insieme verso questo traguardo è una realtà positiva, a condizione, però, che le Chiese e Comunità ecclesiali non si fermino lungo la strada, accettando le diversità contraddittorie come qualcosa di normale o come il meglio che si possa ottenere. E’ invece nella piena comunione nella fede, nei sacramenti e nel ministero che si renderà evidente in modo concreto la forza presente ed operante di Dio nel mondo. Attraverso l’unità visibile dei discepoli di Gesù, unità umanamente inspiegabile, si renderà conoscibile l’agire di Dio che supera la tendenza del mondo alla disgregazione.
Cari mici, voglio augurare che l’Anno della fede contribuisca anche al progresso del cammino ecumenico. L’unità è, da un lato, frutto della fede e, dall’altro, un mezzo e quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore o che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, hanno quasi dimenticato questo dono prezioso. Il vero ecumenismo, riconoscendo il primato dell’azione divina, esige innanzitutto pazienza, umiltà, abbandono alla volontà del Signore. Alla fine, ecumenismo e nuova evangelizzazione richiedono entrambi il dinamismo della conversione, inteso come sincera volontà di seguire Cristo e di aderire pienamente alla volontà del Padre” (Benedetto XVI, Ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani, 15 novembre 2012).
Il Simbolo possiede una valenza ecumenica. Durante i vari incontri ecumenici è possibile verificare l’esigenza dei cristiani di voler professare insieme, visibilmente la comune matrice della loro fede. La preghiera del Padre nostro esprime a pieno titolo lo stesso fondamento che scaturisce dall’unico battesimo; eppure, proprio in forza dello stesso battesimo sembra necessario confessare pubblicamente anche l’unità della fede. Le divisioni che sono incorse durante i secoli, purtroppo, hanno intaccato proprio alcuni contenuti della fede e rimane ancora problematica la prassi da adottare per rispettare, da una parte, la natura del Simbolo, dall’altra, l’esigenza propria delle diverse Chiese e Comunità che provengono dalla Riforma. Lutero, da buon agostiniano, commenta la professione di fede apostolica nei suoi catechismi e questo Simbolo rimane in quelle Comunità con tutta la sua valenza significativa fino ai nostri giorni. Le Chiese ortodosse, invece, prefersicono fare riferimento al Credo niceno – costantinopolitano. La cosa non è indolore nel momento in cui si sceglie di recitare questo Simbolo durante un incontro ecumenico con i cattolici. Il problema che si pone, in prima istanza, non tocca la presenza o meno del Filioque. Come si sa, cattolici e ortodossi convengono sulla dizione originaria del Concilio di Costantinopoli dove l’espressione non è presente. In ogni caso, c’è da domandarsi seriamente se è possibile per i cattolici soprassedere dal pronunciare il Filioque, visto che in ogni caso la formula appartiene allo sviluppo dogmatico( lo Spirito Santo procede dal Padre come da unico principio, attraverso il Figlio) e si presenta come una lettura latina del mistero trinitario complementare a quella ortodossa. Ciò che preme considerare, comunque, è il significato teologico ed ecclesiale che quel Simbolo possiede fin dalla sua origine. Il Credo niceno – costantinopolitano, infatti, fu sempre considerato universalmente come il segno dell’unità di tutte le Chiese tra di loro. Nel professare quel Simbolo, ogni Chiesa si sentiva in comunione piena con le altre proprio perché ognuna e tutte insieme si ritrovavano nella stessa fede. A partire dalla professione di fede di Nicea – Costantinopoli, insomma, il Simbolo acquistò un valore dichiarativo; la Chiesa iniziò ad assumerlo come segno espressivo della comunione interecclesiale. In qualche modo, il Simbolo divenne la regula fidei della comunità cristiana. Come sarebbe significativo se ogni Domenica fosse cantato in latino in quest’Anno della fede.
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