Fede e Tradizione
“Credere” in un tempo nel quale al posto del pensiero della ‘tradizione’ o continuità ecclesiale come veicolo della verità di fede che è il sacramento della persona viva di Gesù Cristo, è subentrata l’idea del ‘progresso’ o discontinuità del cominciare tutto di nuovo
“Al profondo fossato esistente fra ‘visibile’ e ‘invisibile’ viene ad aggiungersi per noi, come aggravante, quello esistente fra ‘ieri’ e ‘oggi’. Il paradosso di fondo, già insito sostanzialmente nella fede, viene ulteriormente acuito dal fatto che la fede ci si presenta nelle vesti di un tempo, anzi sembra addirittura incarnare il passato, la forma di vita e di esistenza tipica di un’età remota. Tutti gli ammodernamenti, si chiamino ‘demitizzazioni’ accademico – intellettuali o ‘aggiornamenti’ pragmatico – ecclesiali, non cambiano affatto questo stato di cose; viceversa, fatti in tal senso accrescono il sospetto
che qui ci venga convulsivamente spacciato per attuale qualcosa che in realtà è appunto il passato. Questi tentativi di aggiornamento fanno capire, già di per se stessi, sino a quel punto ciò in cui ci imbattiamo sia di ‘ieri’. La fede ormai non sembra quindi più soltanto l’audace salto che provoca la generosità dell’uomo a slanciarsi dall’apparente tutto del nostro mondo visibile all’apparente nulla dell’invisibile e dell’inafferrabile; ci sembra invece ancora la pretesa di vincolarci oggi all’imposizione di ieri, rievocandola come valore perenne. Ora, chi mai vuole questo in un tempo nel quale al posto del pensiero della ‘tradizione’, è subentrata l’idea del ‘progresso’?
Qui ci imbattiamo, cammin facendo, in un tratto specifico della nostra situazione odierna, che riveste una certa importanza per il nostro problema. Per le costellazioni spirituali del passato il concetto di ‘tradizione’ costituiva un incisivo programma; essa appariva come una solida struttura protettiva, a cui l’uomo poteva fiduciosamente affidarsi; egli poteva credere con certezza e a colpo sicuro, non appena poteva richiamarsi alla tradizione. Oggi, invece, predomina proprio il sentimento contrario: la tradizione appare come ciò che è superato, ormai sorpassato dagli eventi, mentre il progresso è come l’autentica promessa insita nell’essere, sicché l’uomo non si sente a casa sua nell’ambito della tradizione, del passato, bensì nell’alveo del progresso e del futuro. Anche per questo motivo una fede che gli si incontra con l’etichetta della ‘tradizione’ deve apparirgli come qualcosa di superato, che non può costruire il luogo della sua esistenza, per lui che ha riconosciuto nel futuro il campo obbligato dei suoi progetti e delle sue prospettive. Tutto ciò comporta logicamente che lo scandalo primario della fede, ossia il divario fra visibile e invisibile, fra Dio e non – Dio, viene messo in ombra e occultato dallo scandalo secondario costituito dallo stridente contrasto fra ieri e oggi, dall’antitesi fra tradizione e progresso, dal forzato vincolo al passato che la fede sembra implicare.
Che poi né lo spiccato intellettualismo della demitizzazione né il pragmatismo dell’aggiornamento risultino davvero convincenti, lo sta a dimostrare il fatto che anche questo travisamento dello scandalo fondamentale della fede cristiana è una cosa molto incisiva, alla quale non si riesce a ovviare facilmente né con le teorie né con le azioni. Anzi, in un certo senso, qui si manifesta in maniera tangibile la peculiarità della scandalo cristiano,quel tratto che potremmo chiamare positivismo cristiano, l’inalienabile positività dell’essere – cristiano. Intendo dire questo: la fede cristiana non ha a che fare soltanto –come di primo acchito si potrebbe presumere sentendo parlare di fede – con l’eternità, che esulerebbe completamente dal mondo e dal tempo umano, in quanto totalmente altro; essa ha invece a che fare col Dio nella storia, col Dio fattosi uomo. Nello stessa momento in cui essa sembra colmare il fossato fra eterno e temporale, fra visibile e invisibile, facendo incontrare Dio in veste d’uomo, l’Eterno sotto l’aspetto di ciò che è legato al tempo, come uno di noi, sa di essere rivelazione. La pretesa di essere rivelazione si basa sul fatto che essa ha, per così dire, introdotto l’Eterno nel nostro mondo: “Nessuno ha mai veduto Dio; soltanto l’Unigenito Figlio che è nel seno del Padre ce l’ha fatto conoscere di persona” (Gv 1,18). Egli è divenuto per noi l’esegesi di Dio, si potrebbe quasi dire rifacendoci direttamente al testo greco. Ma atteniamoci al significato usuale della parola; l’originale ci autorizza a prenderla realmente alla lettera: Gesù ci ha veramente di – spiegato Dio, facendolo uscire da se stesso, oppure – come dice ancor più drasticamente la prima lettera di Giovanni – dandocelo da vedere con i nostri occhi, da toccare con le nostre mani, sicché Colui che nessuno ha mai visto si lascia ora storicamente toccare da noi.
A prima vista ciò sembra veramente il massimo della rivelazione, dello svelamento di Dio. Il salto, che sinora conduceva all’infinito, sembra adesso ridotto a un ordine di possibile grandezza umana; ci basterebbe, infatti, fare, per così dire, ancora quattro passi verso quell’Uomo venuto al mondo in Palestina, pèr rincontravi Dio stesso. Le cose, però, mostrano qui una strana duplice peculiarità: ciò che a prima vista sembrerebbe costituire la più radicale rivelazione, e in un certo senso la rivelazione effettivamente valida per sempre, larivelazione per eccellenza, rappresenta contemporaneamente il sommo occultamento e nascondimento. Ciò che a prima vista sembra avvicinarci a Dio tanto da poterlo sfiorare come nostro fratello d’umanità, da poterne seguire le orme misurandone addirittura la lunghezza, proprio questo ha finito per trasformarsi intrinsecamente nella più terribile premessa per la ‘morte di Dio’, da cui risulta irrevocabilmente segnato il corso della storia e il rapporto umano con Dio. Dio si è tanto avvicinato a noi da permetterci persino di ucciderlo, cessando così apparentemente di essere per noi realmente Dio. Noi uomini di oggi restiamo quasi ammutoliti di fronte a questa ‘rivelazione’ cristiana, e ci chiediamo – specialmente qualora la confrontiamo con la religiosità dell’Asia – se in fin dei conti non sarebbe stato per noi assai più facile credere nell’Eterno avvolto nel mistero, pensando a lui, anelando a lui e confidando in lui. Ci chiediamo se non sarebbe stato quasi meglio che Dio ci avesse lasciati a una distanza infinita; se effettivamente non sarebbe stato assai più agevole, trascendendo ogni realtà mondana, cercare di cogliere attraverso una tranquilla contemplazione il mistero eternamente inafferrabile, invece di abbandonarsi al positivismo della fede in un’unica figura, collocando così la salvezza dell’uomo e del mondo come sulla punta d’ago di quest’unico punto di incidenza. Questo Dio, ristretto a un unico punto, non deve forse morire definitivamente nell’immagine di un mondo che ridimensiona inesorabilmente l’uomo e la sua storia a un infinitesimale granello di polvere nell’universo, così che solo nell’ingenuità della sua infanzia l’uomo aveva potuto considerarsi come il centro dell’universo? Questo stesso uomo però, uscito dall’infanzia, non dovrebbe ora finalmente avere il coraggio di destarsi del tutto, tergendosi gli occhi e scuotendosi da quella pazzesca illusione, per bella che fosse, inserendosi senza indugi in quel grandioso complesso di cui la nostra minuscola vita non è che una microscopica cellula, la quale dovrebbe ritrovare un senso proprio così, nell’ammettere la sua esiguità?
Solo acutizzando il problema così, e scorgendo quindi come dietro lo scandalo apparentemente secondario dell’antitesi ‘ieri – oggi’ stia invece quello assai più profondo del‘positivismo’ cristiano, il ‘restringimento’ di Dio a un unico punto della storia, solo così siamo arrivati a cogliere tutta la profondità del problema della fede cristiana, come oggi va affrontato. Insomma, siamo ancora in grado di credere? Anzi, dobbiamo chiederci ancora più radicalmente: possiamo ancora, oppure, non abbiamo persino il dovere di smetterla di sognare per affrontare la realtà? Il cristiano di oggi deve porsi queste domande; non può più accontentarsi di constatare come, pur in mezzo a tutte le svolte e le sterzate, si possa infine trovare ancora un’interpretazione del cristianesimo che non urti più nessuno. Se per esempio, un teologo dichiarasse che “risurrezione dei morti” significa solo che bisogna affrontare ogni giorno di bel nuovo, incessantemente, l’opera di dar forma al futuro, lo scandalo risulterebbe sicuramente evitato. Ma in tal caso saremmo stati davvero onesti? Non si dimostra, invece, una pericolosa disonestà quando si reputa sostenibile anche al giorno d’oggi il cristianesimo, ricorrendo però a tali artifici interpretativi? Oppure, sentendoci spinti a funambolismi del genere, non abbiamo invece il dovere di ammettere che siamo proprio alla fine? E allora, non siamo forse obbligati a dissipare una buona volta la nebbia, ponendoci con tutta franchezza di fronte alla realtà che permane? Diciamolo energicamente: un cristianesimo scaduto in questo modo a vuota interpretazione denota una mancanza di sincerità verso gli interrogativi dei non cristiani, il cui “forse non è vero” ci deve assillare tanto seriamente quanto noi desideriamo che assilli loro il “forse è vero” dei cristiani.
Quando tentiamo di far nostre, in questa maniera, le domande altrui, vedendo in esse una continua rimessa in discussione del nostro proprio essere, che non si può condensare in un trattato e poi accantonare, avremo il diritto di constatare come qui insorga una contro – domanda. Noi oggi tendiamo per principio a considerare genuinamente reale soltanto ciò che ha un’esistenza tangibile, ciò che è ‘dimostrabile’. Ma è davvero lecito fare così? E’ solo il constatato e constatabile, oppure l’azione stessa del constatare non è invece solo una maniera ben determinata di comportarsi di fronte alla realtà, una modalità quindi che non è assolutamente in grado di comprendere il tutto (cioè la realtà in tutti gli ambiti o verità), e che può persino condurre alla falsificazione della verità e dell’essenza stessa dell’uomo, qualora lo assumiamo come l’unica decisiva? Ponendoci questi interrogativi, veniamo ricondotti al dilemma ‘ieri – oggi’, ora posti di fronte alla problematica specifica del nostro oggi” (Joseph Ratzinger,Introduzione al cristianesimo, Brescia 2007, pp. 45-50).
Sia a livello accademico – intellettuale e sia a livello di aggiornamenti pragmatico ecclesiali non è ragionevole la pretesa di una ragione a – storica che cerca di auto costruirsi soltanto in una razionalità a – storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee: non si può gettare nel cestino della storia liturgica la forma straordinaria dell’unico rito romano o escludere la forma ordinaria della riforma.
Certamente non si deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere donata in libertà. Compito, nella nuova evangelizzazione, del ministero pastorale della Chiesa è mantenere desta la sensibilità per tutti gli ambiti della realtà cioè la verità: invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così nella sua continuità dinamica o Tradizione la persona viva di Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro. La Tradizione non si può condensare in un trattato catechistico, teologico, dogmatico ma innanzitutto nella trasmissione continua della presenza sacramentale del Crocefisso risorto il cui incontro suscita la fede e un orizzonte nuovo espresso in conseguente, e sempre migliorabile, patrimonio dogmatico, teologico, catechistico senza alcuna frattura fra ‘ieri’ e ‘oggi’.
Interessante come san Paolo, nella Lettera agli Efesini, esprime la rivelazione storica del mistero cioè la risposta alle domande fondamentali da dove veniamo, a cosa siamo destinati: “ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). Siamo condotti da questo positivismo cristiano all’origine del nostro esserci: alla sua radice eterna “ci ha scelti”:ciascuno di noi è stato pensato e voluto nel suo essere dono unico e irripetibile fra tante possibili persone umane, dalla persona del Donatore divino. Lo sguardo del Padre si è posato su di te, a preferenza di tanti altri: sei stato scelto. Quando è accaduto questo? “…prima della creazione del mondo”. Il mondo, questo universo immenso entro cui ti senti come un granello di polvere, non esisteva ancora e Dio Padre ti ha pensato e voluto liberamente, ha scelto te. Se dunque esisti, non è per caso: all’origine c’è il Logos, una ragione. Ma ci ha scelti, pensati e voluti in Cristo, nel Logos. Quando il Padre ha pensato e voluto il Cristo, la Ragione della creazione, ha pensato e voluto anche ciascuno di noi. Con lo stesso atto di pensiero e colla stessa decisione di volontà con cui ha pensato e voluto Cristo, ha pensato e voluto ciascuno di noi, singolarmente presi, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi. Dio è persona, ognuno di noi è persona, al centro di tutto: questa è la rivelazione cristiana, l’umanesimo cristiano. Se siamo stati e pensati e voluti nel Verbo incarnato storicamente, questi è la nostra intelligibilità, la nostra verità, il significato del nostro esserci, il tutto in rapporto al quale valutare e scegliere ogni azione o moralità. Mente e desiderio sono stati forgiati in funzione di Lui: per conoscere il Cristo abbiamo ricevuto il pensiero; per correre verso di Lui il desiderio, e la memoria per portarlo in continuità in noi: corrisponde al desiderio originario, naturale di vedere Dio.
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