Unità tra lo spirito e la lettera del Vaticano II
Perché
la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in
modo così difficile? Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio,
dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione
“Perché la recezione del Concilio, in
grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così
difficile? Ebbene,
tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi –
dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.
I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a
confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra,
silenziosamente ma sempre più
visibilmente, ha portato e porta
frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare
‘ermeneutica della discontinuità e della
rottura’; essa non di rado si è potuta
avvalere della simpatia dei mass – media, e anche di una parte della teologia
moderna. Dall’altra parte c’è ‘l’ermeneutica
della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto
– Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però
sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
L’ermeneutica della discontinuità
rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa
postconciliare. Essa asserisce che i testi
del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito
del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali per raggiungere
l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose
vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero
spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai
testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da
essi e in conformità ad essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e
partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio
perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del
Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei
testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più
profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe
seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente,
rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo
spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però,
si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso
viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituente
vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi
di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione
deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato
loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della
Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la
vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare
anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il sacramento che
hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei
misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono
amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in
qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore,
alla fine, possa dire all’amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti
darò autorità su molto” (Mt 25,14-30; Lc 19,11-27).
In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che
interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in
un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una
cosa sola.
All’ermeneutica
della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno
presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio
l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso
di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben
note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa
inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura e integra
la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti” e continua: “Il nostro
dovere non è soltanto di custodire
questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo solo dell’antichità, ma di
dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età
esige…E’ necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere
fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda
alle esigenze del nostro tempo. Una cosa infatti è
il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra
veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate,
conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa
portata”.
E’ chiaro che
questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova
riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la
nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole
della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige
anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Giovanni
XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi tra fedeltà
e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha
guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati
frutti nuovi. Quarant’anni dopo il concilio possiamo rilevare che il positivo è
più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni
intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur
sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra
profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio” (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana,
23 dicembre
2005).
I pericoli della
‘discontinuità’ tra pre concilio e post concilio
furono già evidenziati dal filosofo francese Jean Guitton in un noto articolo “Sviluppo e non rottura della dottrina della
Chiesa” scritto nel 1966, all’immediata chiusura del Vaticano II,
sulla soglia del post Concilio. La sua lucida e profetica analisi fu in piena
armonia col sentire dell’allora papa, Paolo VI, di
cui amico, e rivela ancor oggi una perfetta aderenza al pensiero dell’attuale
Sommo Pontefice, Benedetto XVI. Ciò documenta che il senso corretto e
l’equilibrio dottrinale fu sempre presente,
fin dagli inizi, anche nella Chiesa post conciliare in
comunione con il Papa e spiriti illuminati e fedeli lo seppero attestare con
nobiltà di linguaggio e precisione di indagine. Lo strumento più grande della
comunicazione del vero cioè di Cristo risorto presente per tutti nella vita
della Chiesa è la sua stessa continuità
dinamica: si chiama Tradizione. La Tradizione è la coscienza della comunità che
vive ora, ricca della memoria di tutta la sua vicenda storica, come di tutti i
suoi 21 Concili ecumenici.
“La storia della Chiesa – scrive Guitton - insegna che i periodi difficili e “vulnerabili”
sono quelli che seguono un Concilio. I pericoli che
minacciano il Vaticano II, e ne possono ritardare e anche compromettere i
frutti, sono due:
-
da una parte “il pericolo dell’inerzia”, cioè
la ostinata resistenza interna in attesa di
ritornare alla situazione precedente, che il Concilio si è prefisso di
riformare. Ma non è il pericolo più grave per la fede.
-
Il vero pericolo è il secondo:
l’atteggiamento di coloro che vogliono vedere il Concilio non come “sviluppo
dinamico della dottrina” che conserva l’identità delle origini attraverso gli
adattamenti lungo il corso dei secoli, ma come “rottura” con il passato, come
una “riscoperta” fatta dopo quindici secoli della verità evangelica.
In altri termini, che si
contrapponga la Chiesa di Gesù Cristo alla Chiesa storica, fino a presentare
quest’ultima incomprensibile, sorpassata, estranea, anzi cieca e perfino
colpevole; e si contrappongano, quindi, cattolici a cattolici, generazioni di
ieri e generazioni di oggi.
Le accuse di
costoro si possono così formulare: finora parlando della Chiesa si è insistito,
quasi esclusivamente sull’autorità, la legge, il diritto, la gerarchia e quindi
la sottomissione. Questo tempo di ignoranza è finito. Incomincia l’era della
libertà e, di conseguenza, della dignità umana e cristiana. Ancora: finora si è
predicato che la Chiesa è legata all’idea di verità, la verità divina e
integrale comunicata attraverso una formulazione umana. Questo tempo è finito.
La verità è al di là della Chiesa, è nella convergenza di tutte le verità
possedute da tutte le famiglie spirituali verso un al di là ancora non ben
definito, che sarà il Cristo in tutto e in tutti.
Finora si è insegnato che
la Chiesa è fondata sulla roccia, cioè Pietro. E’ finito questo tempo. La Chiesa
si presenta come la comunione dei vescovi, segno della comunione dei cristiani,
della quale il papato non è che il docile interprete. Finora si era detto che la
Chiesa non è di questo mondo, che essa si oppone allo spirito di questo secolo.
Finiti questi tempi. La Chiesa riconosce che lo Spirito opera come storia del
mondo, che questa è una specie di rivelazione, per cui la Chiesa si deve porre
alla scuola e in ascolto del mondo in molte cose.
E si potrebbe continuare
l’elenco di queste posizioni dialettiche.
La verità - risponde il pensatore cattolico – è fatta
dell’unione di verità complementari. L’errore è una verità dissociata dal suo
complemento e disintegrata. La verità non è una sola verità isolata: è l’unione
delle verità. Questo è il significato profondo e la grandezza del cattolicesimo:
che nella verità una e universale s’ingrandiscono tutte le
verità.
Si deve, pertanto,
affermare contemporaneamente e in una giusta interdipendenza l’autorità della
legge e la libertà dell’individuo, la forza della verità e la libertà di
iniziativa della persona, l’intransigenza nell’affermare ciò che non può essere
messo in discussione e il rispetto delle opinioni e della
ricerca.
Ancora: l’unità, anzi, l’unicità del cristianesimo che è
la religione della pienezza, e l’unione delle Chiese che partecipano a questa
pienezza senza che la possiedano tutt’intera singolarmente: questo è il compito,
radioso e doloroso ad un tempo, che l’ecumenismo di domani avrà davanti a sé più
dell’ecumenismo di ieri. Ancora: bisogna affermare
contemporaneamente il potere di Pietro, uno dei dodici,
ma capo e arbitro e supremo responsabile, e il potere dei dodici riuniti
che lo Spirito santo ha scelti e costituiti a reggere la Chiesa di
Dio. E’ un’impresa difficile definire le istituzioni che permettano l’armonico
operare di questi due poteri uguali, di cui uno è subordinato all’altro.
Ancora: si deve armonizzare
l’amore evangelico del mondo con la trascendenza della verità, alla quale tante
volte il mondo si oppone; conservare la purezza del fermento mescolato alla
pasta; assimilare senza essere assimilati; insegnare e dialogare: compito
difficile e sublime.
Dopo il Concilio la
vocazione alla sintesi misteriosa e suprema – vocazione propria dei cattolici –
mobilita ed esalta in sommo grado le forze dello spirito e dell’amore. Ed è
dolce e duro portare il nome dei cattolici.
L’avvenire del Concilio è in questa capacità di giusta
interpretazione, che richiede uno sforzo vigilante e continuo di buona volontà e
di intelligenza da parte di tutti, perché il concilio porti tutti i suoi
frutti”.
Quel periodo di interpretazione fondata su un’idea di
discontinuità, che insorse nei primi anni del post concilio, è ricordato da
Benedetto XVI invitando tutti a non ripetere il tragico errore: “Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II
alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che
la Chiesa pre – conciliare fosse finita e ne
avremmo avuta un’altra, totalmente
“altra”. Un
utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della
barca di Pietro, Papa Paolo VI e Giovanni Paolo II,
da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso
tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa
di peccatori e sempre luogo di grazia”.
E’ mediante la Chiesa che
Dio salva l’intera umanità. In un’intervista al card. Ratzinger in Sale della terra, p. 257. “In questa considerazione sul rapporto Chiesa – mondo, splende la
coscienza dell’insostituibile identità e forza della Chiesa Cattolica per la
salvezza del mondo.
Domanda: Riguardo alla missione
della Chiesa nel mondo il cardinale inglese Newman una volta osservò: “Solo
perché ci siamo noi cristiani, perché c’è una rete internazionale di comunità
diffusa in tutta la terra, viene fermato il declino del
mondo. La
sussistenza del mondo è legata alla sussistenza della Chiesa. Se questa si ammala, il mondo innalzerà un lamento su se
stesso”.
Risposta: Qualcuno
può considerare questa opinione molto drastica, comunque direi che proprio la
storia delle grandi dittature atee del nostro secolo, nazionalsocialismo e
comunismo, dimostra che la caduta della Chiesa, la distruzione e l’assenza della
fede come forza plasmatrice, trascinano il mondo in rovina. E se nel paganesimo
precristiano aveva ancora una certa innocenza e il legame con gli dei
rappresentava ancora dei valori originari, che ponevano dei limiti al male, ora,
se cedono le forze che si oppongono al male, il tracollo sarà ancora più
spaventoso. Con certezza empirica si può dire che se
improvvisamente la forza morale, che la fede cristiana rappresenta, venisse
sottratta all’umanità, essa vacillerebbe come una nave speronata da un iceberg e
ci sarebbe un grave pericolo per la sopravvivenza
dell’umanità”.
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