L'unità segno di riconoscimento della Chiesa
L’unità
è il segno di riconoscimento, il ‘biglietto da
visita’ della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio, dal
giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede
le Chiese particolari e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un
criterio di unità e di universalità
“Questo è l’effetto dell’opera di Dio:
l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento, il ‘biglietto da visita della Chiesa nel corso della sua
storia universale. Fin dall’inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte
le lingue. La Chiesa universale precede la
Chiese particolari, e queste devono sempre
conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e di universalità.
La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e
culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazione di
Stati, perché la sua unità è di genere
diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane. Da questo, cari
fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana:
quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di
agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito santo. Il cammino dei
cristiani e della Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della
Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con essa. Ciò non significa che l’unità
creata dalla Spirito santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario questo
è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura che potremmo
definire ‘tecnica’. La Bibbia, infatti, ci dice che a Babele tutti parlavano una
sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo
che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità dello Spirito si
manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e
molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e
nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere
segno e strumento di unità di tutto il genere umano, solo se rimane autonoma da
ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni
luogo la Chiesa deve essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti
in cui ciascuno si può ritrovare” (Benedetto
XVI, Omelia di Pentecoste, 23 maggio
2010).
Ma il dono soprannaturale
dell’unità esige anche di essere adeguatamente espresso e di assumere forma
visibile soprattutto in ciò che è fonte e culmine del convenire, della vita
ecclesiale: la liturgia o presenza e azione
sacramentale del Crocefisso risorto in persona. La liturgia è, per il
suo stesso essere, proiettata verso l’orizzonte dell’unità perché con il
Risorto, con la partecipazione alla sua vita, non ci sono più separazioni. La
diversità tra forma extra-ordinaria e forma ordinaria dell’unico rito romano è
assunta nel processo verso l’unità. Mentre l’unità è nell’ordine dei fini, la
diversità anche nella preghiera liturgica è in quello dei mezzi: non è quindi
fine a se stessa. La diversità deve essere una nota dell’unità, non
un’alternativa. Quando invece la diversità perdesse il rapporto con l’unità e
venisse ‘idolatrata’ in se
stessa, mancherebbe miseramente al suo fine e comprometterebbe il piano di Dio
che è uno e unico. Infatti quando le diversità, per
esempio tra forma ordinaria ed
extra-ordinaria dell’unico rito romano, assurgono ideologicamente a
valori assoluti e si chiudono all’orizzonte aperto della “sostanziale unità del Rito romano”
provocano un arresto e generano un processo di decomposizione nella Chiesa e
nella storia umana, per ragioni teologiche e costituzionali della Chiesa, che ha
in Roma il centro della sua unità e della sua cattolicità. Chi non si sente
romano difficilmente potrà assimilare tutto lo spirito della liturgia. La
romanità è la salvaguardia della purezza dello spirito liturgico. Le deviazioni
in materia di liturgia, come in tanti altri campi del pensiero e della pratica
della vita cristiana, hanno di solito come base la mancanza di romanità.
Un eccessivo e chiuso patriottismo fa vedere come un rivale
l’amore a Roma, e qualifica d’incomprensione le sue norme, e come dispotiche
imposizioni, le sue leggi. La romanità anche liturgica è la base – come
ricordava Paolo VI il 14 ottobre del 1968 al Consilium liturgico -
della nostra cattolicità. E citando E. Bishof “La
maniera romana non manca di virtù sue proprie, virtù tanto indispensabili e
degne di essere apprezzate, in quanto la storia religiosa d’Europa in diverse
fasi permette di constatare i dannosi effetti che sono derivati dal loro
misconoscimento”. Quanto è importante oggi che attraverso una forte azione
secolarizzante mediatica si crea, ingigantendo eventuali limiti, diffidenza
verso la Curia cioè verso l’esercizio del magistero pontificio di Benedetto XVI
che nell’Omelia di insediamento
del 8 maggio 2005 disse: “In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo
anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti
i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: “Si dirà di Sion: l’uno e l’altro è
nato in essa”(v. 5). Similmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in
qualche modo, siamo tutti nati a Roma”. E nel Motu proprio Summorum Pontificum afferma, con l’autorità pontificia,
che sia la forma ordinaria ed extra-ordinaria fan parte dell’unico Rito Romano.
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