Cristiani dritti di fronte al mondo, inginocchiati di fronte a Dio
I cristiani sono dritti di fronte al mondo, in
ginocchio come figli nel Figlio davanti al Padre
“Se ci domandiamo in che cosa consista
l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo
dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta
sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua
personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio nessuno lo
ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del
Padre…lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è
veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo
affidarci. L’evangelista Marco, che ha
conservato i ricordi di Pietro, ci
racconta che Gesù, all’appellativo “Abba”,
ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo
potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la
possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.
Prima di
riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la
nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo
all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci
dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39;
Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale
è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio.
Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in
ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la lapidazione, Pietro nel
contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio.
Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella
Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella
preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del
male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in
quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio,
noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in
questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.
Gesù lotta
con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta
l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto
semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni
creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si
tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede
la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene
incontro in quel calice che deve bere. E’ lo sconvolgimento del
totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo
mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia
mortale di Gesù è un elemento essenziale del processo di Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto,
ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento
sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore
compie l’ufficio del sacerdote: Prende su di sé il peccato
dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.
Infine,
dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul
Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è
possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò
che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale
dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti a una cosa così immane.
Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa
volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha
trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale
dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di
Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso
voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di
essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra
volontà. Dio appare il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da
Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi.
E’ questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna
di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio,
si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero,
ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se
siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente
“come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui
o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi
Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la
via verso la libertà. Preghiamo Il Signore di introdurci in
questo “si” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente
liberi” (Benedetto XVI, Omelia
della Santa Messa nella Cena del Signore, 5
aprile 2012).
Il Giovedì Santo non è
solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui
splendore certamente si irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire
dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo la rivelazione definitiva di chi è Dio
e di come interviene nel mondo e questo attraverso Gesù che prega nella notte
oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale esce con i suoi discepoli; fa
parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando
va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e
l’arresto di Gesù, come il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti
al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. I discepoli, la cui vicinanza
Gesù cercò un quella sua ora di estremo travaglio come
elemento di sostegno umano, si addormentano presto. Sentirono tuttavia alcuni
frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento:
è la rivelazione definitiva, fatta in modo così sommesso, di chi è Dio e di chi
è ogni uomo che Dio ama, comunque ridotto. Ambedue le cose si impressero
profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai
cristiani per sempre come il cuore della lieta notizia, del Vangelo. Gesù
chiama Dio “Abba”. Ciò significa –
come essi aggiungono – “Padre”. Non
è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola
del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava
rivolgersi a Dio né da parte dei filosofi greci che consideravano perfino
inutile la preghiera e né da parte degli Ebrei che
nemmeno lo nominavano. E’ il linguaggio di Colui che è veramente
“bambino”, Figlio del Padre, Dio che possiede un volto umana e che
ha amato sino alla fine, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella
profonda unità con Lui e che ci ama non perché siamo buoni ma per farci
diventarlo, per farci suoi amici, figli in Lui Figlio per opera del Suo
Spirito: il Padre manifesta la sua onnipotenza soprattutto nel perodno.
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